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La ragnatela della violenza domestica

Quando il ragno tesse la tela della violenza domestica,
quale tutela e protezione per le vittime?

di  Alice Mignani Vinci

“Nessun posto è bello come casa mia”: così recitava la giovane Dorothy nel celebre lungometraggio disneyano “Il Mago di Oz”.
Eppure, tra quelle che dovrebbero essere mura sicure, culla degli affetti e rifugio dagli affanni, si annidano sovente regimi del terrore, sopraffazioni, abusi, paura soffocata e rinchiusa in una prigione.
Una emergenza, quella della violenza domestica, che il presente legato alla pandemia e alle relative restrizioni ha esasperato oltremodo, inutile eludere il dato oggettivo: la violenza è cresciuta in modo esponenziale a seguito delle misure adottate dal governo per il contenimento dell’epidemia da Covid-19.

Poiché per molti, dover passare più tempo a casa equivale a divenire preda di abusi e carnefici, questi ultimi dotati di maggiore possibilità di nuocere alle loro vittime, in un momento storico in cui sono diminuiti gli interventi domiciliari necessari a monitorare costantemente situazioni a rischio, famiglie disfunzionali, relazioni giunte ad un punto di non ritorno. La difficoltà di trovare spazi e modi per chiedere aiuto per le vittime è tangibile, a causa della convivenza forzata col soggetto violento all’interno delle mura domestiche.
Che  statisticamente parlando, nella maggior parte dei casi è un uomo, ma bisogna andare oltre le rigide connotazioni di genere, e considerare anche le carnefici donne, e dunque il fenomeno nella sua trasversalità. Tensioni che divengono incontenibili, liti per motivi futili, in quelle prigioni domestiche, in situazioni già precarie, può accadere di tutto.
Là fra quelle mura che dovrebbero essere territorio sicuro si celano sempre più veri e propri regimi del terrore. Dittature ingabbiate, tensioni che esplodono, e sovente uccidono. Quando si parla della violenza domestica, il pensiero corre subito a donne che divengono preda dei loro aguzzini, mariti e compagni violenti. Ma la violenza assume forme, carnefici, e vittime differenti.
Ad esempio, poco rilievo viene dato alle situazioni reali e drammatiche di famiglie in cui vi sono soggetti con diagnosi psichiatrica, le cui reazioni, se non controllate, possono giungere a veri e propri raptus, atti aggressivi rivolti ai familiari che ogni giorno devono cercare di contenere, arginare agiti e pensieri folli degli stessi, frenare una degenerazione che è sempre dietro l’angolo.
A Livorno, figlio 28enne uccide il padre ultrasessantenne con una coltellata allo stomaco, a seguito dell’ennesima lite, per motivo totalmente futile: una cucina in disordine. La scintilla, un mero pretesto per gettare benzina sul fuoco. Precedenti di aggressioni e segnalazioni alle forze dell’ordine che come sempre si risolvono in un nulla di fatto, e giunge la morte di un uomo, l’esito tragico, e possibilmente evitabile.
E sempre un coltello è macabro protagonista di un’altra vicenda al limite in quel di Pavia dove una 14enne è stata fermata con l’accusa di tentato omicidio aggravato ai danni della madre, dopo aver tenuto in scacco le due sorelle e aver probabilmente pianificato il tutto. Sono solo due dei numerosi casi emblematici di come la violenza domestica sia una emergenza oltremodo fuori controllo, cui non giungono risposte e tutele concrete.

Le case del conforto, per molti, degli affetti familiari; ma per altri, vere prigioni del terrore, teatri di paure, violenze e sopraffazioni. La rete antiviolenza non deve fermarsi, così come i controlli e gli interventi dei servizi sociali e delle forze dell’ordine, ma ciò non è sufficiente. L’unica reale salvezza per molte vittime di violenza, donne, minori, o chicchessia, è potersi allontanare fisicamente dai propri carnefici, fuggire, avere protezione e distanza concreta.  
I fili che intessono la ragnatela delle violenze domestiche sono complessi, molto spesso i ruoli di carnefice e preda sono sfumati, bisogna considerare il fenomeno nella sua trasversalità, nella molteplicità di possibili vittime, di rapporti che sovente ad un primo sguardo possono apparire l’opposto di ciò che sono. La messa in scena del reale, i meccanismi della paura, l’essere in alcuni casi soggiogati e plagiati nei riguardi del proprio aguzzino. Per questo gli interventi degli operatori devono essere frutto di esperienza, capacità professionale, occhio acuto che sa discernere e comprendere i “teatri della paura”, i rapporti disfunzionali, il malessere che diviene trappola governata da una subdola coercizione. Nella ragnatela della violenza, in quella trappola, le vittime sono private del respiro, della libertà, temono di chiedere aiuto: denunciare è un atto di coraggio, è un principio di salvezza, ma coloro che trovano la forza di fare ciò, devono godere di protezione, tutela effettiva, e su questo fronte siamo ancora lontani da efficaci forme preventive e cautelari che rappresentino per le vittime una fortezza, un rifugio, una solida salvaguardia cui appellarsi per scorgere la speranza di sottrarsi al regime del terrore.

 

Alice Mignani Vinci  

 

 

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