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Brexit: un fallimento clamoroso?

Un pulcino a spasso nel bosco

(di Stelio W. Venceslai)

            La Brexit sta mettendo a dura prova la tradizionale capacità britannica di gestire gli eventi anche nelle condizioni più scabrose. L’esperienza di governo della signora May si sta probabilmente concludendo con un fallimento clamoroso.

            Il Regno Unito non è mai stato un partner europeo affidabile.

            Pochi ricordano che per contrastare l’allora nascente Comunità europea, che era la Comunità dei Sei (Francia, Germania, Italia e i tre Paesi del Benelux), Londra organizzò in fretta e furia un’EFTA (European Free Trade Association) con il Portogallo e i Paesi scandinavi.

            I primi negoziati per l’adesione del Regno Unito alla Comunità europea fallirono miseramente, agli inizi degli anni sessanta, per insanabili contrasti sulla politica agricola comune, a causa delle pretese britanniche.

            I secondi negoziati per l’adesione furono molto difficili e si conclusero con l’entrata inglese nella Comunità, ma con tutta una serie di clausole speciali e diciamolo pure, di privilegi.

            In quella occasione l’Italia si spese molto a favore dell’adesione perché, nella mente dei politici nostrani, era maturata l’illusione di poter contrastare l’asse franco-tedesco con un asse anglo-italiano. Una miserevole dimostrazione di capacità diplomatica, perché poi le cose andarono in senso diametralmente opposto. L’anglofilia italiana si manifestò costantemente nei negoziati, per poi ridursi a poco o niente.

            Il Regno Unito è stato coerentemente un partner poco europeo e molto britannico, abilissimo nel prendere e con il braccio corto nel dare. Un’insofferenza palese ha portato al referendum per la Brexit che ha diviso il Paese: l’Irlanda del nord e le città hanno votato per remain, le campagne per exit. I risultati hanno sorpreso tutti ma i veri nodi sono venuti al pettine quando si è dato inizio ai negoziati per l’uscita del Regno Unito dall’Unione.

            Nessuno in Europa si è strappato i capelli per i risultati del referendum, segno evidente di una non coesione raggiunta. Dopo un paio d’anni di trattative estenuanti, la Gran Bretagna è a un bivio: o rompere senza accordo o rivedere la propria politica, magari con un nuovo referendum. La May chiede delle proroghe difficili da accordare. Il Parlamento britannico è sostanzialmente incapace di decidere. Tutti temono, nel caso di una rottura senza accordo, una specie di cataclisma economico. Alla fine, ci si ricorda che, in fondo, si tratta solo di un’isola.

            Fra un paio o poco meno di 2 settimane, il 29 marzo, il Regno Unito dovrebbe uscire dall’Unione europea. Questa è una data certa, stabilita di comune accordo fra le parti, in un clima d’incertezza totale. La May vorrebbe un rinvio. La Camera dei Comuni è divisa fra il desiderio di nuove elezioni, il timore dell’uscita e la voglia di cacciare la May, ma i laburisti non sono pronti e sono divisi (sembra di stare in Italia con il nuovo PD). In pratica, la dirigenza politica britannica è impotente e si è dimostrata sorprendentemente incapace.

            Nella Comunità, una volta tanto, le regole sono chiare. Un rinvio può essere accordato, ma brevissimo. Incombono le elezioni europee. Che faranno gli Inglesi? Se si vota e il Regno Unito è ancora in Europa e non indice le elezioni nel proprio territorio, il nuovo Parlamento europeo rischia di essere illegittimo e zoppo.

            D’altro canto, che senso avrebbe avere una rappresentanza parlamentare britannica a Strasburgo se poi gli Inglesi se ne vanno? Nessuna campagna elettorale per le europee è in corso o in programma in Inghilterra. Che facciamo deputati per un Paese che non c’è? Kafka e Calvino ne sarebbero felici, ma il contribuente europeo no.

            Quindi, di fatto, c’è un ultimatum dell’Unione. O dentro o fuori. Se dentro, votino, se fuori, non se ne parla nemmeno.

            L’economia è in forse, perché le imprese e i grandi gruppi finanziari stanno abbandonando Londra. È probabile che in caso di exit definitivo ci sia una specie di esodo progressivo. L’Inghilterra è un bel mercato, ma quello dell’Europa continentale è più grande. Londra punta sul Commonwealth imperiale, ma è troppo lontano. Punta sull’intesa speciale con gli Stati Uniti, ma Trump è troppo inaffidabile. Tradizione e boria non vanno d’accordo con i mercati.

            Un’uscita senza accordo, poi, danneggia tutti, soprattutto i cittadini europei. Ci sono tre milioni di persone con passaporto britannico in Europa e tre milioni e mezzo di cittadini con passaporto comunitario in Inghilterra, di cui seicentomila di nazionalità italiana.

            Che facciamo, li deportiamo tutti e ognuno a casa sua?

            Non parliamo poi, degli squassi dal punto di vista doganale e del mercato interno, con la fine, non regolata, del mercato aperto.

            Qualcuno, in Inghilterra (Corbyn) si chiede se non sia il caso di fare un nuovo referendum che spaccherebbe nuovamente il Paese in due, le città contro le campagne. Inoltre, ci vorrebbe del tempo che non c’è più.

            Altri pensano, invece, che la soluzione più pragmatica sarebbe di mettere tutto a bagnomaria e far finta di niente, lasciando le cose come stanno. Una soluzione indolore, salvo le spese sostenute per fare il negoziato.

            La verità è che uscire dall’Unione, dopo decenni d’integrazione, non è né facile né, forse possibile. La crisi della dirigenza britannica dovrebbe essere un monito molto severo per chi, con tanta leggerezza, parla di uscire dal pollaio con la brillante prospettiva di un pulcino a spasso nel bosco.

            Al momento, è difficile indovinare cosa succederà e come se la caverà la May, che con questa vicenda ha ormai bruciato la propria carriera politica. Comunque vada, è un precedente che dovrebbe far riflettere tutti.