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A colloquio con Vincenzo Romano sugli ambienti di apprendimento nel gioco del calcio

GRINTA ED ESPERIENZA DEL CALCIATORE CHE HA DIFESO I COLORI DEI LUPI E DELLA LUPA

Una conversazione con Massimiliano Serriello

Terzino destro dal fisico taurino, la chioma folta, la battuta sempre in canna, la compitezza in prima linea. Tipica del cilentano fiero dei vincoli di suolo e di sangue. Consapevole che se le cerchi, le prendi. Mentre se invece ti cercano, le dai. Di santa ragione. Avvezzo a correre la cavallina, ma anche a buttare il cuore oltre l’ostacolo. 

Da bravo difensore vecchio stampo. Arcigno. Abituato a francobollare gli attaccanti più ostici. A fargli assaggiare i tacchetti. Per dar intendere pure ai compiaciuti driblomani, convinti di mandare in bambola i loro angeli custodi, che aria tirava. Nel cingere con entusiasmo ed energia i vessilli dei Lupi e della Lupa,  interrompendo le trame di gioco avversarie sulla scorta dell’opportuna prontezza di riflessi, della condizione atletica necessaria a sudare la maglia, a dare er fritto, per dirla alla capitolina, senza mai capitolare, Vincenzo Romano (nella foto) serba fulgidi ricordi. Tanto del lungo periodo trascorso tra le fila dell’Avellino, sfiorando il traguardo storico – per una cosiddetta provinciale – del piazzamento in zona Uefa, quanto dell’anno passato con i colori giallorossi cuciti addosso, tipo una seconda pelle, nell’indimenticabile stagione 1980-1981.

Contraddistinta dall’invasione straniera. Con il blasonato ed elegante libero olandese Rudolf Krol al Napoli, l’austriaco Herbert Prohaska, centrocampista tutto fosforo ed estrema concretezza, all’Inter campione d’Italia, e, naturalmente, il divino Paulo Roberto Falcao, mediano brasiliano di Porte Alegre dai piedi benedetti dal Padreterno, alla “Magica”. Decisa a dimostrare, grazie alla rosa composta da autentici fuoriclasse, instancabili portatori d’acqua e atleti duri nella lotta, però leali nell’animo, che la definizione di “Rometta” andava ormai accantonata. Lo scudetto, sfuggito sul filo di lana a causa dei celebri dieci centimetri di passione che sconfessarono l’offside fischiato dall’arbitro Bergamo ai danni dello stopper Maurizio Turone (nella foto), autore della perentoria incornata in tuffo capace di piegare la resistenza juventina, arrivò due primavere più tardi. Allo stadio Marassi. Contro il Genoa. Vincenzo intanto aveva cambiato casacca. Indossando proprio quella dei gloriosi Grifoni. Lungi dall’inghiottire amaro e dallo sputare dolce, sulla falsariga degli ipocriti invidiosi con le parole piene di miele, contraddette dagli sguardi carichi d’acredine, il nostro affezionatissimo fu invece davvero lieto di vedere la gioia allo stato puro dipinta sui volti degli ex compagni di battaglia. Dal portiere saracinesca Franco Tancredi, in grado di sopperire con la reattività alla statura non elevata per il ruolo, al geniale folletto Bruno Conti. Ala dal talento smisurato. Dall’implacabile Roberto Pruzzo, il Bomber per antonomasia con l’elevazione da cestista che gli permetteva di rimanere sospeso la frazione di secondo necessaria a indirizzare la sfera di cuoio laddove era impossibile agguantarla, ad Agostino Di Bartolomei. Il capitano silenzioso. Munito di un tiro al fulmicotone. Timido. Caparbio. Morto suicida a Santa Maria di Castellabate, nel cuore del Cilento, perché ritenuto, almeno secondo Paolo Sorrentino ne L’uomo in più, un atleta troppo triste per il gioco del calcio. Sublimato nel lontano 1983 dalla conquista dell’ambìto tricolore.

La vittoria, secondo il caustico e appassionato presidente Dino Viola, permise a tutti i tifosi romanisti, che invasero festanti ed entusiasti il rettangolo verde al termine del match in terra ligure, di liberarsi della prigionia del sogno. Il «violese», costituito dal predominio di parole piene su quelle vuote, dall’egemonia della sagacia dei motteggi all’indirizzo del discusso strapotere bianconero sulle frasi invece d’inane e soporifera circostanza, entrò di diritto nel vocabolario tuttora in uso nel Bel Paese. Merito del valore terapeutico dell’umorismo col quale il presidentissimo estraneo a qualsivoglia sudditanza psicologica rispedì al mittente la puntura di spillo del prestigioso collega Giampiero Boniperti alla guida della blasonata e temuta Signora in merito ai famosi centimetri relativi al gol annullato a Turone («Così puoi misurarli meglio». E la replica in perfetto «violese»: «È uno strumento più adatto a un geometra come te, che a un ingegnere come me»). Nondimeno tra l’ingegner Viola ed Enzo Romano non furono rose e fiori. All’epoca le negoziazioni non venivano di sicuro stipulate in base alla par conditio: i giocatori sotto contratto erano soliti attenersi ad aut aut inflessibili delle società abituate ad avere il coltello dalla parte del manico. Il confronto avvenne a muso duro. Senza tralignare nell’ammutinamento né nell’insolenza.

Nondimeno Enzo una posizione di vantaggio non la volle concedere nemmeno da esordiente in massima serie a un campione della levatura di Gianni Rivera. Poteva anche firmare in bianco. Non esistevano problemi per il compenso economico. Stabilito dal sagace Dino alias Adino, chiamato così per declinare al maschile il personaggio muliebre che dà scacco matto all’infatuato zappatore nell’opera lirica L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti.  I puntini da mettere su tutte le “i”, concernenti le questioni di principio, rientrano nella “capa tosta” di chi nasce a Capaccio Paestum. Vicino al santuario della Madonna del Granato. Situato sul promontorio del Monte Capalzio. Con il mare, il tempio di Hera Argiva,  la foce del fiume Sele e l’ordine naturale delle cose lì, a un tiro di schioppo. A condizionare, in chiave empatica ed emblematica, i modi d’agire, di reagire, l’importanza del rispetto reciproco. I nonni d’origine irpina gli hanno instillato la cocciutaggine ad appannaggio del popolo sannita, artefice delle celebri forche caudine che ai tempi dell’antica Roma misuravano la superiorità dimostrata negli scontri con le armi in pugno, alla stessa stregua della sana accettazione di qualunque verdetto. Emesso secondo le regole. La scuola del mitico Salvatore Apadula (nella foto), a cui è stato dedicato il campo di calcio di Gromola, in segno di riconoscenza per gli insegnamenti impartiti ai “pischelli” di Capaccio sul versante del tempismo, della coordinazione, dell’attitudine al sacrificio, resta un degno biglietto da visita. Il passaggio a quindici anni dal settore giovanile della squadra G.S. Herajon alla Pro Salerno in C, nella città portuale con i pesciaioli refrattari ai campagnoli in provincia di Avellino, non procura alcuna vertigine. L’ambientamento a Rimini, con l’approdo nella serie cadetta, ne sancisce, viceversa, pure quello all’età adulta. L’ascendente esercitato nei confronti del gentil sesso lo accompagnerà nell’intero arco della carriera.

La love story con l’avvenente Ambra Orfei (nella foto), la conduttrice televisiva proveniente dall’universo circense che all’epoca del campionato di calcio a sedici squadre affianca Aldo Biscardi nella trasmissione sportiva Il Processo del Lunedì, anticipa il connubio tra il football autoctono e il mondo dello Spettacolo. Il soprannome di Tarzan, affibbiatogli per l’aspetto virile, il fisico atletico, l’indole coriacea, la capigliatura quasi selvaggia, precorre l’appellativo di Enrico Annoni. Laterale di difesa dapprincipio assai meno nerboruto. Intento in seguito ad acquisire massa muscolare e grinta da vendere, oltre che da pattuire in sede di contratto, per meritarsi l’affetto della gente sugli spalti. Vincenzo Romano, al contrario, possiede la marcia in avanti nel fattore genetico sin dalla preselezione.

Con la Roma, nonostante le dolci distrazioni notturne, comportate dai profili di Venere che l’attorniano grazie al favore delle tenebre, affronta sulla scorta della debita dedizione gli impegnativi carichi di lavoro. Non intende fare il minimo indispensabile nelle sedute di allenamento durante la settimana per portare a casa la vittoria la domenica: desidera migliorare giorno per giorno. Alla luce del sole. Per unire le capacità atletiche alle doti tecniche. Non raggiungerà mai i livelli di Pietro Vierchowood. Nel riuscire ad appaiare potenza e velocità. Tuttavia il gol segnato il 28 gennaio 1979 allo stadio Partenio di Avellino contro il Milan del kaiser Franco Baresi, di Rivera, Bigon e Capello,  con uno stacco di testa in bello stile sul cross al bacio del piccolo attaccante sardo Mario Piga, ne attesta la predisposizione allo sganciamento offensivo. Al gioco aereo. Assistito dall’animo pervicace, dalla risolutezza nei contrasti, dalla perseveranza dimostrata fronteggiando l’impressionante tecnica in velocità di Francesco Rocca (nella foto con Enzo).

Costringendolo ad arretrare. Per capovolgere la situazione. Certo, prima dell’infortunio patito dall’indimenticabile Rocca, ribattezzato Kawasaki, era un’impresa dura. Forse impossibile. Ritrovarlo alla Roma, per puntare all’obbiettivo grosso, mandando a carte quarantotto il palliativo delle infeconde toppe e dei rammendi precedenti, gli permise di misurarne al meglio gli impressionanti scatti da podista. Scampati agli sfibranti interventi chirurgici al ginocchio. Ridotto ai minimi termini dai legamenti arrivati alla frutta. I centravanti dalla mole possente, le ali sinistre dagli slalom saettenti, gli ispirati finesseur dal passo felpato, gli antagonisti  dalla progressione micidiale hanno così trovato pane per i loro denti. Alla locuzione d’ascendenza medievale Mors tua vita mea, per cui il giubilo dei vincitori coincide inevitabilmente – da copione – con lo sconforto degli sconfitti, subentra l’obiettività dell’adagio Ubi maior minor cessat allorché la conversazione cade sull’asso argentino Diego Armando Maradona (nella foto).

Le gambe non gli sono mai tremate. L’ammirazione, l’onore delle armi, il plauso sincero dinanzi ai numeri di prestigio del Diez passano attraverso la fragranza dell’assoluta schiettezza. Accompagnata da un filo di comprensibile commozione per le adrenaliniche sfide che non vedeva l’ora che cominciassero. Per la complicità stabilita nel ritorno ad Avellino con il formidabile interno Dirceu (nella foto). Proveniente dalla Capitale dello Stato del Paraná. A circa mille metri sul livello del mare. In cima ai campos de Curitiba. Con la geografia emozionale sugli scudi. Chiamato lo Zingaro nello Stivale per le diverse casacche indossate coprendo l’asse di centrocampo con intelligenza ed estro. Dispiegato in particolare nei calci di punizione. Innamoratosi della Campania. In seguito altresì dell’esperienza nell’Associazione Sportiva Dilettantistica Academy Ebolitana. Affrontata con lo stesso impegno dei tre mondiali. Disputati in allegria. Deceduto a Rio de Janeiro in un tragico incidente d’auto. Enzo ancora lo piange. Rammentando, per sdrammatizzare, gli scherzi, organizzati per cementare la reciproca arguzia, la complicità, dentro e fuori dal campo.

La miriade di aneddoti sull’atmosfera che si respirava negli spogliatoi, nei ritiri, alla vigilia degli incontri topici, nelle discoteche, chiuse insieme ai compari altrettanto sensibili alle curve delle sirene di turno, nell’altalena di scoramento ed entusiasmo, che forma la tigna, è materia da romanzo. Scandisce le cavalcate fortunate e sfortunate. Le fasi di convalescenza dovute agli stop. Le discese sulla fascia destra. Le scorribande nella vita. Col vento in poppa. Le ali ai piedi. E il granitico senso d’appartenenza combinato alla legittima aspirazione di comunicare e condividere appieno. Ispirando, magari, gli sceneggiatori delle serie tv. Il materiale, umano ed emotivo, altro che Virzì e Castellitto, ce n’è a iosa.

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1). D / I detrattori del pallone affermano che il rugby è uno sport per bestie giocato da galantuomini mentre il calcio è uno sport per galantuomini giocato da bestie. Si può rispondergli che i calciatori fanno coi piedi cose che i rugbisti non fanno neanche con le mani?
R / Non ci piove. Il rugby implica soprattutto la componente della fisicità. L’intelligenza tattica conta pure. Ci sono anche là dei fenomeni. Ma nulla a che vedere con l’inventiva e la qualità dei giocatori di calcio. Sono sport per altro totalmente opposti. Accumunati solo ed esclusivamente dal fatto che occorre grinta, determinazione, voglia di migliorarsi, umiltà per raggiungere grandi risultati di squadra. L’integrità di carattere, senza la quale certi risultati uno se li sogna, ce l’hanno sia i rugbisti sia i calciatori. Al di là delle battute, dei luoghi comuni, degli schieramenti da una parte o dall’altra. Lo sport di squadra e di contatto funziona così: le botte, i colpi, più o meno proibiti, si danno e si prendono. Roba da campo. Nasce e finisce là. Detto ciò, concordo con te, Massimiliano: i calciatori, specie quelli particolarmente tecnici, sanno dare direzioni al pallone fuori dalla portata dei rugbisti. Privi pure con le mani di quell’abilità. E di quell’estro.

2). D / In merito al bagaglio tecnico e al ruolo da coprire in campo sono i luoghi dell’infanzia, in strada, a deciderlo o le scuole calcio?
R / Bella domanda. La strada è una maestra fondamentale. Lì si tirano i primi calci al pallone, s’incontrano gli ostacoli da aggirare che cementano la tecnica. Per non cadere sul marciapiede e farsi male. Per migliorare la coordinazione. Per stare in equilibrio. Per imparare a leggere il gioco. Sulla base pure dei rimpalli. Anche sul marciapiede. Il calcio di strada incoraggia il desiderio di praticare questo sport. Di trasformarlo in un lavoro. Nessun campo in erba sintetico può trasmettere l’emozione che dà la strada nel  momento in cui un bambino emula i numeri di prestigio dei professionisti. Ed è lì, per strada, cadendo, rimettendosi in piedi, che si capisce il ruolo per il quale si è predisposti. Il fattore genetico incide. Però è nei luoghi dell’infanzia che viene fuori l’attitudine a difendere o ad attaccare, a suggerire la trama di gioco o a interromperla, facendo ripartire quella della propria squadra, a correre o a far correre i compagni. Dettando i tempi di gioco. L’infrastruttura arriva dopo. Ci si arriva quando i requisiti fisici e quelli tecnici hanno detto la loro. Sull’agilità, la forza e l’inventiva.

3). D / La preselezione avviene per strada. Stabilendo se si hanno i numeri in termini di grinta e dinventiva per calcare i campi di calcio. Mettere prime le briglie con gli schemi danneggia la spontaneità o l’identità?
R / Le qualifiche richieste le stabilisce la strada. Perché espone gli ostacoli da superare. E offre la possibilità di migliorare subito la resistenza, insegna come controllare il pallone in condizioni ben più proibitive rispetto al campo. Le bande di strada sono certo un esempio dei pericoli comportati dal marciapiede. Il calcio di strada, al contrario, offre una salvezza ai ragazzi che altrimenti sarebbero condizionati in maniera negativa dall’ambiente. Per mettersi alla prova, giocando quasi tutto il giorno. Perché è un piacere. E non un dovere. Perché è una cosa naturale. Spontanea. Afferma l’attitudine tecnica lontano dagli schemi. Che soffocano la spontaneità, quando si è alle prime armi. La scuola calcio serve più tardi a trasmettere i valori sportivi e il comportamento professionale. Per rimanere concentrati. L’ambiente è un fattore decisivo. Cominciando proprio dalla strada. Per dar vita a una specifica identità di gioco e di ruolo. 

3). D / Ti sei conquistato presto la fama di Casanova. Sin dai tempi della tua militanza nel Rimini. Per rimanere in tema, citando Darwin, è l’ambiente a fare l’uomo o l’uomo a fare l’ambiente?
R / Guarda anche in questo il fattore genetico gioca un ruolo importante. Poi, hai ragione, l’ambiente ti condiziona. Quando ci sei già portato di tuo. Rimini alla fine degli anni 70’ pullulava di bellissime donne. I profumi dell’estate, le balere, le discoteche, beh, erano una bella tentazione. Si diventava animali notturni. Ciò nonostante sul campo, sia in allenamento sia la domenica, in lotta, allora, per i due punti, correvo fino a stramazzare. Spendendo sino all’ultima goccia. Senza risparmiarmi in alcun modo.

4). D / Riuscivi così a smaltire, oltre all’acido lattico, le scorribande notturne. Per la Nazionale olandese guidata dal grande Cruyff il sesso faceva bene anche in funzione delle prestazioni in campo. Il Barone Nils Liedholm (nella foto) era invece di parere opposto?
R / Al Rimini, prima di partire, destinazione Avellino, ho incrociato Helenio Herrera. Il Mago. Un fior di allenatore. Uno che prendeva una posizione netta sui compiti da svolgere sul rettangolo di gioco. L’ambientamento a Rimini ha contribuito a formare il mio carattere in tutti i sensi. Mi sono fatto le ossa. Imparando a conciliare le scorribande notturne, come le hai definite giustamente tu, e le corse in campo. Al servizio della squadra. Nel rispetto delle indicazioni fornite dall’allenatore. Per me Cruyff ci aveva visto lungo: è tutta salute. Il Barone possedeva una classe straordinaria come allenatore e come uomo. Era abituato a usare il guanto di velluto per farmi capire che, ritirandomi alle prime luci dell’alba, sarebbe stato il campo a esprimere il verdetto decisivo. Ci scherzava anche su. Puntualizzando l’orario in cui mi ritiravo. Col sorriso sulle labbra. Come dire: ti capisco. A chi non piace da giovane correre la cavallina? Ma è in campo che bisogna correre. E mai a vuoto. La posta in palio, quando lotti per lo scudetto, è altissima. Vietato sbagliare. Però bisogna preservare la giusta serenità.

5). D / Prima della partita del 10 maggio 1981 allo stadio Comunale di Torino eravate animati dalla calma dei forti o dall’ansia di vincere?
R / Nessuno si aspettava un campionato di quel livello da parte della Roma. Stupimmo tutti. Carletto Ancelotti era invece quello più convinto all’interno del nostro gruppo sull’esito del campionato. Lo aveva detto a chiare lettere prima che cominciasse. Era davvero un bel gruppo. Di uomini ancor prima che calciatori. Ci guardavamo negli occhi. Convinti che ce l’avremmo fatta. Eravamo determinati ma sereni. Alla Juventus mancavano pure Tardelli e Bettega squalificati. Non avevano scampo. Sia detto col massimo rispetto. Ma era così. Il gol di Turone lo confermò. Ci si mise di mezzo l’errore arbitrale. A quel punto ogni sforzo è vanificato. Come ha rimarcato più volte anni dopo Francesco Totti, campionissimo dall’animo semplice ma dalle idee chiare: la Juventus già è fortissima di suo. Se poi le decisioni arbitrali la favoriscono, allora la sfida diventa impari.

6). D / D / Tra cinque giorni l’eterna sfida si rinnoverà. Pensi che la Roma allenata da Mourihno, a dispetto del reparto arretrato sino ad adesso un po’ incerto, possa reggere la forza d’urto bianconera?
R / La zona ha rivoluzionato il calcio nel bene e nel male. Liedholm alla Roma praticava la zona passeggiata: il possesso palla era sempre nostro. Agostino Di Bartolomei non aveva lo scatto dei mezzifondisti. Ma i suoi tiri erano saette e con i lanci faceva correre velocissima la palla. Ai tempi gli attaccanti erano tallonati per tutto il campo dai loro angeli custodi. Io ero uno di quelli che non concedeva nulla. Il calcio è uno sport maschio. Non ho mai sopportato chi cade per terra divincolandosi come se fosse stato colpito da una valanga. Maradona incassava le botte senza battere ciglio: fa parte del gioco. Non voglio apparire come un nostalgico che vede gli accadimenti del passato migliori di quelli che sono in realtà. Ma oggi i calciatori mi sembrano oggettivamente meno pronti a leggere in anticipo il gioco. Specie quelli del reparto arretrato. Gianluca Mancini (nella foto) è un difensore coi piedi buoni. Nasce come centrocampista d’altronde. Però spesso perde di vista l’uomo da marcare. Mourihno queste le cose le sa bene: non glie le deve spiegare nessuno. Se a Dybala gli permetti di girarsi, sei nei guai. La Juve punta proprio sulla sua agilità nelle folate in avanti per assicurarsi il bottino pieno. Mancini, Ibanez e Smalling hanno commesso parecchi svarioni ultimamente. Gli allenamenti servono pure per porvi rimedio. Offrendo ai difensori in cerca di riscatto la possibilità di riaffermarsi.

7). D / Bisogna riconoscere alla Juventus di essere una squadra che non muore mai. Anche quando gli eventi sembrano precipitare. Merito pure del training rigoroso ed estenuante.  In Italia la palla in allenamento te la fanno vedere come ultimo step. Ad avere la precedenza sono le strategie rigeneranti, le durate del recupero, le variazioni di ritmo. Hai dovuto sudare sette camicie per stare al passo coi compagni e controllare la tendenza ad appesantirti, vista la stazza. Il lavoro specifico fa la differenza?
R / In primo luogo la maglia bisogna sempre sudarsela.  Sia in allenamento che durante la partita. Anche per rispetto nei confronti del pubblico che va allo stadio. La gente non sta lì per vederci pascolare in mezzo al campo. Sul piano tattico gli anarcoidi danneggiano la squadra. I patti di mutua collaborazione non vanno mai infranti. L’ansia di battere a rete, per mettersi in vetrina, deve cedere il posto allo spirito di squadra. Che prende il via negli allenamenti. Lavorando sulle lacune da colmare. Sulla potenza aerobica. Sulla capacità di stimolare a dovere i muscoli, i polmoni, il cuore e soprattutto la testa. Il carattere di gruppo è importante tanto quanto il calcio di strada. Si comincia con l’uno. Si prosegue con l’altro. Le lezioni di vita le danno gli allenatori che stanno sul pezzo, le vittorie, le sconfitte (anche quelle servono a crescere), la conoscenza di sé e del gruppo. Il lavoro specifico serve ad ascoltare i propri muscoli. Poi bisogna ascoltare il Mister.

8). D / Luca Vialli (nella foto), al di là dell’ostilità riservatagli dai calunniatori con la testa per dividere le orecchie, sapeva ascoltare i suoi muscoli. Carlo Mazzone, dopo un battibecco, gli mandò a dire che il pallone gli si sarebbe sgonfiato. Ma anche quando è stato colpito da un tumore alle parti molle ha confermato di essere un duro che non cede all’avversità. In campo tra voi erano duelli rusticani o sfide rispettose?
R / Luca Vialli è un uomo con gli attributi. Un leader come ce ne sono pochi. Col cuore del capociurma, il carattere guascone, scherzoso, la passione per le belle donne (ne ha combinate di tutti i colori), la conoscenza di sé, necessaria a motivare pure il gruppo comprendendo i punti di forza, lavorando su quelli deboli, come un vero perfezionista. Consapevole che avere le palle quadrate conta assai più dei tocchi liftati impressi alla sfera di cuoio. Per carità: la tecnica conta eccome. Ma la tempra del combattente, che sa quando scherzare e quando fare le cose sul serio, dando il massimo, stimolando i compagni a emularlo, ha un peso maggiore. In campo se era in giornata, dovevi farti il segno della croce. Nella lotta spalla a spalla, non mollava niente. Coi suoi scatti ripetuti, l’intelligenza applicata alla potenza, poteva sfiancare qualunque difensore. Nasce come un’ala. Abituato ad allargarsi sulla fascia. A involarsi. Io cercavo di non farlo girare. Qualche volta ci riuscivo. Erano bei duelli. All’insegna del rispetto. Finita la partita, si stemperava la tensione accumulata nella lotta su ogni pallone con l’ironia. Ho grande rispetto per come ha affrontato l’atroce malattia che l’ha colpito. È là che si vede di che pasta sono fatti gli uomini. E lui è un grande uomo. Un esempio di tenacia ed educazione. Un professionista che cura i dettagli con umiltà e attenzione. Un ragazzo che ama la vita. E ha grinta da vendere.

9). D / Anche Sebino Nela ha affrontato la lotta al tumore col coraggio leonino esibito in campo. In pratica vi siete dati la staffetta. Lui ha lasciato il Genoa per venire alla Roma. Tu hai lasciato la Roma per andare al Genoa. Col cambio ci ha guadagnato Seba. Prevalgono le gioie o i rimpianti?
R / Il piatto della bilancia pende decisamente dalla parte delle gioie. Per la Coppa Italia vinta con la Roma contro il Torino grazie al gol dal dischetto di Falcao alla roulette dei calci di rigore. La vita è una ruota. È chiaro che il rammarico per gli obiettivi sfuggiti di un soffio non può essere del tutto cancellato. Ma il bicchiere è decisamente mezzo pieno. Mica mezzo vuoto. Mi sarebbe piaciuto giocare in coppia con Sebino. Lui sulla sinistra. Io a destra.  Non ci sarebbe stata trippa per gatti: gli avversari avrebbero trovato filo da torcere. Però non mi lamento. Conservo dei bellissimi ricordi d’ogni tappa che ho percorso per migliorare gradatamente. All’inizio quando mi vendettero dal Rimini all’Avellino, ero scettico. Avrei preferito andare al Genoa o alla Sampdoria. Poi il richiamo del sangue, del suolo, per la terra da cui venivano i miei nonni, ha preso il sopravvento. Ad Avellino ho conosciuto fior di campioni. Specie Moreno Roggi. In coppia con Rocca nella Nazionale allenata da Fulvio Bernardini erano i baluardi del reparto difensivo. Due campioni. Quando ho visto Moreno, ho pensato: e quando gioco?! Però non mi sono dato per vinto. Ed è là che serve l’allenamento. Per migliorarsi. Il primo ambiente di apprendimento, la strada, mi ha insegnato ad aggredire gli spazi in campo. Ad aspettare il mio turno fuori dal campo. Certe sconfitte bruciano. Ma sono nulla, un’inezia, di fronte all’immensa soddisfazione di aver giocato contro Maradona, Luca Vialli, Seba, Salvatore Bagni. Un mastino! Sono grandi persone. La gente dal di fuori li vede solo come personaggi. Ma è la persona che conta.

10). D / Dall’esterno lo storico presidente dell’Avellino, Antonio Sibilla (nella foto), veniva considerato un personaggio pittoresco. In lotta coi congiuntivi e gli strafalcioni. Invece chi l’ha conosciuto bene di persona afferma che era uno scopritore di talenti che non sbagliava un colpo. Vendette alla Juventus Tacconi e Vignola. Divenuti campioni del mondo per club. I suoi noti cicchetti in dialetto erano in realtà, sotto sotto, manifestazioni di stima e d’affetto?
R / La prima cosa che mi disse quando arrivai ad Avellino è: «Guagliò, vatte a tajà e capille, sennò nun te tongo mango na lira». Poi, quando gli risposi che piuttosto me ne sarei andato, rettificò: «Ddò vai? Te devi giocà. Che ti devo vénne bbuono». Di calcio ne capiva. Il suo carattere fiero, vulcanico, le pose a burbero gli hanno alienato le simpatie di parecchi criticoni. Ma lui era così: prendere o lasciare. E secondo me resta tutto sommato una persona che ha lasciato il segno.

D / Anche i tifosi della Roma hanno lasciato il segno, Enzo?
R / Hanno lasciato una traccia indelebile nel mio cuore. Rappresentano il dodicesimo uomo in campo nel vero senso della parola. Sostengono sempre la squadra, sono ironici. Appassionati. Quando mi definivano «cagnaccio», con la sagacia dei romani, per ribadire che non avrei mai levato la gamba, né mi sarei mai dato per vinto, era il più bell’elogio. I loro striscioni, i canti, i cori, la Curva Sud fanno parte dei miei ricordi migliori. Anche con la gente irpina ad Avellino ho instaurato un rapporto speciale. Ma il tifo giallorosso l’anno in cui lottammo per lo scudetto, cedendo le armi solo dinanzi alla svista di Bergamo, fu unico. Peccato per quei dieci centimetri definiti di passione. Oggi col Var, invocato da Biscardi proprio all’indomani di quella sfida tanto infuocata, il margine d’errore è minore. Ma la lotta per ogni centimetro del campo, come afferma Al Pacino in “Ogni maledetta domenica”, e la passione non hanno perso un solo colpo.

MASSIMILIANO SERRIELLO

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