Chiediamo “feedback” e non riscontri, organizziamo “meeting” anziché riunioni, non abbiamo scadenze da rispettare ma “deadline” e utilizziamo il verbo-non verbo “spoilerare” per indicare un’azione – come definisce l’Accademia della Crusca – volta a rivelare, in rete o in altri contesti, dettagli rilevanti della trama di un libro, un film, una serie televisiva, rovinando l’effetto sorpresa.

Così “spoiler” e altri vocaboli anglofoni sono entrati a far parte del linguaggio comune, perfino irrompendo in alcuni dizionari della romantica lingua di Dante, complessa ed elegante, dove lo stile puntuale e articolato mal si coniuga con l’estrema sintesi e l’inequivocabile immediatezza dell’inglese.

Oggi, quasi si fatica a pensare alla traduzione in italiano di alcune locuzioni inglesi ormai divenute di uso comune – come banalmente “check-in”, “brunch” e così via – dunque, ci si dà un tono sfoggiando un linguaggio intriso di vocaboli inglesi e non solo nelle relazioni d’affari, dove l’anglofonia non è una tendenza ma un lessico necessario.

E se è vero che nell’inglese del business l’utilizzo delle strutture grammaticali sempre corrette e una pronuncia perfetta tendono a lasciare più spazio a un linguaggio settoriale e pratico, fermo restando una buona base linguistica, è altrettanto vero che nel quotidiano tutti sembrano masticare la lingua inglese, anche grazie allo smisurato ricorso che se ne fa sui social network, capaci di amplificare la realtà facendoci apparire ciò che non siamo anche nelle competenze linguistiche.

Eppure, il Rapporto EPI – English Proficiency Index 2018 di EF Education – quello sì – parla chiaro: su un campione di 88 Paesi nel mondo, l’Italia è al 34esimo posto per livello medio di competenza nella lingua inglese e al 24esimo in Europa – preceduta dalla Francia – con Lombardia ed Emilia-Romagna in testa, le regioni italiane che registrano i livelli di migliore conoscenza dell’inglese rispetto alle altre.

Ma quali sono gli errori più comuni degli italiani che evidenziano la loro scarsa attitudine nell’apprendimento dell’inglese?

Eccone 5.

  • La traduzione letterale delle frasi

Pretendere di impostare una frase o un discorso mettendo in atto la traduzione letterale dall’italiano è un grave errore. Non resta quindi che “mettere in pausa” l’emisfero cerebrale abituato ad una lingua di matrice latina e iniziare a “pensare in inglese”. Oltre alla costruzione sintattica completamente diversa fra le due lingue, bisogna tener conto delle espressioni idiomatiche che in italiano non trovano alcuna traduzione sensata, come, ad esempio, “I can’t wait” che letteralmente potremmo tradurre come “non posso aspettare”, mentre significa “non vedo l’ora”.

  • I false friends

In inglese esistono molte parole che, pur mostrando una radice simile ad altri vocaboli italiani, significano tutt’altro e traggono in inganno; ad esempio “library” vuol dire “biblioteca” e non “libreria”, così come “parents” significa “genitori” e non “parenti”.

  • Le pronunce e gli accenti

L’italiano medio che millanta di conoscere l’inglese è presto smascherato quando ci dirà di aver fatto uno stage, pronunciando “steig”, traducendo la “a” con “ei” come da vocabolario inglese.Stage” è una parola francese che in italiano traduciamo “tirocinio” e trova la sua corrispondenza in inglese con “internship”.

Mutatis mutandis, anche “management” è un’altra parola che molti italiani pronunciano “manàgement”, mentre l’accento starebbe sulla prima “a” del vocabolo.

  • La differenza tra “Sorry” ed “Excuse me”

Gli italiani generalmente confondono le due espressioni, ignorando che “sorry” viene utilizzato per scusarsi con qualcuno, mentre excuse me” per richiamare l’attenzionedi qualcuno, affinché risponda ad una domanda o alla richiesta di un’informazione.

  • La negazione doppia in una frase

Se in italiano non c’è alcuna regola che vieta l’uso della doppia negazione in una frase, in inglese la frase negativa è costruita in modo diverso. La frase “non ho visto nessuno”, infatti, in italiano è corretta, mentre in inglese “I didn’t see nobody” non lo è. Dunque, la forma corretta sarebbe “I didn’t see anyone”.

Tuttavia, considerati gli errori più banalmente diffusi e il luogo comune sull’italiano medio che, all’estero, anziché cercare di parlare inglese, inizia a gesticolare e mimare o tira un sospiro di sollievo se incontra connazionali ai quali accodarsi, sembra che in Italia la scarsa attitudine all’inglese non sia iscritta nel corredo genetico, ma nasca a scuola, dove, secondo Peter Sloan, professore e autore di molti corsi di lingua distribuiti in libreria, vengono usati metodi improntati soprattutto sulla grammatica e poco sulla conversazione.

D’altra parte, la normativa relativa all’introduzione del Clil – Content and Language Integrated Learning, apprendimento integrato di contenuto e lingua, sull’insegnamento della lingua inglese nei licei e negli istituti tecnici, trova ancora difficoltà nell’essere applicata.