Skip to main content

Storia famiglia Petricca Giordani

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

numquam retrorsum

Monte Giordano non è solo un luogo, non è solo un nome che risuona nelle carte dell’Archivio Capitolino, ma è ciò che resta di un orizzonte perduto, un frammento di paesaggio e genealogia nel quale si compone una memoria che non ha mai saputo arretrare. L’elemento topografico — la collinetta che fronteggia Castel Sant’Angelo sull’altra sponda del Tevere — diventa così soglia: soglia tra Roma e non-Roma, tra la pura città imperiale e il suo declinare, tra il sacro e il profano, tra la storia pubblica e l’anonimato dei popoli barbari che la invadono. Qui, in questo spazio liminare, nasce la famiglia Petricca Giordani, vecchia stirpe patrizia della Gens Cornelia, la cui origine viene sancita da delibera S.P.Q.R., e risulta attestata negli archivi capitolini.

Quando i barbari, o meglio le forze che trascendono i limiti istituiti della città romana, avanzano — e non come invasori soltanto, ma come presenze del tempo che disarticolano — la famiglia fugge verso il Sud. Roma, sotto le orde vandaliche di Genserico nel 455, non è soltanto città fisica che soggiace; è simbolo di un ordine che sembra spezzarsi, di un «Roma intera» che perde i suoi cittadini: patrizi e plebei divenuti schiavi, trasferiti in Africa come destino comune dell’urbe che si svuota. Ed è allora che la famiglia — che già portava in sé l’orma della nobiltà — sceglie l’esilio interno, la migrazione verso una geografia che permette di conservare non soltanto la vita, ma la memoria, il proprio nome, il diritto, l’onore.

Esponenti della Famiglia nei secoli

Guglielmo, nel 1164, appare come ambasciatore dell’imperatore Federico Barbarossa: figura che non solo media tra potere e potere, ma si situa in quel campo delle negoziazioni politiche che definiscono i confini della sovranità. È ambasciatore nella misura in cui rappresenta un antico lignaggio, ma anche un presente compromesso: non siamo più a Roma, non siamo più nel pieno dell’unità imperiale, ma nell’età dei principati, dei feudi, della dilatazione e contrazione del potere.

Bonifacio, nel 1226, conte presso Federico II di Svevia: qui l’archetipo del conte è ripreso come figura ibrida, al confine tra servizio militare, amministrazione, legame dinastico, mero dispositivo politico. Essere conte significa esercitare potere, ma anche essere vincolati a poteri superiori — l’imperatore, la curia, il feudatario — di cui non si è proprio l’origine, ma la continuazione.

Mario, conte nel 1257, cugino e Gran Connestabile di Manfredi, partecipe nella battaglia di Benevento: la guerra come luogo del destino. Non solo come lotta di eserciti, ma come arena di identità. Nel momento in cui gli eserciti si scontrano, la famiglia emerge nelle sue facce più radicali: non più solo proprietaria o amministrativa, ma protagonista del conflitto, della caduta, della sconfitta che misura la grandezza.

Giovanni, nobile delle Sessanta Some presso Carlo II d’Angiò nel 1285: la presenza nelle istituzioni del regno angioino porta con sé il senso del privilegio, del rango, ma anche della subordinazione. L’essere “nobile delle Sessanta Some” non è solo titolo, è partecipazione a un ordine di cose che immagina la nobiltà come mediazione tra il potere politico ed ecclesiastico, tra il regio e il locale, tra il lecito e l’usurpazione.

Guido, principe e senatore di Roma nel 1406 presso Papa Innocenzo VII: un ritorno ideale, forse illusorio, ai fasti dell’antica Roma patrizia. Il senatore è figura antica nella città; il principe patrizio lo rimanda ai tempi in cui la città era centro del mondo, asse e altezza. Ma questo ritorno non può essere altro che simbolico: Roma è ormai piegata, divisa, frammentata. Eppure la famiglia si ripropone nel cuore delle sue istituzioni, patetica, terrena, eterna.

Paolo, marchese credenziere dei Sali degli Aragonesi nel 1495: con la corona aragonese la famiglia si fa serva e protetta, parte viva in una corte che non è più universale, ma regionale, mediterranea. Il titolo di “credenziere dei Sali” indica non solo uno status di servizio, ma una mediazione tra la sfera pubblica e quella privata, tra la regalità straniera e l’aristocrazia locale.

Tre fratelli, Tullio, Giorgio, Nicola, nella battaglia di Pavia (1525): essi si ergono non come semplici avversari in un conflitto geopolitico, ma come testimoni di un’epoca in cui l’idea di nobiltà nasce nella guerra, nella fedeltà all’imperatore, nella perdita e nella speranza. Carlo V li nomina conti del Sacro Romano Impero il 26 settembre 1537: l’impero concede e con ciò rinnova un antico patto, un patrimonio di sangue, memoria, presenza. Le parole “amati … Nostri Familiari, Militi Cavalieri Dorati” non suonano come ornamenti, ma come testimonianza che il titolo, l’onore, la storia sono intrecciati: il cavaliere dorato è chi è investito di luce – non luce schiacciante, non lampo che acceca, ma bagliore che rivela – con il suo stemma, la sua esenzione, la sua gravità.

Antonio (1609), giurista che reintegrò la famiglia nel Patriziato Romano: reintegrare non significa tornare da dove si era partiti; significa riprendere un legame smarrito, ristabilire una presenza nell’ordine civico di Roma. Questo atto di reintegrazione è gesto di memoria, ma anche gesto di potenza: la famiglia non chiede solo di essere riconosciuta, ma di appartenere, di partecipare, di contribuire alla trama della patres romanae.

Domenico (1758), patriarca, arcivescovo, vicegerente di Roma, assistente al Soglio Pontificio, conte conferito da Papa Clemente XIII con potere di nomina nella “Aurata Militia”: qui si avverte la sintesi fra il sacro e il mondano, fra la gerarchia ecclesiastica e la prerogativa cavalleresca, fra il potere spirituale e quello effettivo. È la famiglia che si addentra nella liturgia del potere, nella curva della storia che coniuga il Papa, il titolo, la virtù, la memoria dei privilegi. Ed è nella morte, nel monumentale del Verano, che il ricordo si imbrica con la pietra, con l’architettura della morte, con la sepoltura che è anch’essa dichiarazione di un’esistenza.

GianTommaso (1772), poeta e patriota: qui la trasformazione è radicale. Non più conte, non più ambasciatore, non più cavaliere, ma uomo che vive nel pensiero e nella parola. La patria, la poesia — non la guerra o l’impero — diventano terreno di enunciazione dell’appartenenza. È in lui che la famiglia mette in gioco il sé come parola, come partecipazione civile, come rischio.

Francesco, chimico, Presidente del C.N.R. (1956‑1960), Presidente dell’Accademia dei Lincei, uno dei “Tre Saggi d’Europa” promotori dell’EURATOM: la dimensione scientifica, tecnica, culturale — che sembrerebbe estranea alla trama della nobiltà — si coniuga invece con essa: la nobiltà come sapere, come ricerca, come apertura verso l’elemento universalistico europeo, verso l’idea che la grandezza non risiede soltanto nei titoli, ma nella capacità di far agente ciò che sembra puro retaggio.

Michele (1910), avvocato insigne giurista a Roma: la professione forense, il foro, la legge diventano per la famiglia dimensioni ordinarie del potere, spesso più decisive dei ranghi ufficiali. È il penetrare delle ragioni, dei decreti, delle cause, nei tessuti della modernità.

Mario Cavaliere di Vittorio Veneto, presenziò all’apertura di via dei Giordani in Roma (1929): lo spazio urbano diviene simbolo della memoria collettiva. La scelta di denominare via dei Giordani richiama l’antico Monte Giordano, rimette la famiglia nella mappa della città, non solo nella sua storia, ma nel suo topografico presente.

Mario Augusto, scrittore, Gran Maestro dell’Ordine della Concordia: la parola scritta come atto di testimonianza, l’ordine cavalleresco come rito della riconoscenza. Qui si chiude idealmente il cerchio: la memoria dei principi, dei titoli, degli atti, delle appartenenze si trasforma in lettera, in parola, in gesto etico.

numquam retrorsum

Non è facile seguire la genealogia di una famiglia ‒ non la successione di nomi, non la serie cronologica ‒ ma l’oscillazione che essa comporta fra permanenza e oblìo, fra visibilità e assenza, fra silenzio e proclamazione. Monte Giordano è luogo, è memoria, è promessa: e la famiglia Petricca Giordani, attraverso le sue gesta, i suoi esili, i suoi ritorni, testimonia che nessuna genealogia è semplice. Vi è sempre nella sua storia una forza che respinge ogni ritiro: numquam retrorsum — mai indietro.

Questa forza si manifesta nel desiderio di reintegrarsi — come Antonio nel 1609 — nella comunità politica di Roma, nella ricerca di possedere non solamente titoli, ma produrre valore, partecipazione, presenza. Non è vanità, ma necessità di non oblìo. Ed è questa stessa forza che spinge Domenico a farsi non solo prelato, ma figura centrale del potere ecclesiastico; che conduce GianTommaso a plasmare versi, a immaginare patria; che spinge Francesco nel cuore della ricerca scientifica che travalica confini nazionali; che vede Michele nel foro, nel diritto, come custode di una consapevolezza che è insieme individuale e collettiva.

In tutto questo scorrere di secoli, la famiglia si piega, si adatta, scompare in parte, riappare; si confronta con imperatori stranieri, papi, regimi aristocratici, modelli culturali diversi; ma ciò che mai perde è la consapevolezza, implicita o esplicita, di una continuità, di un’origine che non si può sopprimere del tutto. L’ Archivio Capitolino, l’Archivio Segreto Vaticano, la Regia Camera Imperiale, gli atti dei papi, dei regni, delle corti, sono come rispecchi che riflettono denominazioni, titoli, privilegi, ma anche assenze, lacune, rovine mai cancellate.

La memoria che percorre la famiglia non è semplice nostalgia. Non è il tentativo di restituire agli antenati ciò che è perduto. È piuttosto un esercizio di presenza: la parola, il titolo, il diritto come forma attraverso cui non solo si ricorda, ma si agisce, si prende posizione. Patrizio romano, duca, conte palatino, nobile del sedile chiuso, nobile delle Sessanta Some, barone delle Baglive — tutti titoli che differiscono per grado, funzione, prestigio storico, rispondono a epoche che mutano, a ordinamenti che si disfanno, a guerre che ridefiniscono i confini; eppure ogni titolo reca con sé un’eredità che insiste, che reclama.

Titoli

Principe patrizio romano: essere principe non solo per lignaggio ma per funzione simbolica, per permanenza nella memoria di Roma. Il duca, nonostante il numero — nonostante il non conosciuto specifico ducale territoriale — è titolo che richiama dignità, autorità, presenza pubblica. Il conte Palatino del Sacro Romano Impero, il conte Pontificio, il nobile del Sedile Chiuso — questi titoli non oscillano nel vuoto: sono iscritti in una trama di leggi, privilegi, appartenenze civiche. Il nobile delle Sessanta Some, il barone delle Baglive — anche questi, più locali, apparentemente secondari, ma racchiudono il corpo della famiglia nell’intreccio delle comunità, delle corti, dei regni; e insieme ricordano che la nobiltà non è soltanto grandezza formale, ma vicinanza al potere che abita nelle articolazioni spesso invisibili della storia.

Non si tratta solo di contare gli anni, raccogliere le fonti. È nel linguaggio dei privilegi, nelle delibere, nelle esenzioni, negli stemmi, nei vessilli, nei passaggi di mani — tutto ciò che configura una presenza che non si riduce a documento, ma è carne della storia.

L’antico patriziato romano, la Gens Cornelia, Monte Giordano, la figura del patrizio si caricano di un valore che non è mero ornamento: essi sono abitatori di un palinsesto, di una sequenza di conflitti, di alleanze, di perdite. Essi testimoniano che la nobiltà si estende oltre la genealogia biologica, oltre la fissità del sangue: è relazione, è decisione, è momento.

E così la famiglia Petricca Giordani, anche quando sembra remota, anche quando il potere che poteva esercitare si restringe alla giurisdizione spirituale o locale, continua a camminare: non s’inabissa nella polvere delle carte morte; non rinuncia al nome; non consente che “privilegi” restino solo parola scritta. Non cede all’oblio, al silenzio.

Nel ritrarsi con i barbari, nel fuggire per salvare il corpo e lo spirito della famiglia, c’è già una resistenza. Non è una fuga vergognosa, ma un gesto che afferma: ciò che abbiamo è tale che, anche esiliati, anche lontani, non possiamo rinunziare a chi siamo.

E poi la guerra: Benevento, Pavia, le lotte fra imperatori, fra papi, fra regni. Ogni volta l’evento bellico non appare come mero episodio, ma come punto nodale in cui la memoria, il sangue, il diritto, la presenza vengono messi alla prova; come se la famiglia fosse una corda tesa fra ciò che fu e ciò che sarà, soggetta al vento delle crisi, ma che non perde la tensione.

La reintegrazione nel patriziato romano, nel 1609, appare non come un semplice atto giuridico, ma come la riattivazione di un legame. Roma, città che fu universale, che fu centro del mondo, è quel punto di riferimento che attrae, anche quando il corso della storia ne ha mutato i confini, le forme, le creature che in essa respirano.

Nel prendere titolo, nel ricevere il favore dell’imperatore Carlo V, del Papa, nel partecipare al Sacro Romano Impero, nel detenere baronie e cavalierati, nell’abitare sedi accademiche, forum scientifici, nel resistere al tempo, la famiglia non fa spettacolo, non mira a effetto; piuttosto tenta un altro ordine, un ordine della testimonianza.

Ecco che allora la storia di Petricca Giordani non può essere letta come semplice ascendente di grandi nomi, come catalogo di titoli. È piuttosto la storia di una genealogia che continuamente si definisce nei margini, che vive di ritorni e partenze, di adattamenti, di riconoscimenti perduti e riconquistati. È la storia di quel numquam retrorsum ‒ mai indietro ‒ che non è promessa, ma esigenza: esigenza morale, politica, metafisica.

Nelle epoche moderne, quando il concetto di nobiltà perde parte della sua valenza giuridica, quando la democrazia, la cittadinanza, lo Stato-nazione reclamano la centralità, la famiglia non si smarrisce: si trasforma. Francesco che contribuisce all’Euratom, Giovanni che scrive, Michele che esercita la legge, Mario Augusto che ordina, che ricorda: questi non sono arbitrari, sono figure che portano avanti la trama.

In questa panoramica, la memoria, la continuità, il rito del titolo sono ciò che rende presente ciò che altrimenti sarebbe dissolto nella polvere delle epoche — invasioni, guerre, mutamenti giuridici, cadute di imperi, rivoluzioni. Ogni invasione barbarica, ogni perdita di privilegi, ogni spoliazione politica è contrappuntata da un ritorno: un titolo riconosciuto, una nomina, un’epigrafe, una iscrizione in un albo, una via intitolata.

Perché la storia della famiglia non è ciò che domina; è ciò che resiste. Resiste agli anni, alle riforme, ai cambiamenti del diritto, alle guerre. E resiste nel non perdere se stessa. Tutte le carte d’archivio, tutti i privilegi registrati, tutti i titoli conferiti — non sono reliquie: sono contrappesi del tempo.

E mentre si attraversano i secoli, la famiglia non si ritorce su se stessa. Non si limita a custodire il passato come museo privato. Essa lo rende vivo: nella parola, nella scrittura, nel titolo, nella partecipazione pubblica, nell’arte, nella scienza, nella politica, nell’avvocatura. La memoria non è consumo già compiuto. È atto che chiede respirazione.

Numquam retrorsum: non come orgoglio, ma come legge esistenziale. Non come vanesia arroganza dei titoli, ma come tensione continua all’essere, al diritto, al nome. E nel nome Petricca Giordani c’è tutto questo: Monte Giordano; l’antico patriziato; l’Archivio Capitolino; le invasioni; le fughe; le ambascerie; la poesia; la scienza; la legge; lo spazio urbano.

La storia che si muove non ha inizio e non ha fine. Non c’è necessità di introdurre o concludere: perché ogni istante della storia è già esito e inizio insieme. E in Petricca Giordani si vede questo movimento senza posa, questa tensione che non si spezza, questa promessa che non si abbandona.

 

Le antiche originim
Antica famiglia patrizia della Gens Cornelia, come da delibera S.P.Q.R. che, come dall’Archivio Storico Capitolino, trae il suo nome da Monte Giordano in Roma.
Monte Giordano era una collinetta situata di fronte a Castel S. Angelo sull’altra sponda del Tevere, descritto anche da Dante nell’Inferno(1).
A causa delle invasioni barbariche, la famiglia riparò nel Sud dell’Italia, evitando così la sorte di molti altri cittadini romani tradotti in schiavitù in Africa dai Vandali (2) di Genserico (455 d.C.).

Esponenti della Famiglia nei secoli
E nel Sud ritroviamo esponenti della famiglia al seguito degli Hohenstaufen come Guglielmo (1164) che fu ambasciatore dell’Imperatore Federico Barbarossa; Bonifacio (1226) conte presso l’imperatore Federico II di Svevia; Mario (1257) conte, cugino e Gran Connestabile (3) di re Manfredi di Svevia, con il quale combatté la battaglia di Benevento; Giovanni (1285) nobile delle Sessanta Some presso Carlo II d’Angiò; Guido (1406) principe, senatore di Roma presso Papa Innocenzo VII (Archivio di Stato Roma, credens IV tomo 130); Paolo (1495) marchese Credenziere dei Sali (4) degli Aragonesi.
Tre fratelli Tullio, Giorgio e Nicola parteciparono alla battaglia di Pavia (1525) al seguito dell’imperatore Carlo V d’Asburgo, che nominò ognuno conte del Sacro Romano Impero“…amati Tullio,Giorgio e Nicola Nostri Familiari, Militi Cavalieri Dorati(5)…” dato in Valladolid 26 settembre 1537 Regia Camera Imperiale della Summaria et Estera. Antonio (1609) giurista che reintegrò la famiglia nel Patriziato Romano (Archivio Capitolino-Fondo Storico, Registro dei Privilegi dei Cittadini e dei Patrizi Romani). Domenico (1758) Patriarca, Arcivescovo, Vicegerente (6) di Roma, Assistente al Soglio Pontificio, cui fu conferito il titolo di conte con potere di nomina nella “Aurata Militia” da Papa Clemente XIII (Archivio Segreto Vaticano – Secretaria Brevium Registra Brevium,-n.3455) riposa in Roma nel Monumentale del Verano. GianTommaso (1772) poeta e patriota; Francesco (chimico) Presidente del C.N.R. (1956-1960), Presidente dell’Accademia dei Lincei, uno dei “Tre Saggi d’Europa” promotori dell’EURATOM; Michele (1910) avvocato in Roma insigne giurista; Mario Cavaliere di Vittorio Veneto presenziò all’apertura di via dei Giordani in Roma sulla via Salaria presso le Catacombe dei Giordani (8 Luglio 1929); Mario Augusto scrittore, Gran Maestro dell’Ordine della Concordia

Note
1. Dante descrive nell’Inferno al canto XVIII “30-33” come i pellegrini passassero davanti a Castel S. Angelo per andare a San Pietro da una sponda del Tevere e nell’altra sponda tornassero verso monte Giordano.
2. Roma dopo aver subito altre invasioni dai barbari del nord, la più devastante fu quella dei vandali che con il loro re Genserico tradussero in schiavitù tutta la popolazione, patrizi e plebei e la trasferirono in Africa.
3. Comes Stabuli era l’antico conte delle stalle reali che successivamente divenne il Comandante Generale degli eserciti medievali.
4. Nel Medioevo membro del Consiglio di Credenza.
5. Cavalieri Dorati (Militia Aurata Imperiale), nomina imperiale con privilegi per il nominato ed i suoi successori all’infinito, che esentava dalle tasse, permetteva di innalzare vessillo (stemma) e altre prerogative valide nell’Impero.
6. Fu nominato Vicegerente del Cardinale Vicario Antonio Maria Erba Odescalchi (24 settembre 1759).

Titoli
principe patrizio romano, 9°duca, S.A.S. conte Palatino del Sacro Romano Impero, conte Pontificio, nobile del Sedile Chiuso, nobile delle Sessanta Some, barone delle Baglive.

Bibliografia.
Filadelfo Mugnos, Teatro della nobiltà del Mondo, Napoli, Novello De Bonis 1680.vol. I e II
. Oscar Pio, Storia Universale, Roma, Edoardo Perino 1891
. Gustav Friefrich Hertzberg, Storia dell’Impero Romano, Milano, L. Vallardi 1895
. Ferdinand Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo, Città di Castello Unione Arti Grafiche 1943 vol. IV e XI
. Archivio Capitolino, Fondo Storico, registro privilegi dei cittadini e dei patrizi romani.
. Archivio Segreto Vaticano, Secretaria Brevium,Registra Brevium, n.3455 f. 16r- S.C.V.
. Archivio di Stato di Napoli, Commissione dei titoli di nobiltà.
. Archivio della Regia Camera Imperiale della Summaria et Estera vol. 136, fol. 64-65, 26 set. 1537, Valladolid, Spagna.
. Nicola Quitadamo, Un patriota e letterato pugliese GianTommaso Giordani, Milano-Roma-Napoli, Società Editrice Dante Alighieri 1925
. Niccolò Del Re, Il Vicegerente del Vicariato di Roma, Istituto di Studi Romani Editore, Roma
. Gennaro Grande, Origine dei cognomi gentilizi del Regno di Napoli, pag. 287

Condividi su: