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Missione a Budapest: Guido Romanelli e Béla Khun in un’opera cinematografica di Gilberto Martinelli

Cinema allo stato puro ed echi deamicisiani:
lo stile di Martinelli rivela l’anima del secolo breve.

«Sono stata educata alla disciplina. A un genere particolare di disciplina. Per esempio, quando ero bambina, andavamo a fare lunghe passeggiate in campagna d’estate. Ma non mi è mai stato permesso di correre al chiosco delle bibite con le compagne. Mi dicevano: domina la sete, domina la fame, domina le emozioni ». 
Così l’altera Marlene Dietrich in “Vincitori e Vinti” di Stanley Kramer, nei panni della vedova di un generale tedesco condannato all’impiccagione nell’arco dei processi di Norimberga, spiega al giudice impersonato da Spencer Tracy quali sono i precetti di una famiglia composta di militari.

Combattere in guerra, e farlo bene, rientra nei doveri degli individui con la schiena dritta. Le Forze Armate per tutti i figli e i nipoti dei reduci dei conflitti mondiali, che hanno abbreviato il ventesimo secolo, sono una ragione di orgoglio. L’emblema di valori oggi ritenuti desueti. La dialettica tra progressisti e conservatori in quest’ambito non ha portato a nulla. Se non all’inasprirsi di punti di vista opposti per cui ognuna delle due parti è convinta che l’altra sia incatenata alle proprie false sicurezze.

Il regista romano Gilberto Martinelli, accolto lo scorso mercoledì con sincero entusiasmo alla Libreria Horafelix, dimostra che il cinema non è soltanto un veicolo di dubbi, ma anche un modo per spalancare le pagine buie della storia ed esibire la spontaneità di tratto con l’approfondimento di nomi dimenticati. Coperti di polvere. In tal modo l’adagio latino “In medio stat virtus” acquista uno spessore tale che, lontano dall’attitudine a dare un colpo al cerchio e uno alla botte, permette di capire meglio l’Umanesimo di fine Ottocento. Quello, per capirci, ad appannaggio delle buone intenzioni del libro Cuore. Un testo che oggi sa di sorpassato e di obsoleto, nell’epoca delle nuove tecnologie, eppure ancora caro a chiunque preferisca i palpiti di commozione del Romanticismo all’eredità illuminista priva dei colpi d’ali, sia dell’inventiva bonaria, sia dei sentimenti più nobili ed edificanti. La cifra stilistica di Martinelli, esperto tecnico del suono deciso ad approfondire la storia dell’Ungheria in virtù dei rapporti con l’Italia, ha il merito soprattutto di scrostare i luoghi comuni.
Il passaggio dall’arte di garantire forza significante alle condizioni d’ascolto, per mezzo della cadenza dei timbri acustici, al desiderio di spingere all’eccellenza il livello intellettuale ed emotivo degli spettatori, grazie alla realtà colta dal vivo dai film documentari, serve ad andare oltre la semplificazione degli stereotipi.
Il territorio magiaro, dove ha trovato una seconda casa per riuscire ad appaiare la sensibilità del suono in presa diretta ai fattori espressivi combinati dietro la macchina da presa senza l’ausilio della recitazione, riflette per Gilberto il bisogno di anteporre al carattere sbrigativo del semplice vedere l’attenzione di guardare ai personaggi nell’ambito di uno spazio rappresentativo. Ed eterno pure.
L’incipit, dopo le prime testimonianze, richiama nell’inquadratura di sbieco dei binari, in attesa dell’arrivo del treno, i primordi della Settima Arte, con i fratelli Lumière sugli scudi, e l’epilogo dell’affresco storico “Novecento” girato dal compianto Bernardo Bertolucci. Non ci sono tuttavia contadini armati di falce, con il sole dell’avvenire rosso di colore che innesca una colonna sonora prossima all’enfasi. Quando irrompe l’inno dell’Internazionale, con la statua di Lenin inquadrata di profilo, le tecniche di straniamento conciano l’ampollosità per il dì delle feste. Giacché, a differenza degli espedienti volti a trattare i paesaggi urbani in maniera esornativa, svela l’anima delle cose congiunte ai monumenti.
Dietro lo sguardo sul frutto antropologico dell’architettura e della scultura, tramite i pertugi concessi dai rami di un albero che rappresenta l’ordine naturale, risiede il processo d’identificazione con gli eventi raccontati. La noia di piombo, da sempre l’enigma peggiore, capace di fare capolino nel buio della sala a discapito dei propositi di rendere appetibili i problemi socio-politici dovuti a eventi trascorsi, non compare. La bugiarda dittatura del popolo, che prende piede anche fuori dall’Unione Sovietica al termine delle operazioni belliche combattute dal Regno autoctono contro gli eserciti austro-ungari, impersona il Rischio e la Minaccia mentre le ragioni d’insicurezza, anziché essere risolte in spettacolo dagli stilemi dei thriller, vengono a mano a mano spiegate, per filo e per segno, dagli esimi storici chiamati a consulto.

Nondimeno, quando il disfacimento dell’energia morale ed etica della tradizione in terra ungara avviene, l’ode conclusiva “Saluto al vincitore” trasmette un brivido inopinato e richiama alla mente l’inobliabile locuzione latina Vae victis. Ed è un sussulto di coscienza che trascina un soldato fedele alla Patria, come concetto da difendere e conservare, ad avere stima ed ergo pietas di una cultura millenaria messa a rischio dall’accanimento di maramaldi poco avvezzi all’onore, alla ritualità, alla sacralità, al mito del sacrificio. Era il culto delle gerarchie altrui a correre il rischio di cedere alla crudeltà della sopraffazione. A differenza di Bertolucci in Novecento, che si rifugia nel leitmotiv della musica liricizzante col quadro “Il Terzo Stato” posto a sfondo dei titoli di testa, Martinelli ai segni di ammicco della pittura sociale privilegia un’analisi profondissima degli stati d’animo.

La figura di Guido Romanelli, inviato a Budapest con la mansione di osservatore, acquista spicco sulla scorta del rigore dei dettagli. Peccato che tanta carne al fuoco, parallelamente alla necessità della sintesi, abbia conferito ad alcuni particolari, rivelabili anche in scritte colme di pathos, la volatilità dei paesaggi sfreccianti. Intravisti dal finestrino del treno d’inizio film. Comunque l’empatia nei riguardi del comandante della Delegazione Militare nostrana per l’Armistizio col Paese tagliato in due dal fiume Danubio racchiude momenti folgoranti.
Alcuni voluti scompensi, frammisti ai fluidi movimenti di macchina in avanti sui documenti e sui volti immortalati dalle fotografie, catturano nervature ed estreme torsioni sotterranee di scompigli più indicativi delle disquisizioni accademiche.
Se il lavoro di montaggio consente ai vari elementi visivi di toccare dei punti di grazia, allorché il ricordo del grande spirito dimostrato da Romanelli nel difendere gli insorti pervade una partecipazione aliena alle opinioni di schieramento, l’effetto della dissolvenza alza il tiro. Gli stacchi tra le immagini, alcune fisse ma piene di senso, altre dinamiche eppure contemplative, risultano ammorbiditi. Non per carineria, bensì per omaggio all’ardire di un artificiere che in tempo di pace, dopo il ciclone di fuoco appena concluso, volle preservare l’esistenza di chi aveva vicino al di là dei credi religiosi o delle discipline di fazione.
La mansione corale delle voci, spesso pure fuori campo, delle persone intervistate sulla condotta del colonnello in missione pencola di tanto in tanto verso la retorica. Niente di male, comunque, giacché si tratta di un caposaldo dell’ammaestramento classico tradotto nei toni di una messa in scena che vuole raggiungere il grande pubblico. E ci riesce, precisamente. Senza trattenere le emozioni, a dispetto dell’austera signora Bertholt di “Judgment at Nuremberg” e dei superiori di Romanelli che ricevette quale pegno di riconoscenza la Spada d’Onore conservata oggi presso il Museo del Risorgimento dell’Urbe. Un oggetto di culto al pari dei reliquiari della Patria. Anche se la carriera militare dell’eroe andò a carte quarantotto.

Romanelli non commise l’errore di trasgredire agli ordini per sfidare i vincoli di sangue e di suolo con la Nazione. A tradirlo, per così dire, fu il fatto di rappresentare gli ideali del secolo precedente. Nato a Siena, il 15 marzo 1876, dovette rinunciare al sogno di diventare generale. Anche un personaggio piuttosto negletto, in considerazione del cinismo odierno, ma dal piglio fiero, Italo Balbo, seppe stemperare la delusione per i sogni di gloria andati in fumo adoperandosi in veste di governatore della Libia per lasciare una traccia destinata a rimanere. Quando morì, in volo, colpito per sbaglio dal fuoco amico, anche i nemici gli resero onore. Lo stesso onore che è giusto rendere a un toscano di buccia dura, dai saldi princìpi, che certo non condivideva l’idea d’innestare l’embrione bolscevico nel cuore di un’antica civiltà, né volle rimanere passivo dinanzi alla mattanza consumata ai danni degli indifesi. La dialettica con Béla Kuhn nel mezzo della sedizione dei soviet ungheresi e dell’approdo al potere della Repubblica dei Consigli dimostra che un plenipotenziario in rappresentanza delle potenze vincitrici deve sapere quando usare il guanto di ferro e quando quello di velluto, quando preferire l’aquila alla colomba e viceversa. La stima guadagnata dal probo compatriota, per via dell’impegno profuso a mettere in salvo i cadetti dell’Accademia militare di Budapest dalla rabbia della dittatura sovversiva, merita un supplemento d’applausi. Capì che le trattative di pace sarebbero state dure per l’Ungheria e si adoperò affinché la Conferenza di Parigi non infierisse sugli sconfitti.
Le linee territoriali imposte furono invece assai punitive. La delegazione non ebbe la possibilità di aprire bocca. Nel salone Luigi XIV fu costretta a cedere il Burgenland all’Austria, la regione della Backa alla Jugoslavia, la Transilvania alla Romania, la Slovacchia alla Cecoslovacchia.  Più guai ai vinti di così! I due rappresentanti ungheresi – il ministro del Lavoro Benàrd e l’inviato straordinario Drasche-Làzàr – uscirono dal salone come dei cani bastonati. L’intesa al tavolo delle trattative non rispettò nemmeno il Trattato di Londra: il presidente statunitense Woodrow Wilson non ne riconobbe la valenza. Si mormora fosse stato firmato all’insaputa del Parlamento. Quel che è certo è che coi quattordici punti enunciati sulla riduzione degli armamenti e sul regolamento delle questioni coloniali, per rispetto delle nazionalità, furono imposte pure alla Germania condizioni durissime. L’assetto Europeo deciso dai vincitori, Italia a parte, ridusse i tedeschi all’impotenza. Con lo spettro di un’occupazione avversa in caso di mancato pagamento dei debiti contratti durante i combattimenti alle Nazioni uscite trionfatrici.
L’annessione della città di Fiume alla nostra penisola divenne un’utopia. L’Italia tornò da Versailles con le pive nel sacco. La attendevano nei confini domestici le proteste per il costo vita degli apprendisti rivoluzionari desiderosi di ‘fare come in Russia’. Frattanto Gabriele D’Annunzio coniò il termine ‘vittoria mutilata’. Ma l’orgoglioso e generoso modo di agire di Romanelli non fu vano. Ed è giusto che sia stato quello ad animare il connubio d’informazione ed elaborazione di Martinelli.

Rispecchia, a cento anni dagli accadimenti di “Missione a Budapest”, gli studi di teologia impiegati per unire al rispetto della cronaca del tempo lo studio di ciò che è logico e di ciò che è giusto. Essere logici non significa essere giusti, a parere del Giudice Dan Haywood in “Vincitori e Vinti”.
A tagliare la testa al toro è il nume tutelare di Romanelli, il papà del libro “Cuore”, Edmondo De Amicis. Ispirato dalla vita scolastica dei suoi figli, Ugo e Furio, l’autore del clamoroso successo letterario, che i seguaci dell’ipocrita livellamento ugualitario volevano fosse mandato al macero, esaltò le virtù civiche e l’Amor di Patria. Fece capire che non erano come l’acqua e l’olio. Romanelli lo capì bene e fece suo il desiderio di trovare conforto nel servire e amare la Madre Italia.
Molti tromboni intellettuali storcono il naso al pensiero che De Amicis possa essere attuale. Si rassegnino quanti sperano di aver messo a tacere chi amò Romanticismo e Illuminismo al medesimo modo: lo spirito di verità e la sete di giustizia non hanno età. 
Casomai i critici cinematografici – come il sottoscritto – possono cogliere la palla al balzo per riflettere, invece di evidenziare gli elementi filmici capaci di scoprire la vigoria interiore ed esteriore di flash-back con bandiere che pendolano dall’alto. In questo caso occorre porre l’accento sul respiro conferito dalle canzoni d’epoca a un ritratto di un uomo che, lontano dal mestiere delle armi, svela la linearità dell’anima tipica dei bambini. L’assunzione di responsabilità appartiene senza dubbio all’età adulta, il cui passaggio costituisce un trauma per certi versi comparabile a quello del passaggio di consegna da un secolo all’altro.
Tuttavia l’innocenza della purezza di cuore, scevra da sbavature patetiche, giacché portatrice di un modo diverso di conciliare Patria e Civiltà, si trova nell’infanzia. Nel ‘malincomico’ film “Il comandante” la recitazione del Principe Antonio De Curtis individuò nell’amalgama di mestizia ed espansività la chiave per trovare il verso al principio di condotta della cavalleria e dell’etica militare. Anche, se non soprattutto, quando la lontananza dalle caserme riduce i plenipotenziari a dei pesci fuor d’acqua. Soltanto l’immenso Totò – ritenuto un guitto da coloro che intendono ridurre l’umanità alla stregua dei nani per poi innalzare al rango di demiurghi gli artefici delle pellicole militanti – poteva riuscirci. Una maschera della commedia dell’arte, frutto dei prodigi di Madre Natura, avvezza a mettere la figura dell’armigero in costume adamitico. Col valore terapeutico dell’umorismo. Senza voler salvare capre e cavoli. Ma nel rispetto delle doti di signorilità dei veterani che hanno lottato in trincea e nella vita. Non c’è dato sapere se prima di coniugare la sua esistenza all’imperfetto Romanelli abbia visto Totò all’opera, preferendo i semitoni agli accenti.
Nondimeno è bello immaginarlo ridere, scorgendogli l’intenerimento sul volto. Le emozioni sono così: non vanno trattenute.  A Dio piacendo.

MASSIMILIANO SERRIELLO