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La Globaldistruzione

di Gabriele Felice

Dovremmo badare a non fare dell’intelletto il nostro Dio. Esso ha dei muscoli potenti ma nessuna personalità. Non può guidare: non può che servire e non è esigente nella scelta di una guida. Questa caratteristica si riflette nei suoi sacerdoti, negli intellettuali. Ha una vista acuta quanto ai metodi e agli strumenti ma è cieco quanto ai fini e ai valori. Non c’è da meravigliarsi che questa cecità fatale sia passata dai vecchi ai giovani ed oggi affligga una intera generazione. Il progresso tecnologico non ha aumentato il benessere e la sicurezza dell’umanità. Perfezione dei mezzi e confusione dei fini sembrano caratteristici del nostro tempo.. La sottile ricerca e l’attento lavoro scientifico hanno spesso avuto tragiche conseguenze per l’umanità, poiché hanno sì prodotto, da un lato, invenzioni che hanno alleviato la sua fatica, ma hanno introdotto una grave inquietudine nella sua vita, lo hanno reso schiavo del suo mondo tecnologico e, cosa più catastrofica ancora, hanno creato i mezzi della sua stessa distruzione di massa. In verità una tragedia spaventosa” – ALBERT EINSTEIN.

I singoli paesi, i singoli popoli devono essere liberi, liberi di essere nuovamente loro stessi, di essere protagonisti del loro destino, del loro sviluppo basato sulle proprie aspirazioni, tradizioni, valori, risorse, talenti.
I “messianismi” o i “pacchetti preconfezionati” non hanno mai funzionato e semmai generato mostri che hanno a loro volta procurato tragedie. 
Ritrovare ognuno la propria identità, perché di questo si tratta è l’unica strada battibile e questo non può che passare dal risveglio delle coscienze dal momento che è impensabile che il potere in senso lato vada contro i suoi stessi interessi promuovendo un nuovo ordine.

Occorre rispolverare l’etica politica perché come dice Berger: «Nessun discorso umanamente accettabile sugli angosciosi problemi della povertà nel mondo può evitare considerazioni etiche; e nessuna etica politica degno di questo nome può evitare il problema del Terzo mondo»

In questo modo è possibile che la nostra vita si leghi a quella degli altri in una interazione sociale possibile, inseguendo premesse comuni di libertà, democrazia, quindi giustizia sociale e ottenere uno «SVILUPPO DAL VOLTO UMANO» (A.Farina).

Ecco che allora con il cambiamento delle coscienze si ha il cambiamento del sistema per la creazione di un nuovo ordine mondiale da più parti auspicato. Questo purtroppo non è avvenuto ed ecco che l’umanità si ritrova nel bel mezzo di un nuovo scontro di civiltà che rischia di essere l’ultimo.

La globalizzazione non è altro che il tentativo di rendere il modello liberal capitalista un modello unico, come se la storia avesse finalmente portato questa umanità inquieta a trovare un minimo comun denominatore capace di stemperare i contrapposti interessi e visioni del mondo.

Non solo non è così ma i danni “globaldistruttivi” sono stati e sono enormi sotto tutti i punti di vista: economico, ambientale, climatico, sociale, politico, etico.

Possiamo partire dall’irregolare distribuzione delle risorse, alla stessa possibilità o impossibilità di utilizzo: non tutti i paesi sono in grado o messi nelle condizioni di utilizzare quelle, tante o poche che siano, di cui dispongono.
Tra le varie risorse ve ne è una che non può essere dimenticata e a mio avviso la più importante in quanto produttrice di cibo: la terra.

Il terreno agricolo sarebbe una risorsa stabile se non venisse sempre più sottratto alle coltivazioni dall’ampliamento delle città, dall’insediamento di sempre nuove industrie, dalla costruzione di strade o dalle ricerche minerarie, dalle multinazionali più interessate al profitto che al soddisfacimento delle necessità delle popolazioni locali.

Inoltre, gli errori compiuti nell’utilizzazione dei terreni coltivabili hanno provocato gravi problemi tra i quali l’erosione del suolo è forse quello più macroscopicamente evidente.
Calcoli teorici eseguiti in rapporto all’attuale popolazione, hanno stabilito che il totale delle risorse biologiche della terra e dei mari potrebbe produrre circa 40 t./ab. di cibo all’anno, cioè circa cento volte più di quanto necessario.

Ma è una valutazione del tutto teorica.
Nei paesi sviluppati la produzione di cibo è aumentata più rapidamente rispetto alla crescita della popolazione, mentre nei paesi meno sviluppati no.
Se si vorrà realmente migliorare in modo adeguato il regime alimentare di quelle popolazioni che attualmente sono in condizioni tragiche e al tempo stesso provvedere al nutrimento dovuto all’incremento demografico, occorrerà operare grossi cambiamenti nella organizzazione delle coltivazioni e nell’impiego di mano d’opera e di capitali per l’agricoltura (senza sottovalutare la distribuzione di cibo nel mondo).
L’erosione dell’ambiente, delle risorse (si consuma ogni anno sempre di più rispetto alla capacità della terra di rigenerarsi), del clima sta portando alla morte di un ecosistema o almeno lo sta modificando in termini drammatici.

Lo sfruttamento eccessivo del terreno, l’erosione dello strato fertile superficiale, il ripestaggio delle greggi e dei branchi di bufali impediscono la rigenerazione delle fasce marginali delle foreste che lentamente si ritraggono.
Malgrado le enormi dimensioni, non esiste oggi nelle regioni monsoniche (tanto per fare un esempio) una sola parte che si sia salvata dalla manomissione dell’uomo.

Nell’intero bioma monsonico non è sopravvissuta nessuna foresta primaria.
Il ritmo dell’intervento dell’uomo si è poi talmente accelerato in questi ultimi cent’anni che, nell’Asia meridionale meno di 1/10 del territorio è ancora ricoperto da foreste: riduzioni simili, per far posto alle colture, stanno subendo anche le rimanenti regioni.
Un rapporto del «Centre for Science and Enviroment» afferma che l’India sta perdendo più di un milione di ettari di foreste ogni anno, e uno studio comparato con l’ausilio dei satelliti ha consentito al National Remote Sensing Agency di precisare che la perdita annua media è di 1.300.000 ettari.
Il diboscamento ha privato il delta del Gange, il Bangladesh, dalla difesa contro le inondazioni durante la stagione dei monsoni, con effetti disastrosi su milioni di abitanti.
Nei paesi del Sahel sono una sorta di cerniera fra le enormi e desertiche distese del Sahara e l’Africa delle foreste tropicali negli ultimi decenni si è assistito ad un avanzamento del deserto in aree precedentemente fertili.
Questo processo che sembra per ora inarrestabile interessa ormai più di 30.000.000 di Kmq.

In tempi recenti, sul solo margine meridionale del Sahara, sono andati perduti ben 750.000 Kmq di terra un tempo produttiva.
Coltivazioni intensive in terreni non idonei, irrigazioni irrazionali, pascoli eccessivi, abbattimenti di alberi e cespugli per ricavarne legna da ardere, spesso aggravati da periodi di siccità imprevisti o troppo lunghi, sono tra le cause che hanno determinato l’avanzamento dei deserti sulla superficie terrestre. Secondo gli esperti del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (PNUE), l’espandersi dei deserti, e in particolare di quello del Sahara, rappresenta una delle maggiori minacce ecologiche per il futuro del mondo.

Si è calcolato che le perdite economiche annuali dovute all’avanzamento del deserto si aggirano sui 6-7 miliardi di dollari in tutto il mondo.
Nella maggior parte dei Paesi industrializzati attualmente le foreste sono oculatamente protette per la loro importanza ecologica, ma nel Terzo Mondo quasi tutte le zone a rapido incremento demografico sono oggetto di una vera decimazione da parte delle comunità dei villaggi in espansione che non dispongono di altro combustibile del legname o di terreni adatti all’agricoltura. Le risorse presenti continueranno a diminuire a causa dello sfruttamento e delle sviluppo agricolo, soprattutto nell’America Latina e nell’Asia sud orientale almeno fino a quando non hanno raggiunto uno sviluppo pari a quello dei paesi industrializzati.

La tecnica di acquisizione del terreno per l’agricoltura è la stessa da più di duemila anni, quella del «taglia e brucia» (non dissimile da quella usata in Africa), basata sul diboscamento e sugli incendi: essa dà come risultato la creazione di piccole aree sgombre rese fertili dalle ceneri.

Una ragione saliente di questa incessante ricerca di nuovi terreni da coltivare sta nel fatto che la specializzazione delle colture industriali riguarda la produzione di prodotti “export oriented”, dedicati ai mercati esteri, cui fa da contraltare un’organica insufficienza dei prodotti destinati al fabbisogno alimentare della popolazione.

Esempio: condizioni climatiche ideali hanno favorito lo sviluppo della coltura del cacao, pianta equatoriale che esige forti investimenti di capitali ma che è assai redditizia.
Oggi a causa dell’aumentata pressione demografica (si calcola che oltre 200.000.000 di persone vivano nel terzo mondo di questa forma di agricoltura), la pratica dell’incendio viene ripetuta di frequente fino al totale esaurimento del suolo.

Altro effetto collaterale della mancanza di terreni e di ragioni di scambio inadeguate è l’aumento della produzione di stupefacenti.
Tra il nord e il sud esiste una vera e propria interdipendenza rispetto al fenomeno: è nel sud che la droghe vengono prodotte ed è nel nord che vengono principalmente consumate.

Numerosi contadini del sud hanno inserito le colture illecite in una reale strategia di sopravvivenza.
Per certi Stati, strangolati dalla crisi economica e dal debito estero, i ricavi della vendita della droga rappresentano una reale boccata d’ossigeno.

Oggi, per far posto alla coca si sacrificano gli appezzamenti dedicati alle colture alimentari, oppure si distrugge la vegetazione delle pendici dei monti provocando così gravi fenomeni di erosione.

La produzione e la lavorazione della coca per ricavare la “la pasta base” assorbono una grande quantità di fertilizzanti, insetticidi e prodotti chimici inquinanti con gravi conseguenze per l’equilibrio che regola l’ecosistema della foresta umida.

Per molti contadini questa rimane comunque l’unica possibilità di sostentamento che garantisce quel minimo di sicurezza finanziaria che altri tipi di attività ormai non garantiscono più.
Non di minore importanza è la scoperta che metà delle precipitazioni annuali sono generate dalla foresta stessa: cosa non trascurabile se si pensa che solo l’Amazzonia produce il 60% dell’acqua dolce del mondo.

Non a caso assistiamo alla richiesta pressante di strumenti per la depurazione dell’acqua come quella di contenitori si acqua potabile.
La gente dipende esclusivamente dagli invii di acqua pulita e per lo più è costretta a bere l’acqua alluvionale, gravemente inquinata da detriti umani e animali.

Altro problema: la crescente richiesta di legname da parte del mercato mondiale. L’andamento dell’esportazione di legno tende a salire costantemente soprattutto per volontà dei paesi dell’Asia meridionale e sudorientale.
Un’impresa quella del legname che oltre a sconvolgere gli equilibri naturali di quest’area si sta rivelando discutibile anche dal punto di vista economico dal momento che, esaurite le aree più facilmente accessibili, lo sfruttamento delle zone più impervie ha costi tali da vanificare i profitti.

A tutto questo dobbiamo aggiungere: le sfavorevoli ragioni di scambio internazionali e inflazioni, spesso in conseguenza dell’incapacità di attuare programmi di sviluppo equilibrati e flessibili; l’immigrazione, non solo da sud verso nord e da est verso ovest ma dalle aree rurali depresse alle città dalle “mitiche” opportunità.

Una immigrazione che ha minato non solo l’economia rurale di sussistenza ma anche la coesione familiare e la rete di rapporti che costituivano la forza della vita rurale.
In una situazione in cui gli adulti sono alla disperata ricerca di un lavoro ci si aspetta che i bambini badino a sé stessi.

Invertire il processo è costoso, difficile e possibile solo con piani di cooperazione internazionale ed un sostanziale ripensamento del modello di sviluppo a livello globale.
Il compito e la sfida è quello di imparare a riconoscere limiti imposti dalle risorse e dall’ambiente e soprattutto di vivere entro tali limiti. La globalizzazione anche solo da questo punto di vista va quantomeno ripensata e velocemente prima che qualcuno pensi di risolvere tutto con la guerra che sarebbe l’ultima. Visto il contesto di un saggio a più mani ho voluto semplicemente dare delle suggestioni, offrire degli spunti di riflessione, nulla più.

Ho iniziato con una citazione voglio terminare con una citazione di speranza: “I nostri problemi vengono creati dall’uomo, perciò possono essere risolti dall’uomo. Perché in ultima analisi, il legame fondamentale che unisce tutti noi é che abitiamo tutti su questo piccolo pianeta. Respiriamo tutti la stessa aria. Abbiamo tutti a cuore il futuro dei nostri figli. E siamo tutti solo di passaggio.” John Fitzgerald Kennedy.

 

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