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L’ironia di Franco Zuccalà:
un decano del giornalismo nato con la camicia

Franco Zuccalà ha svolto con classe ed entusiasmo una professione con cui poter dare l’acqua della vita all’uso dei luoghi comuni della lingua italiana. I luoghi dell’anima, congiunti al senso etimologico della parola topofilia (dal greco topos, “luogo”, e philia, “amore”), hanno invece caratterizzato la sua seconda giovinezza. Contraddistinta da un’ombra di malinconia in più rispetto allo smalto degli anni verdi, trascorsi sulla carta stampata ad apprendere il mestiere. Da Francesco all’anagrafe fu ribattezzato Franco. Per tagliare corto. E lui imparò subito che il gioco del calcio non doveva essere preso troppo sul serio. Da sfegatato tifoso romanista, avvezzo a chiamare ‘lenti a contatto’ la coppia di centrali della mia squadra del cuore, trovai spassosa l’aggiunta di ‘soporifera’ fatta da Zuccalà alla linea difensiva capitolina.
Nell’ultimo campionato italiano a sedici squadre, vinto sul filo di lana dal Milan di Gullit, quando Salvatore Bagni fece il gesto dell’ombrello ai tifosi rossoneri, disse che era un invito premuroso. In campo pioveva a dirotto: dovevano coprirsi. Nei suoi servizi televisivi, dopo gli articoli redatti con sagacia ed energia, c’era una bella padronanza dei modi di dire legati ai verdetti del campo. Zuccalà affermava la propria autonomia col valore terapeutico dell’ironia, senza mai cadere in forzature caricaturali.
Partita dopo partita, lontano dalla cifra dell’odio dei tifosi che scambiavano gli stadi per arene, ha saputo allietare le domeniche di molti sportivi. A lui non è mai interessato un granché il problema della verità, intesa come ‘aletheia’. Al concetto di ‘dischiudimento’, o di ‘svelamento’, preferiva la ‘condicio sine qua non’ della schiettezza. Franco di nome e di fatto. Oggi, che alla soglia delle ottanta primavere potrebbe sostare sul crinale del buon senso, continua a girare come una trottola, un fiume in piena, un globetrotter. L’aura contemplativa, ad appannaggio della poesia, lo annoia. Tuttavia i suoi documentari, alieni alla registrazione nuda e cruda, sono un atto d’amore per i luoghi visitati coi microfoni, i taccuini e le telecamere. Ma anche il segno tangibile del carattere d’ingegno creativo. Sensibile e giocoso.

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Lei ha lavorato con grandi giornalisti: Montanelli e Gianni Brera sulla carta stampata ed Enzo Biagi per la tv. C’è qualcun altro da ricordare?
Ho lavorato, intorno al 1958, con Giuseppe Fava, detto Pippo. Bravissimo pure come scrittore. Anch’egli siciliano. Fu ucciso a Catania dalla mafia trentacinque anni fa.

Ammiro Giuseppe Fava pure per la trasposizione del suo libro “Passione di Michele”. Il film che ne fu ricavato, “Palermo oder Wolfsburg” di Werner Schroeter, trionfò al Festival di Berlino nel 1980 e ancor oggi non perde un colpo. Coi blog invece chi perde i colpi può correggere di continuo le notizie. Si stava meglio prima, con gli incidenti tecnici?
Ogni epoca costituisce un caso sé stante. Quello che posso dirle è che ai miei tempi i correttori di bozze facevano bene il loro lavoro. La figura del correttore di bozze oggi è scomparsa. Tuttavia, alla luce della mia esperienza presso molteplici testate giornalistiche, ne ho viste di cotte e di crude. E spesso non erano cose tristi, bensì comiche. Sebbene in modo involontario. Per dirne una, a “Telestar”, a Palermo, dove fui assunto dopo aver mosso i primi passi come giornalista col “Corriere di Sicilia”, nella mia città, partivano i giornali con la prima edizione verso le undici di sera. Diretti verso gli angoli più remoti dell’isola; erano testate locali, contenenti, però, un errore notevolissimo: anziché ‘cosche’ mafiose, c’era scritto ‘mosche’ mafiose. La vettura ‘incriminata’ fu fermata a Gela, al termine di un inseguimento, e le copie con lo strafalcione vennero bruciate.

L’aneddoto ricorda le vignette del “Candido”. Col tormentone “Contrordine compagni” dei ‘trinariciuti’ comunisti nella serie “Obbedienza cieca, pronta assoluta”. Lì i ‘consigli’ di fabbrica, a cui fare gli inchini, erano presi per ‘conigli’. Di papere anche Bruno Pizzul ne ha prese. Nutro però stima per il professionismo dimostrato in contesti tragici. È vero che avete inventato la figura, anch’essa scomparsa, del bordocampista?
Fu una mia idea, a onor del vero. Ma, in effetti, Pizzul m’ispirò. Se cosi si può dire. Bruno, durante le telecronache degli incontri della Nazionale italiana di calcio, era solito fumare. Solo che, per quanto cercasse di non far sentire il rumore dell’accendino, gli ascoltatori mangiavano la foglia. Sull’esempio dei colleghi statunitensi, pronti a raccogliere le testimonianze degli atleti appena conclusi i match, permisi a Pizzul di sfogarsi: io ‘pescavo’ i calciatori, prima che scendessero negli spogliatoi, e lui fumava in pace.
Concordo sul fatto che con la telecronaca della finale di Coppa dei Campioni del 1985, tra Juventus e Liverpool, diede prova di professionalità. Come lei ricorda, Pizzul prese la decisione giusta a non dare notizie dei tifosi sopravvissuti alle famiglie all’ascolto. Perché sennò avrebbe allarmato quelle di chi non era riuscito ad arrivare alla tribuna stampa. Fu atroce quello che fecero gli hooligans, però lui svolse l’ingrato compito di telecronista con decoro. La sua umanità affiorava pure nei momenti lieti. A Stoccolma, dove ci trovavamo per seguire la Nazionale, perse il taccuino. Rimediammo alla bell’e meglio. Bruno si adattò, senza battere ciglio.

Pizzul è anche un omone ed ergo, benché educatissimo, impossibile da spostare. Il Trap invece una volta le appioppò una spinta. Rientrava nei rischi del mestiere di bordacampista?
Nei rischi, per così dire, sì. Negli imprevisti, no. Perché può capitare. Specie a chi è esile tipo il sottoscritto. Io, come dà a intendere lei, ero armato di buona volontà, e altresì di una robusta ironia, ma non avevo, né ho, ovviamente, la stazza di Bruno. Giovanni Trapattoni è stato senza dubbio un bravo allenatore, anche se lo hanno tacciato di ricorrere troppo al catenaccio. Ha saputo gestire i vari calciatori, ma è sempre stato suscettibile.
La sera del 7 dicembre 1988, al termine del primo tempo dell’ottavo di finale di ritorno tra lnter e Bayern Monaco, si stizzì. All’andata la squadra nerazzurra s’impose per 2 a 0. Il Trap pregustava il passaggio del turno. In casa, a San Siro, dopo i primi quarantacinque minuti, la Beneamata invece perdeva per 3 a 1. Mi limitai a chiedergli come l’avrebbe messa per il secondo tempo. Non me la presi, comunque. Bisogna essere sportivi. Trapattoni era convinto che noi isolani trapiantati a Milano capissimo poco di calcio. Eppure aveva esordito in Nazionale in Sicilia. Terra d’intenditori.

Gianni Agnelli, padrone sia della Juventus ché della Fiat, dai modi ieratici ma al contempo signorili e affabili, sapeva stare allo scherzo?
Agnelli, sì. In uno dei miei servizi sottolineai che la Juve, in uno dei rari momenti di crisi, non camminava nemmeno a spinte, come la pur reclamizzata Duna. Se la ricorda? La macchina berlina prodotta dalla casa automobilistica di Agnelli. L’Avvocato disse che non mi avrebbe mai preso come capo dell’ufficio stampa della Fiat.

Altri presidenti erano meno autoironici. Silvio Berlusconi si è spesso risentito. Ed Ernesto Pellegrini pose il veto affinché non entrasse ad Appiano Gentile. Ma cosa la spingeva ad assestare punture di spillo, sia pure con la sana insolenza dell’umorismo, ai padroni del vapore e del pallone?
Mi divertivo. Berlusconi una volta intimò al sottoscritto di non inquadrargli un brufolo. Il Cavaliere ci ha sempre tenuto ad avere un’immagine ineccepibile. Io, d’accordo col mio operatore, Sergio Calabrese, con cui c’intendevamo a meraviglia, cominciai il servizio con un primo piano del brufolo. Per quanto riguarda Pellegrini, presidente dell’Inter dal 1984 al 1994, presi spunto da Gino Bramieri, tifoso nerazzurro, che dava uno spettacolo dal titolo “Sono momentaneamente a Broadway”. Il comico, esilarante nelle macchiette e nel gioco degli equivoci, disse che bisognava tappezzare San Siro di giornali perché l’Inter era forte solo sulla carta. Come sostenuto a inizio campionato da Pellegrini. Il quale venne poi al Teatro ad assistere alle caricature di Bramieri e del suo staff che gli strapparono tante risate. Grazie alla destrezza dell’operatore attaccai l’immagine del Presidente divertito al servizio dell’Inter sconfitta in casa, insieme ad altri ghiribizzi. Come li chiama lei.

Però, al contrario di Beppe Viola, dotto paroliere, aveva bisogno del supporto delle immagini la cui logica è acritica e seriosa. Lei l’ha resa spassosamente critica. Cosa c’era in quella (il)logica comunicativa che la spingeva a diventare più spiritoso di quanto fosse fuori dai servizi tv?
Ma io non sono spiritoso. Sono un asociale, chiuso in me stesso. Non ho mai avuto tanti amici. Mia moglie teme che col vizio di dire certe verità scomode le faccia perdere le sue ‘pie’ amiche. Ci sono persone che mi hanno tolto il saluto a causa di quella che lei ha definito sana irriverenza. Da giornalista mi sono sempre mantenuto neutrale, fuori dalla mischia e dalle polemiche sterili, per svolgere al meglio il mio lavoro. Con Beppe Viola, che mi è morto praticamente tra le braccia mentre stava montando il servizio di Inter-Napoli, scherzavamo di continuo. Da buoni amici. Tra gli argomenti che, fuori dai servizi, prendevamo di mira il nostro preferito restava l’impasse sulla tempistica delle raccomandazioni politiche, o segnalazioni che dir si voglia, per entrare alla Rai. Viola era sferzante, impeccabile, tanto nelle parole quanto nel vero spirito di solidarietà e collaborazione tra colleghi.

La vena sfottente aiuta a tenersi a distanza dall’accidia delle idee attinte all’altrui estro e dai concetti totalizzanti. Esistono però pesi informativi diversi. Un conto è mostrare l’occhio nero di Gullit, campione d’ebano del Milan aggredito in un derby da Passarella, e un altro è parlare coi Capi di Stato di questioni d’interesse mondiale. In tal caso i trucchi del mestiere per lei restano immutati?
Prima ha posto l’accento sui rischi del mestiere di bordacampista. Adesso affronta la questione dei trucchi del mestiere del giornalista a tutto tondo. Abituato quindi a viaggiare e a confrontarsi con realtà agli antipodi tra loro. I pesi informativi hanno in effetti portate spesso diverse, ma i trucchi del mestiere sono gli stessi. Io, come giornalista prima della carta stampata e poi del piccolo schermo, ho avuto il privilegio di visitare ed esplorare i cinque angoli del globo intervistando personaggi di assoluto spicco. Henry Kissinger su tutti. Quando mi trovavo a Johannesburg riuscii ad avvicinare una delle guardie del corpo di Nelson Mandela. Era l’unico bianco lì in mezzo. Un siciliano. Come me. Ruppi il ghiaccio parlando di arancini e altre prelibatezze della nostra terra. Lui mi diede l’imbeccata, consigliando di fare riferimento, da italiano, all’imminente incontro del Presidente del Sud Africa con Giovanni Paolo II. Forse esagerai. Mandela mi prese per un amico, o conoscente, del Papa. E vuotò il sacco: parlò nei minimi dettagi della ripartizione tra bianchi e neri.

Il senso di appartenenza, rappresentato dalla sicilianità lontana dai confini domestici, può quindi aiutare a raggiungere traguardi inattesi ed etici. Tuttavia, proprio a Catania, sui banchi di scuola, lei ha conosciuto un concittadino anch’egli ironico, ma più intellettuale. Mi riferisco a Giampiero Mughini. Non è mai entrato in competizione con lui?
No, ci mancherebbe. Ci siamo confrontati solo nell’atletica leggera. Non sono una persona pesante e mi guardo bene dal rivaleggiare sul terreno della scienza. Mughini ha una ragguardevole proprietà di linguaggio. Ma abbiamo anche conversato, se non in dialetto, coi segnali discorsivi. Giampiero, dopo aver ubbidito ai diktat dell’istituto dove ci siamo diplomati, è divenuto un ribelle. Il suo senso dell’umorismo è diverso dal mio. Ci vediamo poco o niente: io abito a Milano, lui a Roma. Tuttavia mi piace il suo percorso. Alla Picasso. Con colori ed espressioni mutevoli.

Mughini, al di là dell’attitudine ad appaiare facondia argomentativa e battute secche, non ha mai contrattato il prezzo per i suoi articoli. Lei, Zuccalà, quando è passato dalla carta stampata alla tv, su sprone di Pippo Baudo, mi risulta che fece il tragitto da Milano a Catania a bordo di una Ferrari. Gli editori dei giornali pagavano bene?
Quella della Ferrari è una storia curiosa. Un mio amico petroliere fu rapito e quando venne liberato volle vendere a rate la Ferrari. La televisione privata mi ha poi permesso di acquisire dimistichezza col mezzo tecnico. Mi fu utile quando passai alla Rai. La busta paga era buona. Non sono divenuto miliardario, ma non è stata mai una mia aspirazione. Come sostiene lei, per quanto riguarda i documentari, i soldi non rappresentano un marchio di qualità.
Quando, verso la metà degli anni ’90, la Rai perse i diritti sugli scontri di vertice, con la prospettiva se mi andava bene di fare il servizio di Bologna-Napoli, approfittai dello scivolo. Col prepensionamento era chiaro che non avrei incassato in vecchiaia molti soldi. Ma glie l’ho detto: le cose che contano sono altre. Dopo aver lavorato per una tv svizzera, cedetti alla “corte” dell’insistente Italpress. È diventata una seconda famiglia. Poco larga di manica. Per rispondere alla sua domanda, gli editori dei giornali pagavano di più. Però si può essere felici anche con due spicci.

Allude al servizio che ha fatto per i trent’anni di Italpress. Il suo mix d’immagini e parole cattura la “possibilità di dividersi la torta” e “i generali che guardano con orgoglio i propri soldati”. Sembra che Vialli una volta le diede l’altolà. Andò oltre con l’abitudine a pungere sul vivo con umorismo?
Mi è capitato recentemente d’incontrare Gianluca Vialli ed è stato garbato, come sempre. Alle mie domande ai tempi rispondeva col sorriso sulle labbra. Anche le poche volte che era scuro in volto, manteneva una certa educazione. Alcune sue risposte erano pure argute. Solo in un’occasione perse l’aplomb. Fu alla vigilia, a Mosca, della sfida della Nazionale italiana contro l’Urrs per gli Europei del 1992. Azeglio Vicini, come commissario tecnico, aveva le ore contate. Arrigo Sacchi era pronto a sostituirlo. Io misi il dito nella piaga. A modo mio. Lui ebbe un brutto presentimento.

Vialli si è distinto dalla maggior parte dei suoi colleghi, in lotta coi congiuntivi. Quando l’allora Presidente della FIGC, Antonio Matarrese, lo accusò di atteggiarsi a Robin Hood del calcio italiano, ebbe la battuta pronta: sempre meglio ché essere lo sceriffo di Nottingham. Se lo ricorda?
È verissimo: Vialli aveva la battuta sempre in canna. Sui campi di gioco era rapido, coriaceo, acrobatico. Tirava forte, faceva le rovesciate, costringeva alla resa i difensori più arcigni. Soprattutto possedeva, e possiede tuttora, la sana impertinenza che lei attribuisce anche al sottoscritto. Ad Arrigo Sacchi forse questa cosa dava fastidio. Io stesso mi sono scontrato con dei pezzi grossi. E non glie le ho mandate certo a dire.

Nei suoi documentari sembra nondimeno che ad animarla, invece della voglia di dire le cose papali papali e di trarre linfa dai luoghi comuni, sia quella di raccontare l’anima d’ogni posto. Gli esperti di geografia emozionale definiscono scoperta dell’alterità la virtù di mettere in luce le differenze, i punti di scontro e d’incontro dei luoghi dell’anima. Allora sa fare le cose sul serio?
Non sono capace a fare le cose sul serio. Però ho oltre cinquecento ore di filmato. Non ho più il mio operatore al seguito. Non me lo posso permettere. Ma con la macchina da presa, o telecamera che dir si voglia, me la cavo pure da solo. Ovviamente non ne possiedo una alla moda, capace di scrivere con la luce, di cogliere, come dice lei, Serriello, i giusti contrasti di luce. Pazienza. Quando il mio cuore ha fatto un po’ i capricci, la mia preoccupazione per i documentari è stata forte. Non avendo eredi in carne ed ossa, i miei figli sono loro. Ma questo credo che sia evidente.

C’è un’altra cosa che balza agli occhi. Lei ha parlato di colori ed espressioni mutevoli. Come Picasso. Ma si rendeva conto ai bei tempi che ogni qual volta la inquadravano aveva sempre una cravatta diversa ed eccentrica?
Ma io ci sono nato con la cravatta. Anzi con la camicia. Ho cercato di fare cose diverse. Più originali. Qualche volta ci sono anche riuscito. Pure se mi hanno preso per pazzo. Magari fosse solo per eccentrico. Mi sono fatto comunque volere bene da Sandro Ciotti, quando era conduttore della Domenica Sportiva.
Lavorare divertendosi e divertendo è il massimo. Ed è per questo che mi ritengo fortunato. Sin dalla nascita. Non è da tutti, guadagnarsi da vivere con qualcosa che si ama.

Massimiliano Serriello