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Autore: Sveva Marchetti

Sempre più brand si affiancano agli influencer

Il binomio aziende di moda e influencer sembra trovare conferme anche nelle statistiche. Secondo una ricerca della società di consulenza Launchmetrics, nel 2016 il 65% delle griffe ha lanciato delle campagne con influencer, sforzi che nell’84% dei casi sono stati ripagati con un aumento di visibilità. Per il 74% degli intervistati, inoltre, il ricorso alle web star ha portato a un aumento delle vendite.

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EXPO 2020: la sfida di Dubai

Gli emiri stanno costruendo il nuovo grattacielo più alto del mondo, una città grande come Torino e un aeroporto da 240 milioni di viaggiatori

L’obiettivo dichiarato degli emiri di Dubai è di concludere i cantieri dell’Esposizione universale 2020 con un anno di anticipo. Il traguardo è fissato all’ottobre del 2019, così gli emiratini avranno dodici mesi di tempo per le finiture. Il sito è ancora una spianata nel deserto, ma due giorni fa il comitato organizzatore ha comunicato che entro la fine dell’anno assegnerà 47 contratti per la costruzione di Expo. Valore complessivo: 3 miliardi di dollari. Finora l’unico appalto di peso assegnato è quello per la rete di infrastrutture sotterranee, come tubature dell’acqua, fibra ottica, elettricità, vinto dalla joint venture tra gli egiziani di Orascom e i belgi di Besix, per 544 milioni di dollari.

Tuttavia il sito di Expo è solo uno dei mega-progetti che Dubai e i vicini di casa degli Emirati arabi uniti intendono consegnare entro il 2020: un treno hyperloop, un aeroporto da 160 milioni di passeggeri l’anno, il futuro grattacielo più alto del mondo, solo per citarne alcuni.

È lungo il catalogo faraonico di costruzioni avveniristiche e roboanti, come la città di Aladino, che hanno come traguardo l’inaugurazione di Expo.

Negli scorsi decenni gli emiri sono stati capaci di coprire di cemento il deserto in poco tempo. Tuttavia l’ultimo piano ciclopico, quello di Masdar City, la città “emissioni zero” che si alimenta della sola energia del sole, è in ritardo e la conclusione dei lavori, fissata allo scorso anno, è slittata al 2030. “A Dubai si contano 400 progetti di energia verde per un controvalore di 64 miliardi di dollari – spiega Gianpaolo Bruno, direttore dell’ufficio di Dubai dell’Istituto per il commercio estero -. Di questi 160 valgono più di 100 milioni di dollari”.

Questa febbrile corsa al record ha un prezzo e non solo in termini di denaro. L’organizzazione non governativa Human Right Watch denuncia le condizioni di lavoro della manovalanza nei cantieri: operai sottopagati, ricattati, sistemi in casupole precarie. Spesso i datori di lavoro sequestrano i passaporti degli immigrati (sopratutto da Pakistan, Bangladesh e Sri Lanka) e se i lavoratori tentano di far sentire la loro voce, interviene la repressione dello Stato. La filiera dell’oro, di cui Dubai è una piazza di scambio globale, sfrutta il lavoro minorile. E gli emiri usano lo stesso pugno con chi muove una critica al loro operato. Nessuna opposizione è contemplata nel deserto che sogna di diventare la metropoli del futuro: in pochi anni gli Emirati vogliono cambiare faccia con dieci mega-progetti.

L’Esposizione universale di Dubai 2020 si intitola Connecting minds, creating the future (Connetterre le menti, creare il futuro) ed è la prima che si svolge in Medioriente. Gli emiri si attendono 25 milioni di visitatori dal 20 ottobre 2020 al 10 aprile 2021, di cui il 70% dall’estero. Cantieri, gestione del sito e indotto genereranno 277mila posti di lavoro, il 40% dei quali nel turismo, e il Fondo monetario internazionale stima un aumento del Pil degli Emirati nell’ordine del 2%-3%. Il sito costerà 8 miliardi di euro e dopo l’Expo sarà trasformato in università e centro di ricerca. Una metropolitana sotterranea collegherà i padiglioni. Il villaggio dei delegati sarà una cittadella con tremila appartamenti, 1.500 stanze di albergo e undici parcheggi.

Abu Dhabi e Dubai distano circa un’ora e mezza di strada l’una dall’altra. Tuttavia gli emiri hanno deciso di investire sull’aeroporto Al Maktoum di Dubai, che sorge a fianco del sito di Expo, e farne uno scalo internazionale. I lavori si articoleranno in due fasi e costeranno 32 miliardi di dollari. Il Dubai World Central avrà cinque piste da 4,5 chilometri l’una. Le previsioni per la prima fare sono di 120 milioni di passeggeri l’anno, poco meno dell‘intero traffico degli scali italiani nel 2016 (dato Assaeroporti). Al termine lo scalo potrà contenere fino a 240 milioni di passeggeri. Il progetto è così ambizioso che Sace, la compagnia pubblica che assicura le commesse italiane all’estero, ha aperto una linea da un miliardo di euro. La statunitense Lane, controllata dalla romana Salini Impregilo, si è già assicurata l’appalto per la recinzione.

Dubai South

Una veduta di Dubai South
Una veduta di Dubai South

Se le tremila abitazioni dell’Expo village non fossero sufficienti, Dubai sta progettando un’intera nuova città a sud dei padiglioni dell’evento. Dubai South, il nome del centro, che gli emiri vogliono trasformare nella “città della felicità”. Una sorta di prova su strada di tecnologie e confort che dovrebbero migliorare la vita di chi abita nelle metropoli. L’obiettivo è di allentare la congestione del traffico sulla città vecchia, offrendo a un milione di persone casa in un nuovo quartiere di 145 chilometri quadrati. Per intenderci, gli emiri stanno costruendo una nuova città grande poco più di Torino, appiccicata al nuovo aeroporto e all’Expo. Alcune case sono già in vendita. Prezzo di partenza: 76mila dollari.

Treno Hyperloop

La posa dei primi tubi del treno Hyperloop
La posa dei primi tubi del treno Hyperloop

In attesa che gli Stati Uniti prendano posizione, Hyperloop, la compagnia dei treni a levitazione magnetica, ha trovato negli Emirati arabi i finanziatori per una prima rete ferroviaria iperveloce. Alla fine dell’anno scorso la società legata a Elon Musk ha annunciato che costruirà una linea Hyperloop in Medio Oriente. Per andare da Abu Dhabi a Dubai serviranno 12 minuti. Dodici minuti per 157 chilometri. I 1.100 chilometri verso Rihad si copriranno in 48 minuti e altri 23 minuti per i 700 chilometri per Doha. Le capsule a levitazione magnetica possono viaggiare fino a 800 chilometri orari. Il progetto per ora non ha una data di consegna, ma il traguardo di Expo è allettante.

Torre Calatrava

La torre Calatrava
La torre Calatrava

A ottobre sono state gettate le fondamenta della torre di Santiago Calatrava, il prossimo grattacielo più alto del mondo, che erediterà il titolo dal vicino Burj Khalifa. La costruzione supererà di una “tacca” gli 828 metri del gigante emiratino e sarà retta da un intricato sistema di tiranti. La guglia infinita si staglierà al centro di due palazzoni che faranno da quinte scenografiche e al centro di una giungla di grattacieli anonimi. La torre di osservazione si colloca al centro di un intervento urbanistico più esteso, quello del Creek Harbour. Sei milioni di metri quadri sul fronte del porto saranno trasformati in un nuovo quartiere della città entro il 2020. Per Expo Calatrava firmerà anche il padiglione degli Emirati arabi, a forma di falco.

Città di Aladino

Aladdin City
Aladdin City

A poca distanza dal Creek Harbour, 450 metri per la precisione, sorgerà Aladdin City. Il complesso di case e centri commerciali adagiata sull’acqua è ispirato alle favole di Aladino e di Sinbad. La costruzione dei fabbricati, valore 500 milioni di dollari, è cominciata l’anno scorso e dovrebbe completarsi entro il 2018. La città di Aladino si aggiunge alla serie di interventi sul fronte mare, come gli arcipelaghi a forma di palma che sono sorti intorno a Dubai. Là dove oggi si trovano le banchine del porto, per l’Expo gli emiri sognano di veder brillare tre torri costruite come palafitte. La forma a cipolla e il rivestimento dorato potrebbero ricordare, con un po’ di immaginazione, la lampada di Aladino, da cui il nome del progetto.

The Frame

The Frame
The Frame

Quante volte viene da dire, davanti a un tramonto mozzafiato sul mare, a una catena svettante di monti o alla distesa formicolante di una città, “Che paesaggio da incorniciare”. Gli emiri hanno preso la frase alla lettera e hanno sborsato 43,5 milioni di dollari per un edificio a forma di cornice, da cui il nome inglese di The frame, nel parco di Zabeel. Le due torri, alte 150 metri, sono collegate da un ponte di 100 metri, con caffè e belvedere panoramico, per scattare foto alla Dubai vecchia e ai nuovi quartieri. I costruttori si attendono oltre due milioni di visitatori l’anno.

Mall of the World

Il modellino 3D del Mall of the World
Il modellino 3D del Mall of the World

Sarà il centro commerciale più grande al mondo, anche se il progetto è stato ridimensionato. Per intenderci, contavano di costruire 100 alberghi all’interno, ne realizzeranno 80. Gli emiri presentano il futuro Mall of the World come la più grande città pedonale a temperatura controllata, visto che sarà condizionata 24 ore su 24 come tutti gli interni di Dubai, se si vuole sopportare l’arsura del deserto, ma nei fatti è il riconoscimento di uno dei titoli della città. “E’ la seconda destinazione per shopping al mondo dopo Londra”, spiega Giovanni Bozzetti, fondatore dello studio Efg Consultinged esperto dei Paesi del Golfo. Il progetto coprirà un’area di poco meno di otto milioni di metri quadri e sotto la grande cupola di vetro al centro ospiterà un parco divertimenti, oltre a cinema multisala, uffici, ristoranti e una serie di teatri dove gli emiri vogliono mettere in scena il meglio del cartellone di Broadway e del West end.

Musei

Il Guggenheim di Abu Dhabi
Il Guggenheim di Abu Dhabi

Dell’indotto turistico dell’Expo di Dubai contano di beneficiare tutti gli emirati. Specie Abu Dhabi, se il treno hyperloop realizzerà collegamenti in dodici minuti tra le due città. Anche Abu Dhabi è in fase di espansione e l’isola di Saadiyat è il fulcro dei cantieri. Qua sorgeranno tre musei: un polo distaccato del Louvre, dove saranno ospitate a rotazione opere delle gallerie francesi; una versione gigante del Guggenheim; il Zayed museum,sulla storia degli emirati. Tutti i palazzi hanno firme altisonanti: il progetto del Louvre è opera di Jean Nouvel, Frank Gehry ha curato il secondo e Foster + Partners il terzo. Sorgerà anche un centro per le arti su disegno di Zaha Hadid e Tadao Ando ha progettato il museo del mare. Sulla barca delle archistar non manca più nessuno. Solo per il Louvre, tra costruzione e diritti sul nome in concessione, gli emiri sborseranno oltre 1,3 miliardi di dollari. L’apertura è stata fissata per quest’anno. Come quella del museo del futuro, che aprirà a Dubai. Costo: 136 milioni di dollari.

Secondo la banca Alpen Capital, nel 2020 gli Emirati potranno offrire 13.800 posti letto negli ospedali. Dubai ambisce a diventare un polo per il turismo sanitario della zona, tanto che gli investimenti al 2020 ammontano a 19,5 miliardi di dollari. A nord di Dubai sta sorgendo una città della salute, che offre prefabbricati per cliniche, ospedali, centri di ricerca nel campo delle scienze della vita, palestre per la riabilitazione e spa agli investitori internazionali. Il complesso occuperò 240 ettari ed è considerato zona franca, in modo da aggirare le leggi emiratine che impongono alle aziende straniere che vogliono fare affari nell’area di avere un partner locale al 51%.

articolo via wired

 

Dubai International Airport Guide

Anjali Lama debutta alla Lakme Fashion Week

Anjali Lama, il debutto della prima modella transgender alla settimana della moda indiana. Un’edizione storica quella della Lakme Fashion Week di quest’anno, infatti per la prima volta una modella transgender ha sfilato per un evento di primo piano della moda in India.

Si chiama Anjali Lama, Nabin Waiba per l’anagrafe, nata in Nepal, un’ infanzia difficile dalla quale nacque la decisione di andarsene. Si trasferisce a 17 anni nella capitale indiana dove trova il sostegno della Ong “Società del diamante azzurro” e la forza di cambiare la sua identità da Nabin a Anjali per trovare finalmente se stessa. Per tre anni Anjali si propone per le passerelle della settimana della moda ma viene respinta a causa della sua identità di genere.

Quest’anno finalmente, dopo aver superato tre difficili casting, l’occasione che aspettava da sempre. La sua speranza è che la sua partecipazione riesca a far crollare questa barriera ed aprire ai transgender la porta delle sfilate anche in uno paese “difficile” per certi aspetti, come il suo.

fonte rainews.it

Auguri alle Fettuccine Alfredo

Le famosissime Fettuccine Alfredo si celebrano oggi 7 febbraio facendo unire nei “festeggiamenti”, per uno dei piatti italiani più amati, Roma e l’America con il National Fettuccine Alfredo Day,

Un piatto apparentemente semplice, fettuccine con burro e parmigiano, ma difficilissimo da realizzare, e conteso ancora oggi tra due locali romani, “Alfredo alla Scrofa” (via della scrofa 104/a) e “Il Vero Alfredo” (piazza Augusto Imperatore 30). 

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Royal Babies

George e Charlotte, i meravigliosi figli di Kate Middlton e William d’Inghilterra non sono gli unici royal babies. Saranno i più chiacchierati ed i più conosciuti ma dobbiamo ricrederci. Infatti, esiste un altro bambino coronato altrettanto fascinoso, che diventerà re in un Paese molto meno chiacchierato della Gran Bretagna.

Si tratta di Dragon Prince Jigme Namgyel Wangchuck, nome alquanto curioso del piccolo principino della famiglia reale del Bhutan, lo stato più felice del mondo, nel quale appunto la “felicità interna lorda” conta più del valore del pil. Il piccolo Dragon non ha proprio nulla da invidiare ai più blasonati Charlotte e George nostrani, infatti mostra un sorriso pieno di gioia e delle guance deliziosamente paffutelle nel calendario di cui è protagonista. La madre, del resto, ha mostrato più volte il piccolo regale sul suo profilo Facebook ed Instagram, facendo sciogliere i cuori dei sudditi e del mondo intero.

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Il sito Yellow, che è testata di Stato, offre una magnifica foto del principino in download, per tenere l’immagine di Jigme sempre con sé. Lo scatto ufficiale è stato realizzato per celebrare il primo compleanno del bimbo, ieri 5 febbraio. Ora George e Charlotte sanno di avere un rivale in fatto di beltà e “paffutaggine”.

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 fonte huffinghtonpost

Let’s make America great again?

Donald Trump ne ha fatto il suo slogan più popolare durante la sua compagna elettorale. Subito dopo il suo insediamento ha effettivamente messo in pratica quello che aveva detto alzando un muro tra Stati Uniti e Messico. Una risposta, o meglio un contrattacco, però c’è stato e proprio da un noto marchio di birra di proprietà della holding messicana Grupo Modelo. La Corona, con il suo spot, ha preso una posizione netta contro la volontà del tycoon di creare barriere invece di rinforzare l’unità.

Il video, che ha già avuto più di sei milioni di visualizzazioni in pochissimo tempo, ha come protagonista non la birra ma i volti di tutti colori, i paesaggi, le bellezze naturalistiche, i mestieri, gli usi ed i costumi e tutte le diversità riassunto di quel melting pot che ha reso grande l’America. Una serie di immagini che scorrono mentre la voce narrante è chiara:

“Basta usare il nostro nome per generare divisioni! Siamo la terra del mix culturale, siamo orgogliosi dei nostri colori, siamo il continente che tocca i due poli, siamo l’ombelico del mondo e anche i suoi polmoni. Abbiamo mani che resistono agli sforzi e piedi che fanno del calcio il ballo più bello di tutti. Siamo un continente che ruggisce, siamo il più grande contenitore di coppe, siamo sangue caldo con gusti piccanti. Siamo poesia, arte e musica, siamo i migliori inni cantati, siamo rivoluzione costante, celebrazione innegabile, siamo passione, siamo tutti, siamo 35 Stati uniti. E oggi ci vestiamo con un un solo stemma”.

Lo spot infine si conclude con un chiaro riferimento allo slogan del nuovo presidente Usa, quello di essere tutti americani siamo ed è per questo che l’America è sempre stata grande.

 Desfronterizate: esci dalla logica delle frontiere, supera le distanze, fai tesoro delle differenze.

https://www.youtube.com/watch?v=SuLEu-nwd50

Sushi al Kit Kat

Il sushi fatto con il KitKat, un’idea molto kawaii e molto giapponese. Oltre al rapporto di folle amore tra il paese del Sol Levante e KitKat (che solo là ha più di 300 varianti), l’iniziativa  è stata lanciata per promuovere l’apertura nuovo negozio nel quartiere di Ginza a Tokyo.

Una nuova serie limitata composta da tre speciali cioccolatini ispirati all’arte del sushi; si tratta di tre dolcetti messi a punto ispirandosi ai classici nigiri di tonno, ai gunkan con ricci di mare e ai tamagoyaki, con frittata e riso. Il primo propone una tavoletta ricoperta al lampone su riso soffiato al cioccolato bianco; il secondo unisce mascarpone e il pregiato melone Yubari King, avvolto dalla tradizionale alga; il terzo ha il gusto di pudding alla zucca sul riso soffiato al cioccolato bianco. Questi piccoli capolavori di food design saranno disponibili dal 2 al 4 febbraio nel negozio di Ginza, ma solo ed esclusivamente per quei clienti che spenderanno almeno 25 euro in KitKat vari ed eventuali.

fonte wired.it

Washoku: la colorata vita alimentare dei giapponesi

Il washoku, o più semplicemente cibo giapponese è stato dichiarato nel 2013 Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità UNESCO.

Diffuso e apprezzato sia a Roma che in Italia, il washoku è protagonista di una mostra molto particolare presso l’Istituto Giapponese di Cultura. Presentato negli aspetti materiali delle lavorazioni e in quelli antropologici della riconoscenza e della preghiera; la modalità espositiva è dinamica e coinvolgente, al fine di superare la conoscenza standard e approfondire temi antichi e attuali. Divisa in sei sezioni che presentano colori e sapori dello stile alimentare giapponese attraverso  attraverso video, prodotti, riproduzioni di piatti, stampe nishiki-e sul tema, gadget e utensili di uso quotidiano, accanto a pannelli e oggettistica provenienti dal Padiglione Giappone presso EXPO MILANO 2015.

Il menu tradizionale prevede miso, misoshiru o zuppa, ma il piatto forte è il riso mescolato con verdura, carne, pesce di ogni tipo, con combinazioni che sprigionano il loro sapore miscelato una volta all’interno della bocca, in una modalità gustativa squisitamente giapponese. Si tratta di uno stile alimentare dove in tavola tutto punta alla valorizzazione del riso, re della tavola giapponese.

Come per la dieta italiana, la cultura alimentare tradizionale del Giappone ha tra i suoi cardini i sapori emozionali, il sapore di casa, del paese natale, o della regione di cui è tipico. Inoltre, sono noti gli influssi provenienti dalla Cina, dalla penisola coreana, ed infine dall’Europa. Ma molto è anche dovuto alla stagionalità e alle variazioni da regione a regione. Data la posizione in zona temperata, le quattro stagioni giapponesi sono delineate e nette, data la montuosità, i venti stagionali e le correnti marine anche il clima si presenta molto variegato. Ad esempio, nell’estremo Nord, regione del Tohoku, gli inverni sono molto rigidi, con assenza di stagione delle piogge mentre nel sud, come a Okinawa, ci si trova nella fascia subtropicale con clima caldo tutto l’anno, piogge frequenti e assenza di gelate e neve.

Sullo sfondo di questo variegato ambiente, le conoscenze e la manualità si sono affinate nel tempo e la cultura alimentare dei giapponesi si è sviluppata ricca di approfondimenti e varianti regionali. I giapponesi nutrono profondo rispetto per una natura così prodiga di doni, ponendo in relazione il cibo al culto degli antenati e delle divinità, e dando un significato profondo al legame con la terra e la famiglia. E poi c’è il colore: bellissimi i piatti da vedere della cucina giapponese.

Washoku la colorata vita alimentare dei giapponesi 
 a cura di Hiroko Nakazawa  (20 gennaio –  19 aprile 2017)

PRESSO 
Istituto Giapponese di Cultura 
Via Antonio Gramsci, 74, 00197 Roma

MOSTRE: 
lunedì-venerdì 9.00-12.30/13.30-18.30
mercoledì fino alle 17.30
sabato 9.30-13.00

fonte ansa.it jfroma.it

Lo sport mondiale parla cinese

Alibaba sarà partner del Comitato Olimpico Internazionale (Cio) fino al 2028. L’e-commerce cinese ha messo sul piatto 800 milioni di dollari per essere la prima azienda a stipulare un accordo a lungo termine con il Cio fino a tale data, e supporterà gli organizzatori di ciascuna edizione dei Giochi in tutto il mondo, godendo di diritti pubblicitari e promozionali dei marchi olimpici e delle immagini dei Giochi, nonché dei marchi dei comitati olimpici nazionali.

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Franca Sozzani e Anna Piaggi in mostra

È un omaggio alle amiche Franca Sozzani e Anna Piaggi la mostra di Manolo Blahnik The art of shoes che apre oggi, 26 gennaio, a Palazzo Morando.
“Le donne milanesi mi rendono orgoglioso” ha detto il 74enne designer di scarpe presentando la sua collezione personale che, dopo Milano, approderà all’Hermitage di San Pietroburgo e poi a Praga, Madrid ed in Canada.
Nei due anni di preparazione sono state selezionati 212 scarpe e 80 disegni realizzati in 46 anni di carriera, dalle calzature ispirate all’arte di Goya o Picasso a quelle realizzate per il film Marie Antoinette.

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La crisi della sfogliatella

“Aiuto, salviamo la sfogliatella riccia”, titolava con grande preoccupazione la Gazzetta dello Sport nelle pagine riservate al cibo.

Una tradizione secolare quella della sfogliatella, dolce simbolo della pasticceria napoletana, che rischia di perdersi a causa dei “tappi“, i gusci semilavorati delle sfogliatelle ricce, impiegati in gran segreto da parecchi pasticcieri.

A Conca dei Marini, antico borgo della Costiera Amalfitana, c’è il Monastero di Santa Rosa, oggi un bellissimo albergo, che un tempo ospitava le monache benedettine di clausura. Nel XVIII secolo, una suora del convento mettendo insieme due semplici sfoglie di pasta diede vita a un dolce che aveva la forma del cappuccio del saio di un monaco e lo farcì con un ripieno composto da semola, zucchero e frutta secca.

Era nata la sfogliatella Santarosa.

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Agli inizi dell’Ottocento in via Toledo, di fronte a Santa Brigida, c’era (e c’è ancora) la bottega di un pasticciere, tale Pasquale Pintauro che a quanto pare aveva una zia monaca che probabilmente gli passò la ricetta. In seguito con una dovuta modifica alla ricetta della suora creò quella che poi è stata denominata sfogliatella napoletana.

Ancora oggi c’è chi sostiene che la vera sfogliatella sia quella fatta dal Pintauro, e chi invece è convinto che sia la Santarosa di Conca dei Marini.

Oggi distinguiamo tra riccia e frolla; la prima è una specie di conchiglia di pasta sfoglia sovrapposta in strati sottili resi croccanti dalla cottura, e all’interno si trova una crema consistente ottenuta per amalgama di semolino, ricotta, uova e zucchero, con aggiunta di canditi, acqua di fior d’arancio, vaniglia e cannella. Nella frolla quello che cambia è solo il guscio, che sempre più un raviolo, a parità di ripieno

Direttamente dalla sfogliatella Santarosa proviene la coda d’aragosta: pasta sfoglia con la caratteristica coda allungata farcita con panna e cioccolato, o crema chantilly e cioccolato. Oggi sfogliatella Santarosa e code d’aragosta sono diffuse in tutto il territorio campano, mentre a Napoli e dintorni prevalgono le classiche versioni riccia e frolla, quasi sempre con identico ripieno.

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Un tempo Carraturo a Porta Capuana era il posto preferito dei napoletani amanti delle sfogliatelle, ma è opinione comune che non siano più quelle di un tempo, purtroppo. Discorso simile per gli attuali eredi del leggendario Pintauro. Le interpretazioni migliori, quelle che rendono onore alla sfogliatella napoletana, appartengono oggi a Attanasio, nei pressi della Stazione Centrale e a Bellavia in zona Vomero. Per gli studenti universitari Capparelli resta il mito di sempre. Poco fuori dal perimetro cittadino, a San Giorgio a Cremano, l’indirizzo su cui puntare a colpo sicuro è quello di Sabatino Sirica.

Ma da un po’ di tempo si sta registrando una vera e propria crisi che sta portando attentatando l’ortodossia della sfogliatella con esperimenti che prevedono forme kitsch e ripieni poco convenzionali, ibridi e mash-up anticonformisti.

Alcuni anche interessanti, come la “sfogliacampanella“, una sfogliatella ripiena di babà che è schizzata in cima alle preferenze dei napoletani, insieme alla loro glicemia.

sfogliacampanella

L’impasto della sfogliatella riccia viene lavorato a forma di campana e farcito con uno strato di crema al cioccolato, ricotta e all’interno un mezzo babà.

La sfogliacampanella è un’invenzione di Vincenzo Ferrieri, rispettabile pasticciere di Sfogliate Lab, uno dei format che, insieme a Cuori di Sfogliatella (proprietà di un altro Ferrieri, stavolta Antonio) prepara sfogliatelle alternative, dai ripieni quasi eretici ma amati dai napoletani: alla crema di pistacchio, di limone, di frutti rossi (e per Natale anche quella di panettone).

Oppure, ripieni salati come salsiccia e friarielli, e addirittura una sfogliatella al baccalà.

L’altro cruccio, come già detto, sono i semilavorati. I pasticcieri che preparano le sfogliatelle ricce senza l’ausilio di gusci già pronti e surgelati, che fanno risparmiare tempo e denaro, diminuiscono a vista d’occhio.

 [Crediti | Link: Gazzagolosa, immagini: La cuoca del presidente, SfogliateLab, dissapore.com]

Russia ed il risveglio del lusso

La Russia sperimenta la prima e importante inversione di tendenza sui luxury goods nel 2016, e spera in un rilancio quest’anno. Secondo un rapporto stilato congiuntamente da Exane Bnp Paribas e Contactlab, nel 2016 il mercato dei beni di lusso russo è cresciuto tra il 5 e il 10%, raggiungendo un valore stimato di 3,5 miliardi di euro.

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“La neve è arrivata”

Niente da fare Charlie Hebdo proprio non ce la fa. Per la seconda volta ricade nella satira fuori luogo, di cattivo gusto e crudele, proponendo una comicità che non fa né ridere e né piangere ma ti lascia solo l’amaro in bocca.

La prima volta risale a pochi mesi fa, a quel 24 agosto maledetto, quando l’Italia si è letteralmente svegliata in due pezzi. Colpita nel suo cuore, al centro, tre regioni principalmente coinvolte ma tutta la nazione scossa. Ci hanno paragonati ad un piatto di pasta, precisamente a delle lasagne. Forse perché collegano Amatrice ai famosi bucatini. L’ambasciata si è subito scusata affermando che quello non è il pensiero della Francia e dei francesi.

Adesso invece abbiamo la neve, troppa neve, che associata all’oramai costante tremore della nostra terra ha provocato una valanga. E loro che fanno? Beh ci informano tramite la Signora Morte in tenuta da sci  che “la neve è arrivata, ma che non ce ne sarà per tutti”.

Noi non ci siamo mai permessi di fare ironia su ciò che è avvenuto in Francia, sulle stragi del Bataclan, di Nizza, di Rouen e dello stesso Charlie Hebdo.  Noi siamo stati e saremo tutti Charlie Hebdo ma prima di tutto, per noi stessi “noi siamo tutti lasagne” e fieri esserlo.

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Yazemeenah Rossi: la modella 60enne che promuove una bellezza diversa

“Con questo servizio fotografico ha voluto dar forza alle donne e rappresentarle in maniera elegante e raffinata. Spesso le immagini delle campagne pubblicitarie sui costumi da bagno non hanno questa delicatezza nel raffigurare la sensualità, ma per essere sexy non è necessario mostrare il proprio corpo in maniera provocatoria”.

Yazemeenah Rossi è una modella californiana di 60 anni e da qualche giorno è anche il volto della linea mare del marchio di lingerie Land of Women. Costume bianco e solo una parete nera a far da sfondo, per concentrare l’attenzione sulle sue linee toniche e sui lunghi capelli argentati, che lei ha sempre rifiutato di tingere.

Il servizio fotografico ha lo scopo di fornire un’alternativa alle tradizionali campagne pubblicitarie per l’abbigliamento da spiaggia, allo scopo di promuovere una bellezza che non ha età, non necessita ostentazione per non passare inosservata e parte innanzitutto dalla sicurezza in sé. La confidenza con il proprio corpo non manca a Yazemeenah, che ha dichiarato di voler continuare a posare “fino alla fine della mia vita” e ha a lungo combattuto con i suoi agenti che tentavano di convincerla a nascondere la chioma grigia, ora diventata il suo marchio di fabbrica.

“Non si tratterà solo di posare, ma di testimoniare la bellezza e l’energia che ci rende vivi”, ha spiegato la modella al Daily Mail, “Ogni mattina mi sveglio senza avere un’agenda prestabilita e sono felice. Questo lavoro è un gioco per me e sto giocando per il mio piacere. Non si tratta di soddisfare il mio ego, quello l’ho già fatto da tempo, si tratta di goderne ogni giorno sempre di più. È come se il mio cuore stesse per esplodere ogni mattina”.

Chi l’ha scelta come testimonial non ha avuto alcun dubbio. Il suo spirito, la sua bellezza e la sua energia incarnano il modello di donna che volevano rappresentare: “Questa campagna è stata concepita per ridefinire la femminilità e la sensualità alle nostre condizioni. Yazemenaah incarna la fiducia in se stessi senza età, l’intelligenza e la grazia. Non potevamo scegliere una modella diversa”.

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articolo via Huffington Post  di Silvia Renda

 

Peta diventa azionista di Lvmh

Peta è diventata azionista di Lvmh. L’organizzazione no-profit a sostegno dei diritti degli animali ha infatti acquistato un numero non precisato di azioni del gruppo francese al fine di tutelare gli animali direttamente in assemblea. I coccodrilli del Vietnam sono tra i primi cui l’organizzazione vorrebbe destinare il proprio supporto poiché vittime, in base a quanto riportato da Peta, di brutali sofferenze per ottenerne la pelle. Pelle di cui, sempre secondo l’organizzazione, avrebbe usufruito il gruppo francese.

In tutta risposta, Lvmh ha affermato di aver concluso ogni rapporto con gli stabilimenti vietnamiti menzionati da Peta già nel 2014.

Peta, lo scorso anno, è diventata azionista di Prada sempre per poter influire, a livello aziendale, sulle questioni legate ai diritti degli animali.

articolo via pambianconews.com

Sondaggio sindaci: vince Torino, ultima Roma

Una distanza abissale separa i due nuovi sindaci M5S Chiara Appendino e Virginia Raggi nel Governance Poll, la rilevazione sul gradimento riservato ai sindaci dai propri cittadini realizzato ogni anno da Ipr Marketing per Il Sole 24 Ore. Appendino, infatti, apre la classifica con il 62%, mentre Raggi la chiude con il 44%.
Scrive il Sole:

“A Torino, che prima della sorpresa di giugno ha tradizionalmente tributato alti consensi ai sindaci in carica, i problemi non mancano, dalle periferie all’indebitamento (in calo negli ultimi anni) fino ai rapporti finanziari con le partecipate come Gtt su cui sta indagando anche la procura, ma la città funziona, e macina da tempo successi crescenti in termini di immagine: non solo agli occhi delle varie forme di turismo che caratterizzano il capoluogo piemontese, evidentemente, ma anche a quelli dei cittadini che premiano il sindaco in carica. La stessa Appendino, del resto, dopo l’inevitabile rupture iniziale che ha alimentato più di una polemica con il suo predecessore Piero Fassino ha spiegato nella conferenza stampa di fine anno che ‘il cambiamento va fatto gradatamente, attraverso le piccole cose, con senso sabaudo. Anche per non rischiare di lasciare indietro tutto quello che di buono è stato fatto in passato’. Tutto il contrario di quel che accade a Roma, dove Virginia Raggi ha aggiunto errori propri alle eredità impossibili lasciate dalle giunte precedenti di destra e di sinistra”.

Al secondo posto della classifica, dopo Appendino, troviamo il sindaco di Firenze, Dario Nardella, seguito dall’ex M5S Federico Pizzarotti, positivo anche il risultato di Luigi De Magistris a Napoli, che dopo il successo rinnovato di giugno abbandona le posizioni di coda delle scorse edizioni arrivando al quarto posto con Damiano Coletta (Latina), Vincenzo Napoli (Salerno), Paolo Perrone (Lecce), Luigi Brugnaro (Venezia) e Paolo Calcinaro (Fermo).

Aggiunge, infine,  il Sole che tra i neo-sindaci solo la Raggi sprofonda sotto il 50%.  

Rapporto Oxfam: 8 uomini da soli possiedono la metà della ricchezza del pianeta

 

Nel mondo 8 uomini, da soli, posseggono 426 miliardi di dollari, la stessa ricchezza della metà più povera del pianeta, ossia 3,6 miliardi di persone. Ed è dal 2015 che l’1% più ricco dell’umanità possiede più del restante 99%. L’attuale sistema economico favorisce l’accumulo di risorse nelle mani di una élite super privilegiata ai danni dei più poveri (in maggioranza donne). E l’Italia non fa eccezione se, stando ai dati del 2016, l’1% più facoltoso della popolazione ha nelle mani il 25% della ricchezza nazionale netta. Sono alcuni dei dati sulla disuguaglianza contenuti nel rapporto Un’economia per il 99% della ong britannica Oxfam, diffusi alla vigilia del World Economic Forum di Davos, in Svizzera.

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Il processo allo zucchero

Zucchero? Forse è proprio lui la causa di tutti i nostri mali. Forse è proprio lo zucchero il killer numero uno, il responsabile principale di molte patologie che affliggono gli individui del pianeta.

Questa è la conclusione cui giunge Gary Taubes, noto scrittore e divulgatore scientifico americano, autore di bestseller sui temi dell’alimentazione, che ha appena dichiarato guerra allo zucchero in un nuovo libro di cui si sta parlando molto: “Processo allo zucchero” (“The case against sugar“), così come riportato dalla rivista americana Atlantic.

Alle sue drastiche conclusioni Taubes arriva considerando alcuni dati oggettivi, osservando cioè che negli ultimi trent’anni il tasso di obesità nel mondo è praticamente raddoppiato, stessa cosa per l’incidenza del diabete.

Ma cosa ha fatto aumentare l’incidenza di queste patologie negli ultimi 30 anni? Qual è il responsabile della nuova situazione? Taubes non ha dubbi: lo zucchero.

E non solo nei Paesi occidentali, ma anche in quelli in cui non era mai stato parte della dieta tradizionale.

La verità distorta dalle aziende: non (solo) i grassi, ma gli zuccheri

Per esempio, negli anni Ottanta, solo l’1 per cento dei cinesi era diabetico, mentre ora che anche in Cina viene seguita un’alimentazione “all’occidentale” il diabete colpisce l’11 per cento della popolazione. Risultato simile tra gli Inuit, in Groenlandia e in Canada: il diabete praticamente sconosciuto negli anni Sessanta colpisce ora il 9% della popolazione.

Ma nonostante questo, negli ultimi 50 anni tutte le organizzazioni internazionali sulla salute hanno additato i grassi come principali responsabili delle varie patologie, lasciando relativamente in disparte la maggiore responsabilità  degli zuccheri. Gli zuccheri, cioè, sono stati ritenuti responsabili soltanto di fornire “calorie vuote” in eccesso, ma non si sono mai messi in relazione con lo sviluppo di gravi malattie.

Secondo Taubes, questo ruolo deleterio dello zucchero è stato sottaciuto di proposito da parte dell’industria e dei maggiori enti a tutela della salute pubblica, grazie a un sistema colluso tra l’industria alimentare e una parte del mondo scientifico, con l’obiettivo di far percepire i grassi come nemico pubblico numero uno sfiorando soltanto il ruolo degli zuccheri.

Taubes cita alcuni documenti scoperti da un ricercatore presso l’Università di California, a San Francisco, che dimostrererebbero come “Big Sugar” (un cartello di grandi aziende dello zucchero) pagò tre scienziati ad Harvard, nel 1960, per “sdrammatizzare” il rapporto tra lo zucchero e le malattie cardiache, puntando invece il dito contro i grassi saturi.

Lo stesso avrebbero fatto altre industrie di dolci e bevande, utilizzando campagne pubblicitarie e finanziamenti di studi e ricerche per spostare l’attenzione dal ruolo dello zucchero a quello dei grassi.

Il grande nemico si chiama sindrome metabolica

In realtà, già negli anni Sessanta una ricerca, perlopiù ignorata da dietologi e autorità preposte alla salute pubblica, aveva messo in correlazione lo zucchero con lo sviluppo della “sindrome metabolica”, l’insieme di patologie che comprende non solo un accumulo di grasso a livello dell’addome ma anche uno stato di infiammazione cronica del nostro organismo.

La sindrome metabolica è uno dei maggiori indicatori di malattie cardiache e diabete, ed è determinante per l’insorgenza di patologie quali obesità e alta pressione del sangue, ma soprattutto nello sviluppo dell’insulino-resistenza.

La sindrome metabolica, spiega Taubes, ha origine dall’innalzamento del livello di zucchero nel sangue causato dall’ingestione di zuccheri e carboidrati. Così si innesca il rilascio di insulina, con la funzione di spostare lo zucchero là dove può essere bruciato come carburante.

Lo zucchero che consumiamo ogni giorno sulle nostre tavole, il saccarosio, è costituito da due tipi di carboidrati, glucosio e fruttosio, sarebbe proprio quest’ultimo a rappresentare la minaccia maggiore.

A differenza di altri carboidrati, nel fegato il fruttosio viene trasformato in grasso, innescando una sequenza di eventi che porta le cellule a diventare resistenti all’insulina.

La resistenza all’insulina è molto dannosa per l’organismo, sia appunto perché causa principale della sindrome metabolica, sia per quanto riguarda l’aumento della quantità di grasso nel sangue (trigliceridi), e dell’insorgere di patologie quali diabete di tipo 2, obesità, malattie cardiache, ipertensione e Alzheimer.

Anche il cancro sarebbe collegato al consumo di zucchero e al conseguente aumento di insulina.

La relazione pericolosa con il cancro

E’ stato infatti verificato, continua Taubes, che alla somministrazione di un farmaco per il diabete ai fini di abbassare l’insulina, è stato associato un minor rischio di sviluppare il cancro, rendendo quindi evidente, al contrario, una correlazione tra maggiori livelli di insulina e l’insorgenza di tumori.

L’insulina ha molti effetti nel nostro organismo, compreso quello, asserisce Taubes, di stimolare le cellule tumorali e farle riprodurre. Questo perché l’insulina sarebbe responsabile dello “spegnimento” di uno dei programmi messi in atto dal nostro corpo (apoptosi) che portano le cellule cancerose a distruggersi.

Logica quindi la conclusione che se alti livelli di zuccheri causano resistenza all’insulina, tale resistenza abbia poi un ruolo attivo nello sviluppo dei tumori.

E’ quindi lo zucchero a creare un ambiente favorevole allo sviluppo di queste gravi patologie?

La risposta di Taubes è sincera: “Certamente potrebbe esserlo”. Una certezza condizionata dal fatto che oggi non si devono più affrontare malattie da carenza, come lo scorbuto, risolvibili con una sola pillola magica come la vitamina C.

Oggi si affrontano sempre più spesso malattie degenerative che richiedono molto tempo per svilupparsi –una vita di caramelle, in altre parole– e oltretutto non si sviluppano in tutti gli individui allo stesso modo.

Qual è la dose quotidiana per non correre rischi?

Ma qual è, allora, la dose ottimale di zucchero che possiamo consumare senza rischi?

Taubes risponde nell’ultimo capitolo del libro, dal titolo “Quanto poco (zucchero) è ancora troppo?”, ponendo in realtà una serie di altre domande.

Quante sigarette sono troppe sigarette? Cosa succede se la persona che ha fumato abitualmente un pacchetto alla settimana sopravvive a quella che ne ha fumato uno al giorno? Dovremmo forse concludere che fumare un pacchetto di sigarette alla settimana è sicuro?

Non lo sapremo mai, dice Taubes. E così è per lo zucchero.

A oggi non ci sono certezze, potremo sempre trovare due facce della medaglia. Ci sarà chi continua a considerare lo zucchero solo un innocuo portatore di chili in più e chi invece ne riconoscerà l’effettiva pericolosità.

Ma anche qualora eliminassimo del tutto lo zucchero dalla nostra dieta, non vedremo certo scomparire le malattie dalla faccia della terra.

C’è tutto un ecosistema che è avvelenato, scrive Taubes, senza contare  che il nostro metodo di alimentazione è spesso del tutto errato: non sarà semplicemente  eliminando lo zucchero che cancelleremo le patologie più gravi.

Ma eliminare, o almeno ridurre, lo zucchero dalla nostra dieta sarà comunque un passo in più verso il benessere.

articolo di Cinzia Alfè via dissapore.com [Crediti | Link e immagini: Atlantic, The Guardian, New York Times, Daily Mail]

Patent Box e una “dote” di 35 milioni per il settore moda

Il ricorso al Patent Box permetterà un beneficio pari al 10% degli utili delle aziende del lusso. A dirlo è un report di Mediobanca che ha condotto un’indagine sull’impatto dell’agevolazione fiscale opzionale, introdotta dalla legge di Stabilità del 2015, per le imprese italiane che fanno reddito su beni immateriali. “Dei 4,4 miliardi di euro di profitti complessivi previsti tra il 2015 e il 2019 per il campione analizzato – si legge nello studio realizzato da Chiara Rotelli – stimiamo il risparmio cumulato in 450 milioni di euro, una cifra pari al 10% degli utili complessivi”.

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