
Sulle soglie del simbolico tra Ordini e memoria
Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in Attualità, Araldica, Cavalieri, Nobili e Templari.
a cura Agostino Agamben
Tra cerimonie di investitura, miti locali e riti condivisi, un’esplorazione riflessiva nei luoghi e nei gesti in cui il passato si fa presenza viva e il simbolico resiste come forma di esistenza. Un attraversamento lento tra Santa Maria in Bressanoro, Seborga e il lago Gerundo, dove la storia non è solo eredità ma compito da abitare.
Tutto è iniziato una domenica mattina di giugno di tre anni fa. Mi trovavo al Santuario di Santa Maria in Bressanoro a Castelleone, una delle mie mete predilette, proprio mentre l’ordine dei Cavalieri Bianchi di Seborga stava per effettuare una cerimonia di investitura. Vedere, nel XXI secolo, persone abbigliate secondo la consuetudine Templare e vedere un rito tanto suggestivo a pochi chilometri da casa, mi ha improvvisamente ispirato su quella che sarebbe stata la trama della storia.
Sul limitare del santuario le pietre parlano del passaggio del tempo. Le ombre degli alberi offrono ristoro, la luce del mattino s’insinua tra le foglie come un segreto. Cammino oltre il fregio, oltre la soglia antica, intento a cogliere la tensione sospesa tra semplice cerimonia religiosa e qualcosa che tocca la dimensione del simbolico, dell’arcaico invocato nel moderno. È lì che avviene l’“investitura”: non solo un atto di riconoscimento di un ordine terreno, ma un rituale che reclama la memoria, che solleva un ponte verso un altrove che pare dimenticato, ma non estinto.
Quando chiesi cosa significasse essere Cavaliere Bianco oggi, uno dei membri, con la voce calma, disse che l’Ordine era “memoria attiva”. Non memoria passiva, custodita come reliquia, ma atto vivente che si continua. In quell’istante compresi che il gesto del rituale svolge un’azione doppia: da una parte consegna al passato, dall’altra inaugura, nella piega del presente, una possibilità. Fare presente ciò che si crede perduto. E l’Ordine, nella sua forma esteriore – tuniche bianche, croce, passo misurato –, è puro dispositivo dell’aperto, dell’aprire: si proietta nello spazio sociale ospitando domande che il quotidiano tace.
Non sono qui disposto a raccontare soltanto le apparenze, ma a esplorare quel che si cela nel dietro, nel reticolo delle intenzioni e delle possibilità. Le persone che incontrai: Marco, Cinzia, Gianfranco. I loro nomi non sono simboli, sono presenze attraverso cui il simbolico ritorna a farsi carne. Mi portarono nel loro mondo: fino alla sede ufficiale dell’Ordine a Bergamo, dove le stanze non erano musei ma luoghi in cui il presente dialoga con i segni del passato. Ogni oggetto, ogni stendardo, ogni scarpa consunta nei rituali raccontava frammenti di storie che non erano soltanto loro, ma di comunità che cercano riconoscimento, appartenenza, orizzonte.
In quella sede venni accolta non solo come intervistatrice, ma come presenza che poteva partecipare. La loro accoglienza – la cena conviviale che seguì la visita – non fu cortesia formale, ma gesto rituale anch’esso, rito di comunità. Quel cibo condiviso, quelle parole scambiate, illuminavano la distanza tra il gesto esteriore e l’esperienza interiore, tra ciò che appare e ciò che pulsa sotto. Era lì che comprendevo come ogni ordine cavalleresco, anche se recente, abbia bisogno di tessere una continuità, di ritualizzare l’esistente per evocare ciò che non c’è più – o che ancora deve venire.
Poi scoprii l’esistenza di un altro Ordine, cremasco: l’Ordine di Tarantasio e lago Gerundo. Mario, il presidente, fu fonte preziosissima. La provincia – ebbe a dirmi – è fatta di memorie sommerse: fiumi, laghi, nomi, storie che l’acqua inghiottì, il tempo occultò. Lago Gerundo, Tarantasio come regno immaginato, come mito che si dissolve nelle paludi ma pure come segno che torna quando meno te lo aspetti. Lo vidi non come ornamento folkloristico, ma come contrappunto: la provincia che rinasce per sottrazione, per sottrazione dal silenzio, per riaffermazione del simbolico come possibilità residua.
Fu al Museo di Crema che la narrazione cominciò a farsi visibile: le piroghe, i reperti archeologici, gli oggetti quotidiani di persone che avevano abitato queste terre, le mani sapienti che li avevano plasmati. Le mie fotografie furono tentativi di fissare, non per conservare, ma per sollecitare una presenza. Ogni immagine una ferita nel tempo, ogni ombra un residuo che non vuole essere sepolto.
La storia, così, stava prendendo forma, ma io ero ancora all’inizio e non sapevo dove mi avrebbero condotto i personaggi a cui avevo dato vita. Qualcuno dice che un romanzo va pianificato dall’inizio alla fine ma io non ne sono capace. Ho un’idea di massima certo, poi mi lascio trasportare verso più possibilità. A scuola con le colleghe o a casa con i miei familiari, iniziavo a narrare le vicende. Parlavo di quei Cavalieri, dell’Ordine del Tarantasio; di come nella luce del mattino a Bressanoro si serrano forme antiche che chiedono di essere vissute. E ogni volta che narravo, vedevo sorgere domande – perché lo fate, cosa cercate, che senso ha in realtà – e queste domande mi riportavano alla soglia della storia, al punto in cui si mescola con la poesia, con il mito, con il desiderio.
Non c’è distinzione netta fra vita privata e pubblica, fra ciò che è “creatura” e ciò che è “istituzione”: l’Ordine cavalleresco contemporaneo appare infatti quel soggetto liminare che sta fra memoria e istituzione, fra simbolico e sociale, fra ciò che è rituale e ciò che è potere. Non ho mai percepito il loro impegno come nostalgia sterile, ma come attesa, come ricerca. E in questa ricerca mi si compone un paesaggio fatto di attese, di tensioni: l’attesa verso l’orizzonte di una forma politica dell’esistenza che non sia oppressiva, l’impegno verso un ideale che non si riduca a mera decorazione del presente.
Così accade che la cerimonia di investitura non sia solo gesto ornamentale ma gesto performativo: produce una soglia. La soglia che separa il mondano dal sacro, il profano dal sacro, ma anche la soglia che delimita lo spazio nel quale la soggettività si ridesta. Quel momento in cui, indossata la tunica, accolta nel cerchio dei fratelli, il Cavaliere sente il peso e al contempo la leggerezza di qualcosa che è più grande di lui: non necessariamente un’entità trascendente secondo i modelli tradizionali, ma una presenza che risuona nel silenzio del quotidiano.
Nel corso dei mesi successivi presi nota di ogni parola, ogni silenzio: le confessioni degli iniziati, le lacrime lievi, la gioia che rompe piano la riservatezza. Comprendevo che l’investitura è rito di passaggio non soltanto sociale ma ontologico: trasforma chi la vive, non perché neghi la propria esistenza precedente ma perché la include, la trasfigura. E chi viene investito non si porta più solo sé ma un nome, un dettato simbolico, un compito.
L’Ordine di Tarantasio ebbe modo di parlarmi delle proprie radici: del lago scomparso, delle paludi, dei fiumi deviati; della terra che — tra acque e terre — mutava contorni. Il mito del lago è mito della perdita e del ritorno. È memoria di ciò che è stato e promessa di ciò che può essere ritrovato. Le storie che sentivo — dei mitici abitanti, delle lotte per la sopravvivenza nelle zone umide, delle comunità che coabitavano fra le isole fluttuanti del lago — erano materiali di un linguaggio sospeso. Questo linguaggio sospeso mi dava vertigine: come se ogni parola dettasse uno spazio che ancora non si è compiuto.
Chi prende parte agli Ordini — non solo come cavalieri ma come custodi, come ascoltatori — mi appariva come chi risponde all’oblio. L’oblio non solo dei corpi, delle pietre, dei nomi, ma dell’esperienza del simbolico nel presente. Delle immagini, dei miti che ci costruiscono, dei riti che ci costituiscono. E questi Ordini operano a margine, fra visibile e invisibile: segni nella vita quotidiana che chiedono di essere riconosciuti.
Ecco: la storia che stavo tessendo aveva bisogno di questo margine. Un margine che non fosse esclusione ma frontiera. In quel territorio intermedio ho collocato i protagonisti: non eroi nel senso tradizionale, ma figure che vivono sospese, che camminano fra i segni; persone che, investite da un nome – cavaliere, custode, presidente –, intrecciano la personale esistenza con la trama collettiva. Non personaggi consapevoli fino in fondo, ma in cammino, con dubbi, incertezze, speranze.
C’è Marco, che porta con sé un’antica genealogia familiare – non necessariamente nobile di sangue, ma ricca di storie locali –, e che nel momento dell’investitura sente sulla pelle la continuità di ciò che precede e la responsabilità che segue. C’è Cinzia, che guarda al rito come occasione di trasformazione interiore, come possibilità di dialogare con le radici, con le immagini arcaiche, ma anche con il desiderio contemporaneo di senso. C’è Gianfranco che si sofferma sul gesto, sull’oggetto – la spada, la croce, il mantello – come mediatori, come strumenti che stordiscono la distanza tra l’umano e il trascendente, fra ciò che si tocca e ciò che si immagina.
E c’è Mario dell’Ordine di Tarantasio con la sua dedizione al mito, alla memoria perduta, ma non come rimpianto, bensì come sfida. Mario non tace le contraddizioni: l’idea che il lago potesse tornare è certamente fantasiosa, eppure egli la crede necessaria. Crede che il mito perda la sua potenza solo quando diventa ornamentale, solo quando si riduce a nostalgica testimonianza. Per lui il mito è gesto politico – nel senso più radicale che parola politica può assumere – perché mette in questione la percezione del tempo, la distinzione fra ciò che è ormai “storia accaduta” e ciò che, pur accaduto, continua ad abitare.
Nei loro discorsi affiorava spesso la tensione verso un principio di forma che non fosse fissità, ma fluire creativo. Non un ordine rigido, ma un ordire di relazioni – fra passato e presente, fra individuo e comunità, fra locale e universale. E la storia che stavo componendo, pur silenziosa, conteneva dentro di sé una domanda: che cosa significa custodire oggi un simbolo? Non come oggetto da collezione, ma come segno vivo. Come luogo di esperire se stessi in relazione con una temporalità che eccede l’immediato.
Spesso ci siamo ritrovati a discutere mentre il sole declinava: che senso ha portare avanti riti che hanno radici remote? Quale peso, quale necessità nel nostro tempo instabile? Le risposte non erano univoche. Per qualcuno, il rito è ancora spazio di comunità: dove il legame sociale si rinnova. Per altri, è atto metaforico: assumere simboli, nomi, ricordi per ritrovare un asse nel disordine contemporaneo. Qualcuno ha detto che ogni investitura è promessa – promessa verso sé e verso gli altri – che chiede perseveranza. E che, come ogni promessa, espone alla possibilità del tradimento.
Camminando lungo le stradine che conducono al museo o al santuario, osservavo come la città, la campagna, l’architettura evocano secoli. Le pietre delle chiese, le corti delle cascine, il colore del cielo dopo un temporale – tutto recava traccia del tempo, dell’umano che ha abbandonato e dell’umano che resta. In certi momenti, pensando al lago Gerundo, mi pareva che la terra stessa respirasse una memoria invisibile, che la corda tesa fra terra e acqua fosse ancora viva, che le sue risonanze fossero percepibili da chi sa ascoltare.
La soglia del racconto non è più quella domenica, ma qualcosa che continua – un’appartenenza che si conquista giorno dopo giorno. Le persone che ho incontrato continuano a vivere questo spazio soglia come pratica. Non rincorrono il richiamo del passato in modo consolatorio, ma lo restituiscono come domanda che pulsa, come puntello che sostiene un edificio non ancora edificato. Una comunità che non si fonda sull’identità chiusa, ma sull’apertura: sull’idea che si possa abitare il simbolico non come eredità, ma come compito.
Ecco allora che le vicende intrecciate degli Ordini mi dicono qualcosa sull’età contemporanea: che essa non dissolve tutto; che le forme antiche possono rinascere non come panneggio scenico ma come luogo di esperienza; che il sacro, il simbolico, il rito non sono residui da archiviare ma vie che persistono, latenti, anche nell’irruzione dell’utile, del tecnologico, del veloce.
In questo paesaggio lento, che è memoria e decisione, mi chiedo spesso se non stiamo sperimentando un’hybris inversa: non l’arroganza di distruggere, ma l’orgoglio di credere che tutto debba rimanere. Credo invece che gli Ordini – quelli che ho incontrato – ci insegnino piuttosto a riconoscere la fragilità, il limite, l’ombra. A saper stare nel crinale tra la speranza e la precarietà, tra ciò che è visibile e ciò che rimane sotto la superficie del visibile.
Non sono venuta a cercare risposte definitive, né ho paura dell’incertezza. È in essa che qualcosa si muove: il desiderio della storia, della forma, della comunità. E mentre narravo ai miei familiari delle spade, dei mantelli, dei nomi, del lago scomparso, vedevo non la fine, ma crearsi un intreccio: di geografie, di memorie, di futuri possibili.
Tutto ciò che si dispiega – negli Ordini, nel culto del simbolico, nel mito lavorato dalle persone comuni – vive in quella soglia continuamente oscillante fra ciò che è stato e ciò che può essere. Un luogo dove non si è né completamente padroni del passato né vittime del presente, ma attori fragili di un processo che chiede responsabilità, partecipazione, vigilanza.
E quando torno al santuario di Bressanoro, o al Museo di Crema, o passeggio lungo il greto dove una volta scorreva il Gerundo, è come trovare minuscole scintille: negli occhi di Marco, nelle mani di Cinzia, nella voce di Mario, nei gesti della comunità. Scintille che dicono: non tutto è perduto. E che il simbolico non è un lusso ma una necessità.
Così continua il racconto, così continua la scoperta. Le pagine non sono sospese in un passato sacro, ma vibrano in questo presente che chiede cura. E forse il compito – per chi scrive, per chi partecipa, per chi ascolta – è questo: non chiudere il discorso, non mettere la parola fine, ma restare in ascolto. Restare in quella soglia, tra il silenzio e la parola, tra l’assenza e la presenza, tra ciò che è stato e ciò che, ancora, può sorgere