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Dalla foiba di Jules Verne alla fossa di Moncucco … Un monito contro il negazionismo

I VINCOLI DI SANGUE E DI SUOLO DEGLI ISTRIANI: TRA INGHIOTTITOI ATROCI ED ESODI DOLOROSI

«Chi si appoggia al parapetto di quello spiazzo, vede un precipizio ampio e profondo, le cui impervie pareti, tappezzate di fogliame intricato, scendono a picco. Nessuna sporgenza in quella muraglia. Non un gradino per salire o per discendere. Non una cengia per sostare. Nessun punto d’appoggio. Soltanto scanalature, qua e là, lisce, logorate, poco profonde che fendono le rocce. In una parola, un abisso che attira, che affascina e che non restituirebbe nulla di quanto vi si facesse piombare.(…)
Quell’abisso è detto nel paese Foiba, e serve da serbatoio al soverchio delle acque del torrente. Questo torrente non ha altro sfogo se non una caverna, che si è formata a poco a poco fra le rocce, e nella quale esso precipita con furia indescrivibile. Dove va il corso d’acqua che passa sotto la città? Chi può dirlo? Ove ricompare? Anche questo è un mistero. Di quella caverna, o piuttosto di quel canale che solca lo schisto e l’argilla, non si conosce né la lunghezza, né l’altezza, né la direzione.
Forse le acque urtano in tumulto contro innumerevoli spigoli contro la foresta di piloni, che sostengono la fortezza e la città intera. Arditi esploratori, quando il livello delle acque, né troppo alto né troppo basso, consentì loro d’avventuratisi con una leggera imbarcazione, tentarono di discendere il torrente attraversando quella tetra apertura, ma le vòlte ad un certo punto si abbassano e costituiscono un ostacolo insuperabile. Ecco perché non si sa nulla di quel corso d’acqua sotterraneo. Forse s’inabissa in qualche «perdita» sotto il livello dell’Adriatico
».

La facondia di Jules Verne, accusato dai falsi dotti di scrivere a beneficio dei lettori muniti appena di licenza elementare, riesce ancor oggi a spiegare in maniera semplice le cose difficili. Senza cadere nel vedutismo fine a se stesso, che differenzia l’incipit particolareggiato ma senz’anima del capolavoro letterario I promessi sposi, redatto dal pur colto ed estroso Alessandro Manzoni per conferire un carattere d’autenticità al prosieguo colmo di peripezie ed emblematici colpi d’ala della trama, il “Papà” di Viaggio al centro della Terra conferma, vent’anni dopo, nel romanzo d’avventura Mathias Sandorf  la sua predilezione per la geografia emozionale. 

 

Chi lo avrebbe detto che quegli inghiottitoi, noti col nome di foibe, frutto dell’erosione dell’acqua, sarebbero divenuti l’orrido container di esseri umani colpevoli di non abdicare all’amore patrio? Il passaggio dalle pagine fitte di crittogrammi, enigmi ed effetti empatici, congiunti al fulgido processo d’identificazione con i fenomeni naturali, tipici del paesaggio carsico, ben lungi dal tralignare nell’ovvietà degli sfondi inerti, è assolutamente traumatico. Non si tratta unicamente di una parentesi di crudeltà ed efferatezza, sia pure abominevole, destinata, tuttavia, a cedere spazio al travagliato ma giusto cammino verso un mondo migliore. Occorre una coscienziosa ponderatezza, uscendo dai criteri condizionati dalle discipline di fazione e dai movimenti di schieramento, per comprendere davvero il delitto compiuto ai danni dei vincoli di sangue e di suolo. L’ineluttabile ed elaborato programma di epurazione, che toglie ogni alibi allo scoppio di sanguinaria veemenza, ha portato ad azioni d’infoibamento e a trasferimenti coatti impossibili da liquidare come fenomeni complementari od opzionali.
La dialettica, spesso inevitabile se non utile, tra progressisti e conservatori c’entra poco in questo contesto. Anche perché costituisce materia di riflessione il fatto che siano proprio i seguaci del livellamento ugualitario a porre dei distinguo, perlomeno discutibili, sullo status di oppressi, mentre i sostenitori dell’egemonia dello spirito sulla materia sono messi alle corde dalle regole spietate di qualunque conflitto. Vae victis. Le scelte compiute, talvolta in buona fede da una parte o dall’altra, per imbracciare le armi, in seguito all’ignominioso armistizio dell’8 settembre, contro l’infamia del tradimento, individuata dai repubblichini nella coalizione col nemico di ieri e dagli antifascisti nell’appoggio allo straniero invasore, quantunque alleato, pagano dazio a un altro adagio latino.
Quot capita, tot sententiae.
Il punto, però, non è rimarcare la corresponsabilità degli eccidi e delle feroci rivalse ai danni della popolazione civile, né se dietro la brutalità programmata degli allestimenti del movimento di liberazione croato in Istria ci fosse in precedenza una politica di denazionalizzazione portata avanti dagli italiani a dispetto anche degli slavi. Diverrebbe così l’ennesimo scontro di classe con il mondo bucolico, detentore morale del territorio dibattuto, e la borghesia prevaricatrice, oltretutto forestiera, a contendersi il diritto di abitare in quei luoghi dalle bellezze morfologiche profanate dalla voluttà di vendetta. In realtà, come libici ed ebrei coabitavano bonariamente ai tempi del governato africano di Italo Balbo (nella foto), uno dei pochi gerarchi che si oppose alle leggi razziali, la convivenza interetnica è ampiamente testimoniata pure dalle carte d’archivio. 

 

Al di là del negazionismo in merito alla lingua di Dante Alighieri, ritenuta il contrassegno di un legame partecipe sin da quando la Repubblica di Venezia riuniva, altresì sotto l’aspetto dello scambio mercantile, i triestini e gli abitanti della Carnia, intenti a scendere dai monti per partecipare alla vita collettiva, le linee di demarcazione hanno trovato nella contesa politica, dei comunisti in lotta con i reazionari, un elemento d’irreparabile esacerbazione. Il numero delle vittime di quelle rappresaglie cambiano di continuo, secondo le fonti. Ciò che resta, con buona pace di qualsivoglia ricerca pretestuosa, è il bisogno di sani spazi di confronto.
La Settima Arte, veicolo d’interrogativi cruciali e stimoli onesti dispiegati attraverso l’assoluta forza significante della scrittura per immagini, può dire tutto e di più. Eppure le stesse persone che in passato hanno voluto difendere l’autonomia creativa degli autori e il diritto degli spettatori di decidere da soli quale film vedere, contestando “la fucilazione” di “Ultimo tango a Parigi”, hanno evocato la censura nei confronti di “Red Land – Rosso d’Istria” di Maximiliano Hernando Bruno. Col risultato che il 17 dicembre dell’anno scorso al Cinema Zero di Pordenone la visione del film, incentrato sul martirio di Norma Cossetto, stuprata e uccisa dai comunisti slavi, è stata interrotta da un gruppo di facinorosi sovvertitori. La contestazione dell’Anpi e dei vari centri sociali, legati all’associazione partigiana, ha intimidito gli esercenti limitando la richiesta di copie per le sale autoctone. Gli attacchi, oltre al lampante settarismo, pongono in evidenza una bassa densità lessicale, colma di battute sovraesposte e pause vocalizzate (“i fatti storici vengono romanzati e portati ad unica lettura della verità… narrazione contemporanea che vorrebbe cambiare la storia… Una rilettura che vorrebbe paragonare un regime repressivo e sanguinario alla lotta di liberazione di un popolo…”) tali da evocare un ritorno in questa valle di lacrime dell’impagabile Giovannino Guareschi (nella foto). 

Non per inquisire a sua volta le contraddizioni in termini di quelli che Giampaolo Pansa chiama i “gendarmi della memoria”, desiderosi di accorciare le gambe a chi le ha lunghe anziché allungarle a chi le ha corte, bensì per mostrare, sulla scorta dello stile di scrittura scherzoso, di presa immediata, le crepe del ridicolo involontario. Fortunatamente esistono delle eccezioni, che non hanno coniugato la loro esemplare esistenza all’imperfetto. Andrea Manco (nella foto), Delegato Provinciale a La Spezia dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD) e Consigliere del Libero Comune di Pola in Esilio, alle negazioni dei faziosi, allergici al rovescio della medaglia, antepone la fragranza insita nel peso informativo della verità. Muovere obbiezioni senza conoscerne minimamente il tessuto intimo, lacerato dalla malvagia buonuscita dei comunisti titini e dall’esilio forzato, equivale ad andare in vacca. 

L’aura mediocritas n’esce sconvolta. È impossibile tenersi a debita distanza dai picchi propizi e dalle discese negli inferi. Per risalire alla luce, nel ricordo di una coscienza nazionale divenuta il pomo della discordia agli occhi degli aguzzini con la stella rossa sul petto, occorre saper sensibilizzare la gente. I condizionamenti ambientali, dovuti all’agire umano, appaiono assai meno giusti rispetto a quelli voluti da Madre Natura. Tuttavia gli adagi popolari giungono a proposito in questi casi: cosa c’è di più duro della dura roccia. E cosa c’è di più molle della molle acqua. Eppure la molle acqua buca la dura roccia. Goccia, dopo goccia, dopo goccia. Gutta cavat lapidem. La perseveranza, riscontrabile nella corrosione delle rocce connesse alle foibe, ha permesso ad Andrea di trarre linfa dalle dichiarazioni degli esuli, amici della mamma, originaria di Pola, per andare oltre il colpevole silenzio dei testi ufficiali sull’Esodo giuliano dalmata. L’immigrazione imposta agli italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia coincise con un clima d’odio culminato nell’edizione n. 284 dell’Organo del Partito Comunista Italiano: “Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi. Questi relitti repubblichini, che ingorgano la vita delle città e le offendono con la loro presenza e con l’ostentata opulenza, che non vogliono tornare ai paesi d’origine perché temono d’incontrarsi con le loro vittime, siano affidati alla Polizia che ha il compito di difenderci dai criminali. Nel novero di questi indesiderabili, debbono essere collocati coloro che sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava e che si presentano qui da noi, in veste di vittime, essi che furono carnefici.”

Nel febbraio dello stesso anno i piatti caldi preparati per gli esuli istriani, insieme al latte per i bambini, dalla Pontificia Opera di Assistenza e dall’alacre Croce Rossa Italiana spinsero i ferrovieri, fedeli al P.C.I., a minacciare uno sciopero generale se il convoglio ferroviario composto dai carri merci con a bordo gli italiani indesiderati avesse favorito tale iniziativa. Massimo Federici (nella foto), ex sindaco di La Spezia, iscritto ai Democratici di Sinistra, ha invece dimostrato la linearità dell’anima ad appannaggio dei politici in grado di privilegiare la convergenza parallela del rispetto umano al veleno delle ferine impuntature scusandosi, a nome della città, per l’accoglienza ostile riservata dapprincipio agli immigrati provenienti dall’Istria.

Non è un caso che Red Land – Rosso d’Istria sia stato proiettato a La Spezia in sala, al Megacine, invece ché nei velleitari circuiti alternativi, commuovendo il pubblico presente senza andare incontro alle proteste dei detrattori ansiosi di apporre una croce, assai poco misericordiosa, sopra il reato contro l’umanità. Non è solo l’Istria però il luogo dove le fenditure della terra sono divenute il deposito dove occultare le vittime della furia dichiaratasi depuratrice. Nelle colline piemontesi, nella provincia di Asti, a Moncucco, le cave di gesso celano l’occultamento di altri prigionieri legati col fil di ferro.
Nonostante l’acefalo, nonché insensibile, negazionismo dei soliti noti abbia pescato nell’assurdo, ancor prima ché nel torbido, cercando di far passare i poveri resti umani per rifiuti tossici, in quanto l’area nel 1988 è divenuta la discarica di una ditta chimica, le ossa ritrovate parlano chiaro in merito alla mattanza già denunciata da Pansa nel controverso bestseller “Il sangue dei vinti“. L’inqualificabile rituale che prevedeva, sparando al cervello di uno, l’infossamento dell’altro, trascinato dal peso morto nella cavità senza ritorno, rimane motivo d’inquietudine e la prova del condizionamento slavo sugli adepti locali assetati di ritorsioni. Gli scheletri non gridano vendetta al cielo. Ma fanno meditare sul sacrilegio della contraffazione, della negazione, della falsificazione, dei colpi di gomito e dei segni di ammicco alieni agli slanci culturali, alla ricerca della verità e agli antidoti contro astiose disgregazioni ed empi squarci. Il principio d’accoglienza, tirato in ballo oggi per chi scappa dalle guerre nel continente che rappresenta la culla dell’umanità, deve far breccia nei partiti presi per ricordare al pari dell’Olocausto, perpetrato dal Terzo Reich, i caduti giuliani e dalmati. Le stime sui dati incontrovertibili penetrano nelle viscere spingendo al diniego chiunque desideri dare un avallo legale, se non nobile ed etico, alla crudeltà.
La mitizzazione resistenziale, congiunta al voler portare l’acqua al proprio mulino, per separare i fantasmi dei lager da quelli dei gulag, costituisce un freno a ulteriori strumenti d’indagine. La paura che venga a galla qualcosa che lenisca lo spirito di parte dovrebbe lasciare il posto al senso di obbiettività del probo Massimo Federici. La fascia tricolore trascende le strumentalizzazioni, da qualunque rotta provengano, e riconosce il valore di testamento ai racconti degli esuli scampati al fanatismo. Seguire le tracce di questi fuoriusciti, che porteranno sempre nel cuore l’attaccamento alla terra natìa, trasmettendolo di generazione in generazione, non è un’illusione collettiva. È una medicina contro la cieca indifferenza e l’implacabile animosità: agevola il maturarsi della coscienza con lo svelamento degli orrori nascosti, o ritenuti di scarso spicco, e l’inclusione nei rapporti di causa ed effetto, al posto degli sbalzi d’umore dovuti all’effettiva crisi di valori, dell’amore per la Civiltà al pari di quello per la Patria.
Nella piena consapevolezza che, lontano dagli atti di coraggio e di vigliaccheria, dal culto romantico della guerra o dalle secche della retorica pacifista, la capacità di un territorio di rappresentare una finestra sul mondo impreziosisce la coalescenza degli sguardi. La fallibilità dei punti di vista è sostituita dalla valenza mitopoietica di quei seducenti e sofferti posti, dalle carreggiate costiere ad Albona vecchia, lungo i viottoli, attigui alle sorgenti d’acqua, ai pozzi di carbone, all’idrosso di alluminio, alle zolle carsiche, alle vette dalle fitte chiome, ai boschi d’alberi secolari. I versi del poeta triestino Umberto Saba sono perfetti in tal senso per chiudere il cerchio:

Nella mia giovinezza ho navigato 
lungo le coste dalmate. Isolotti 
a fior d’onda emergevano, ove raro 
un uccello sostava intento a prede, 
coperti d’alghe, scivolosi, al sole 
belli come smeraldi. Quando l’alta 
marea e la notte li annullava, vele 
sottovento sbandavano più al largo, 
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno 
è quella terra di nessuno. Il porto 
accende ad altri i suoi lumi; me al largo 
sospinge ancora il non domato spirito, 
e della vita il doloroso amore.

MASSIMILIANO SERRIELLO

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