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Coronavirus e moda: bisogna ripartire dalla sostenibilità

Ripartire, da dove?

Se c’è una cosa che il fashion system, italiano e non solo, ha dimostrato in questi mesi di difficoltà è la capacità di reazione, la prontezza nel cercare un modo per risolvere le cose, che poi è alla base del concetto stesso di resilienza.

Sono tantissimi i marchi, da quelli del lusso a quelli di fast fashion, che si sono adoperati per riconvertire una parte dei propri stabilimenti per realizzare mascherine e camici per medici e infermieri: da Prada a Gucci passando per Valentino, Armani e Salvatore Ferragamo, solo per citarne alcuni. Dallo tsunami che il coronavirus ha riversato sulle aziende di moda e dal modo in cui queste hanno reagito emergono due questioni di importanza sostanziale: la prima è che il settore è stato in grado di muoversi e mettersi in gioco per uno scopo superiore al profitto; la seconda è che una catena di produzione lunga e sparpagliata geograficamente (globalizzata) ha dei limiti enormi.

Nuovi valori

Un nuovo senso di comunità: ecco cosa sta emergendo da questa crisi. Una sorta di nuovo pensiero comunista, lontano dal comunismo storico. La banale scoperta che per battere il virus servono coordinamento e cooperazione globale è a suo modo rivoluzionaria. Stiamo riscoprendo quanto abbiamo bisogno gli uni degli altri”. Sono parole di Slavoj Žižek, filosofo sloveno, su Robinson di Repubblica convinto come molti altri che l’epidemia di Covid-19 stia lasciando strascichi importanti non solo sulla salute e sull’economia, ma anche sulla nostra socialità, sul modo in cui stiamo con gli altri. Se davvero ci sarà la definizione di una nuova scala di valori nei consumatori, allora le aziende dovranno sapervi aderire. L’aver dimostrato di saper agire per una ragione più importante del profitto (come la solidarietà umana), pone le basi per la diffusione di un modello aziendale “purpose driven”, guidato da uno scopo. E questo scopo per le aziende di moda non può che essere la sostenibilità ambientale e sociale, già valore condiviso tra le fasce più giovani di consumatori prima della diffusione della Sars-Cov-2 verso il quale si stavano piano piano orientando tanti marchi con iniziative a volte strutturate, altre meno.

Secondo Fashion Revolution, il movimento globale nato per cambiare il sistema moda in seguito al crollo del Rana Plaza in Bangladesh nel 2013, ogni anno vengono prodotti oltre 150 miliardi di capi d’abbigliamento, la maggior parte dei quali viene usato pochissime volte prima di essere gettato via. Un consumo di abbigliamento spropositato e in costante crescita anno dopo anno che ha un impatto ambientale e sociale enorme, soprattutto in quelle aree dell’Asia dove è concentrata la gran parte della produzione mondiale. Bene, anche questo consumismo sfrenato potrebbe uscire ridimensionato dall’epidemia di Covid-19. Ne è convinta Li Edelkoort, la più nota anticipatrice di tendenze di moda e design, che in una intervista di inizio marzo al magazine Dezeen ha dichiarato: “Sembra che stiamo entrando in una quarantena di massa del consumo durante la quale impareremo come essere felici solo con un vestito semplice, riscoprendo i nostri preferiti tra quelli che già possediamo, leggendo un libro dimenticato e cucinando tanto per rendere la vita bellissima. L’impatto del virus sarà culturale e cruciale per costruire un mondo alternativo e profondamente diverso”. E ancora: “Dovremo raccogliere le macerie e reinventarci tutto da ciò che resta una volta che il virus sarà sotto controllo. E questo è il passaggio per cui nutro più speranza: un nuovo e migliore sistema da adottare, con maggior rispetto del lavoro umano e delle sue condizioni. Alla fine saremo costretti a fare quello che avremmo dovuto fare fin dall’inizio”.

Cambiare la filiera

Il cambiamento radicale verso una moda guidata dal valore della sostenibilità impone alle aziende di prendersi la piena responsabilità dei costi non solo economici della produzione di abiti e accessori. Significa volgarmente metterci la faccia in ogni passaggio della filiera di produzione, controllarla, certificarla, garantirla.

L’epidemia scoppiata in Cina a gennaio 2020 ha smascherato, prima ancora che il virus si diffondesse nel resto del mondo, uno dei limiti dell’avere catene di produzione lunghissime e sparpagliate geograficamente: non solo non se ne ha il controllo in termini di costi sociali e ambientali, ma nel caso di imprevisti si rischia di non essere in grado di gestirle. Al contrario prediligere una supply chain corta e meno globalizzata favorisce la flessibilità della stessa e permette di assumersene la piena responsabilità in termini di inquinamento ambientale e condizioni di lavoro dei suoi operai. L’ha spiegato bene sulle pagine di WWD Hakan Karaosman, esperto di filiera di produzione sostenibile nel settore moda presso la Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’Europa: “I marchi di moda che hanno preso iniziative concrete per creare delle supply chain più corte, più resilienti e più trasparenti hanno potuto constatare che le situazioni inaspettate possono essere controllate meglio. In aggiunta quei brand che hanno creato una cultura della filiera di produzione attraverso l’impegno e la leadership responsabile hanno già dimostrato che le catene di produzione sostenibili portano ad avere dei vantaggi competitivi in termini di prestazioni operative”.

È il momento di pensare a come ripartire dopo questo stop forzato. Sarà una strada lunga e difficile considerando che tutta la produzione e la promozione delle collezioni SS20, FW20 e SS21 dovrà essere rivista e riadattata. Però sarà anche l’opportunità per provare a scrivere un futuro diverso per il settore su una pagina bianca, o quasi, che passi per una reale presa di coscienza da parte del mondo della moda sul suo impatto ambientale, sociale e culturale.

 
 

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