
ROBERTO MARCHESINI, L’ETOLOGO CHE SA CURARE CON LA PET THERAPY
ROBERTO MARCHESINI, L’ETOLOGO CHE SA CURARE CON LA PET THERAPY
Attività sinergiche e sussidiarie che rafforzano il buon esito degli interventi sanitari
Molto più che pet therapy! Incontriamo Roberto Marchesini a Bologna, dove scrive e lavora nel continuo perfezionamento della sua idea del mondo, non solo quello animale.
Filosofo, etologo e saggista italiano trova nello smascheramento di quell’errore prospettico che pone l’uomo al centro e a misura dei suoi predicati il cardine della propria proposta filosofica. Riconducibile, seppur con caratteristiche proprie, alla più ampia corrente del Post-human.
Le radici del desiderio. Alla ricerca delle motivazioni umane è la sua ultima, recentissima, opera pubblicata dalla casa editrice felsinea Apeiron.
Parliamo con lui di interventi assistiti dagli animali – IAA, cui ci si riferisce sovente con il nome generico di pet therapy, riconosciuti nel nostro Paese come cura ufficiale dal Decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 28 febbraio 2003.
L’intervista
- Professor Marchesini, come nasce questa terapia complementare a quelle tradizionali, e quali evidenze scientifiche può vantare?
«Gli interventi assistiti dagli animali hanno una lunga tradizione di evidenze scientifiche, essendo le prime ricerche strutturate databili nei primi anni ’60 a opera dello psichiatra infantile Boris Levinson che già nel 1953 aveva messo in evidenza come il prendersi cura di un animale aiuta ad abbassare situazioni di ansia e di stress».
«Nel tempo i riscontri si sono susseguiti e oggi abbiamo a disposizione una gran mole di ricerche, di esperienze e di dati che ci permettono di formulare un quadro più articolato su queste attività e, di conseguenza, un approccio molto più orientato agli effettivi bisogni della persona. È infatti evidente che i bisogni di un ragazzo con problemi di riabilitazione motoria siano diversi da un bambino autistico, un adolescente con disturbi della condotta alimentare o un anziano affetto da Alzheimer».
«Le esperienze di questi ultimi quarant’anni ci consentono di operare con estrema specificità sulle effettive esigenze della persona malata, facendo altresì attenzione alle vulnerabilità altrettanto peculiari che la contraddistinguono».
- Come possiamo definire questo intervento e come possiamo inquadrarlo nel percorso sanitario?
«Volendo fare subito chiarezza al riguardo, occorre sottolineare che la pet therapy non è propriamente una terapia e soprattutto non si pone come intervento alternativo alle terapie tradizionali, quanto piuttosto come serie di interventi di facilitazione terapeutica, vale a dire attività sinergiche e sussidiarie capaci di rafforzare il buon esito degli interventi sanitari vigenti. Parliamo pertanto di co-terapia, in una visione dove ogni intervento assistito dagli animali si confronta sempre con le terapie in essere, con le figure sanitarie di riferimento di quell’individuo e, direi in modo più globale, con tutto il vissuto assistenziale e socio-sanitario che lo riguarda».
«Un intervento di pet therapy è sempre complementare e va strutturato in totale coerenza con tutto ciò che la persona sta ricevendo nel suo percorso di sostegno o riabilitazione. Questo, perché non avrebbe senso costruire un progetto di facilitazione terapeutica senza il pieno confronto e la partecipazione di chi si sta occupando della persona malata da un punto di vista sanitario. Anche gli obiettivi del progetto vengono concordati con il medico o lo psicologo che ha in cura il paziente, per cui non si deve mai pensare a queste attività come a interventi sostitutivi o avulsi dal percorso in essere».
- Ci descriva i benefici prodotti dalla relazione uomo/animale.
«Diciamo che il rapporto con gli animali ha un forte potere di coinvolgimento. Richiama l’attenzione, crea un clima di buonumore, abbassa il senso d’inadeguatezza, facilita le relazioni sociali, attiva condizioni di gioco e di partecipazione, ha un forte potere motivante, diminuisce le tensioni».
«Lo vediamo in modo particolare nei bambini, che sono letteralmente catturati dagli animali: non è un caso se i personaggi dei fumetti e i giocattoli hanno in genere forma animale. Ma anche gli anziani mostrano una predilezione per gli animali e direi, più in generale, che sono proprio le persone che vivono un momento di difficoltà quelle che trovano nella relazione con gli animali un maggior beneficio».
«Si tratta di un effetto di alleggerimento dal problema, qualcosa tuttavia in più della semplice distrazione, perché non si limita ad abbassare il peso del problema o di spostarne l’attenzione, bensì di creare nuove condizioni relazionali per il paziente e di attivare delle leve di motivazione che sono estremamente utili per incentivare gli interventi terapeutici in essere. Evidentemente il rapporto con gli animali tocca corde molto profonde dell’essere umano, le stesse che hanno consentito la domesticazione, e questo rinnovare sentimenti di base ha un riscontro immediato nella persona, soprattutto quando è necessario riaccendere la speranza».
- In che modo, allora, l’intervento (IAA) è tarato sul paziente?
«Come ho detto esiste un effetto di coinvolgimento o di beneficio generico che è di facile riscontro e che ha messo le basi di questa attività nei vent’anni dopo le ricerche di Levinson. Successivamente – possiamo dire a partire dagli anni ’90 – abbiamo cominciato ad affiancare contributi più mirati alle effettive necessità della persona malata. Se l’incontro con l’animale aveva l’effetto di favorire la relazionalità della persona e parimenti agiva come motivatore, diventava importante implementare delle attività che andassero a intervenire sui bisogni, offrendo contributi in linea con gli obiettivi prefissati. Nasceva così una pet therapy orientata al paziente, la quale ha visto il nostro Paese come capofila nella ricerca internazionale, ragione per cui possiamo vantare un gran numero di esperienze condotte su tutto il territorio nazionale».
- Quali sono le peculiarità più rilevanti di questo approccio alla malattia?
«La pet therapy orientata alla persona malata è molto più efficace nel suo ruolo di facilitazione perché, oltre ai benefici generici suindicati, si vanno ad assommare contributi specifici per aiutare il soggetto a raggiungere gli obiettivi di progetto. Per esempio, se si vuole migliorare l’autostima del paziente si fanno attività di collaborazione, come aiutare l’animale in un particolare compito, mentre se si vuole rafforzare il decentramento e la prosocialità si fanno attività di cura».
«Nella pet therapy orientata al paziente si vanno perciò a individuare un insieme di attività di relazione con l’animale molto specifiche e differenziate tra loro, quali ad esempio le attività di cura, le attività ludiche, le attività esplorative: ciascuna di queste è capace di dare specifiche plusvalenze co-terapeutiche alla persona malata ossia di aiutarla in modo preciso, indirizzandola nel percorso riabilitativo».
- Quali sono in pratica i vantaggi di questo approccio, quale la sua esperienza?
«Innanzitutto si definiscono degli obiettivi chiari e condivisi con la figura sanitaria di riferimento del paziente, cercando altresì di mettere in luce le fragilità specifiche della persona e parimenti le attività terapeutiche e di supporto vigenti. Una volta definiti gli obiettivi si procede alla fase prescrittiva andando a individuare quali attività inserire nel progetto perché utili per la persona e quali da evitare perché potrebbero accrescere il problema o mettere a repentaglio le sue fragilità».
«In tal modo si lavora proprio sulle risorse della persona rendendola pienamente protagonista del proprio percorso riabilitativo. Negli ultimi vent’anni abbiamo messo a punto progetti per persone anziane affette da malattia di Alzheimer in diverse province italiane e lavorato per tre anni all’OPG di Reggio Emilia con pazienti affetti da schizofrenia paranoide. Abbiamo inoltre realizzato molti progetti sulla riabilitazione motoria e sull’handicap sensoriale, così come sui disturbi cognitivi e sull’autismo. Abbiamo lavorato sui disturbi della condotta alimentare presso l’Ospedale San Raffaele Turro e realizzato alcuni progetti sul fine vita in diverse città, ottenendo ottimi risultati. La pet therapy orientata al paziente si è dimostrata un valido supporto non solo per migliorare le condizioni generali del malato, ma altresì per raggiungere gli obiettivi specifici della persona».
- In cosa consiste la formazione degli animali impegnati a fianco della persona malata?
«Alcune precisazioni sono d’obbligo. I progetti vedono coinvolti solo animali domestici, educati fin dall’età evolutiva a stare in mezzo alle persone e a gradire l’interazione con estranei, addestrati a fare attività specifiche e quindi formati per quei particolari compiti, monitorati in modo accurato da un punto di vista medico veterinario».
«Inoltre l’animale non opera da solo, ma sempre in coppia con il suo partner, dove è la coppia ad essere certificata anche sulla base del livello d’intesa raggiunto. Inoltre ogni progetto vede la presenza, oltre che delle coppie coinvolte e delle figure sanitarie referenti, di un team di progetto composto da un medico veterinario, uno psicologo, un educatore professionale e un etologo, ciò al fine di pianificare tutte le fasi del percorso nonché le modalità di testaggio utili per verificare l’andamento riabilitativo. La formazione degli operatori sia della fase progettuale che di quella operativa segue la direttiva di apposite Linee guida. Possiamo dire pertanto che queste attività hanno finalmente trovato una formalizzazione istituzionale capace di offrire tutte quelle garanzie che la delicatezza del compito richiede».
- Per concludere, come possiamo vedere queste attività?
«A mio parere si tratta di attività che rimettono al centro la persona e il suo bisogno di vivere in modo attivo e da protagonista la relazione con il Mondo. Gli animali giocano il ruolo di motivatori, abbassando quel senso di emarginazione, di paura del giudizio, di stress da competizione e infine di logica di omologazione che purtroppo la società di oggi rischia di porre come limite insuperabile soprattutto nei momenti di difficoltà della persona. Queste attività puntano sulla partecipazione piena del soggetto, su quella coordinata della vita attiva, per riprendere Hannah Arendt, che è indispensabile per dare speranza e soddisfazione all’individuo».
«La relazione e il principio della cura, quell’amore che è prima di tutto far dono di sé e accogliere l’altro, rappresentano i fondamentali esistenziali dell’essere umano e la relazione con la natura rappresenta la migliore palestra per poter ritrovare una presenza partecipativa all’interno della cosmopolis umana. Non si tratta pertanto di rinchiudere la persona nell’esclusiva relazione con gli animali, quasi fossero dei surrogati di un umano che manca, ma di fortificare le doti relazionali della persona proprio per accrescerne disponibilità e competenze all’incontro agapico con il prossimo».
Nel ringraziare il professor Marchesini per questo tempo prezioso e ricco di suggestioni, torna in mente Kant: “puoi conoscere il cuore di un uomo già dal modo in cui egli tratta gli animali“.
Chiara Francesca Caraffa
www.marchesinietologia.it/2021/05/12/le-radici-del-desiderio/