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Il Potere del Perdono e della Libertà Individuale

Scritto da Fulvio Muliere il . Pubblicato in , .

a cura di Fulvio Muliere

Riflessioni sull’Equilibrio tra Libertà Personale e Responsabilità Collettiva nell’Edificazione di una Nuova Visione

Nel cuore della narrazione evangelica conosciuta come la parabola del Figlio Prodigo si cela un insegnamento di straordinaria potenza trasformativa: la libertà, il perdono, la responsabilità e la riconciliazione non sono elementi separati dell’esperienza umana, ma parti di un processo profondo, a tratti doloroso, che attraversa ogni percorso di crescita personale e collettiva. Il giovane che chiede la sua parte di eredità e si allontana dalla casa paterna non è soltanto un figlio ribelle: è l’emblema di ogni individuo che, per affermare sé stesso, decide di uscire dal confine sicuro delle relazioni affettive per esplorare la propria identità. In questo gesto c’è un richiamo ancestrale alla libertà, alla spinta vitale che ci porta ad andare oltre, anche a costo di smarrirci.

La libertà, in questa prospettiva, non è l’assenza di vincoli o l’arbitrio dell’ego. È, piuttosto, la capacità di assumersi il rischio di vivere, di scegliere, di sbagliare e di imparare. La libertà autentica implica la consapevolezza delle conseguenze, il coraggio di affrontarle e l’umiltà di riconoscere i propri limiti. Il giovane figlio parte con la speranza di una vita autonoma, ma si ritrova a fare esperienza della solitudine, della povertà, del fallimento. Questo passaggio è cruciale: senza la caduta, non può esserci autentica comprensione. E senza comprensione, la libertà resta un’illusione, priva di radici.

L’errore, quindi, non è un semplice inciampo da evitare, ma un punto di svolta. In un contesto educativo, riconoscere il valore dell’errore significa accettare che la crescita non è lineare, che ogni individuo ha bisogno di sperimentare per comprendere. L’educazione, intesa come un processo di maturazione dell’essere, non può limitarsi a imporre regole e contenuti. Essa deve accompagnare, accogliere, sostenere, perfino lasciare andare. Come fa il padre della parabola: non trattiene il figlio, non lo lega con catene morali, ma lo lascia partire, consapevole che solo attraversando l’errore potrà ritrovare se stesso.

In questa dinamica si rivela una delle tensioni fondamentali tra libertà personale e responsabilità collettiva. La libertà dell’individuo non può essere scissa dalla sua appartenenza a un contesto, a una comunità, a una rete di relazioni che lo definiscono. Ogni scelta personale ha un’eco nel mondo, ogni atto autonomo incide sull’equilibrio collettivo. Quando il figlio dilapida la sua eredità, non sta solo distruggendo il proprio futuro, ma sta spezzando un legame, rompendo una fiducia. Eppure, è proprio in questo strappo che si apre la possibilità di una riconciliazione più autentica, fondata non più sulla dipendenza ma sulla responsabilità.

Il concetto di responsabilità si lega strettamente alla libertà. Non c’è vera libertà senza responsabilità, come ben sanno i grandi pedagogisti e filosofi dell’educazione. Hannah Arendt scriveva che la libertà è il diritto di agire, ma anche il dovere di rispondere delle proprie azioni. E nel momento in cui il figlio, affamato e solo, decide di tornare a casa, egli assume su di sé il peso delle sue scelte. Non torna per essere ricompensato, ma per chiedere perdono. E in questo gesto, umile e maturo, risiede la sua trasformazione: ha attraversato la libertà, ha vissuto la caduta, ora abbraccia la responsabilità.

La pedagogia autentica non è mai punitiva. È trasformativa. Non castiga, ma educa, nel senso più profondo del termine: “educere”, trarre fuori. E ciò che viene tratto fuori, in questo caso, è l’umanità più vera dell’individuo, la sua capacità di rimettersi in gioco, di riconoscere il bisogno dell’altro, di ricostruire legami interrotti. Il padre, che nella parabola rappresenta una figura quasi divina, ma anche straordinariamente umana, accoglie il figlio senza riserve. Non gli chiede spiegazioni, non lo rimprovera, non lo umilia. Lo abbraccia, lo veste, organizza una festa per lui. In questo gesto c’è tutto il potere rivoluzionario del perdono.

Il perdono non è mai un atto facile. Implica un lavoro interiore profondo, la capacità di andare oltre il danno ricevuto, di riconoscere nell’altro qualcosa che va oltre l’errore commesso. È un atto di fede nell’umano. Il perdono autentico non è amnesia, non è negazione dell’offesa, ma la decisione consapevole di non definire l’altro solo in base al suo passato. E questo è un principio educativo fondamentale: nessun individuo può essere ridotto ai propri errori. L’educazione che si fonda sul perdono è un’educazione che offre sempre una seconda possibilità, che guarda al potenziale di rinnovamento che esiste in ogni essere umano.

La psicologia moderna ha ben compreso il valore trasformativo del perdono. Il processo di guarigione interiore, come ci insegnano autori come Carl Rogers o Marshall Rosenberg, passa attraverso l’accettazione di sé e dell’altro. La comunicazione nonviolenta, ad esempio, si fonda sull’idea che ogni conflitto possa essere superato se si torna a riconoscere i bisogni umani fondamentali che accomunano tutti. Nella parabola, il bisogno del figlio è quello di essere accolto, riconosciuto, reintegrato. E il padre, rispondendo con amore, soddisfa non solo quel bisogno, ma anche quello più profondo: quello di appartenere, di essere parte di una comunità.

La riconciliazione, quindi, non è un evento privato, ma un atto pubblico. Nella festa organizzata per il ritorno del figlio, tutta la casa partecipa. Il perdono del padre diventa una testimonianza per tutti: che nessuno è perduto, che ogni errore può essere redento. Eppure, non tutti comprendono. Il fratello maggiore, che è rimasto a casa e ha rispettato le regole, si indigna. Qui si apre un ulteriore piano di riflessione: la giustizia non è solo il rispetto delle regole, ma anche la capacità di accogliere chi ha sbagliato. Il risentimento del fratello maggiore mostra quanto sia difficile, talvolta, accettare che l’amore non si guadagna, ma si dona.

In questa tensione tra giustizia e misericordia, si gioca un’altra sfida educativa. Troppo spesso, i sistemi educativi si basano su premi e punizioni, su meriti e demeriti. Ma la crescita autentica non si misura con i voti o con l’obbedienza. Si misura con la capacità di affrontare la vita con responsabilità, di imparare dalle cadute, di rialzarsi con dignità. La figura del padre nella parabola rappresenta un modello di educatore capace di tenere insieme l’amore e l’autorevolezza, la libertà e il sostegno, l’accoglienza e la responsabilità. Un modello che si basa sulla fiducia nella capacità dell’essere umano di trasformarsi.

E questa trasformazione è ciò che oggi più che mai serve a livello sociale e culturale. Viviamo in un tempo segnato da polarizzazioni, giudizi, esclusioni. Spesso, l’errore diventa una condanna permanente, una macchia indelebile. Ma se vogliamo costruire una società capace di rigenerarsi, dobbiamo tornare a credere nel perdono come forza politica, educativa e spirituale. Dobbiamo imparare a vedere negli altri – anche nei “peggiori” – non solo ciò che sono stati, ma ciò che possono diventare. E per fare questo, è necessario un cambio di paradigma: dalla punizione alla responsabilizzazione, dalla colpa alla comprensione, dalla paura alla fiducia.

L’educazione del futuro non può che fondarsi su questi principi. Deve diventare uno spazio in cui ogni persona, al di là del ruolo che occupa, sia vista nella sua interezza: corpo, mente, emozioni, relazioni. Dove si insegni non solo a “sapere”, ma a essere, a convivere, a perdonare, a ricominciare. Dove la libertà sia esercitata non contro l’altro, ma insieme all’altro. Dove la responsabilità non sia un peso imposto, ma una scelta condivisa. Dove l’errore non sia la fine, ma l’inizio di un nuovo apprendimento. Dove la riconciliazione non sia un’eccezione, ma la regola fondamentale.

Il giovane della parabola torna trasformato, non solo perché è stato accolto, ma perché ha capito. E chi accoglie è anch’egli trasformato. Perché il perdono libera chi lo riceve, ma ancora di più chi lo concede. La libertà autentica, allora, è anche questo: la libertà di perdonare, di scegliere di non rimanere prigionieri del passato, di rompere il ciclo della vendetta e dell’esclusione. È un atto sovversivo, in un mondo che tende a classificare, a giudicare, a dividere. È un atto educativo, perché insegna che l’altro non è il suo errore, ma la sua possibilità.

Nel cammino di ciascuno, c’è un momento in cui si è figli prodighi: ci si allontana, si perde la rotta, si cerca fuori ciò che manca dentro. Ma c’è anche un momento in cui si può scegliere di tornare. E c’è bisogno, allora, di una casa che accoglie, di un padre che non giudica, di un fratello che sa perdonare. Questa casa è la comunità umana quando è capace di guardare oltre l’errore. Questo padre è ogni educatore che sceglie l’amore come strumento pedagogico. Questo fratello possiamo essere noi, quando mettiamo da parte l’invidia e abbracciamo la gioia del ritorno dell’altro.

La parabola, dunque, ci offre una mappa per l’umanità: un cammino che va dalla libertà alla caduta, dalla consapevolezza al perdono, dalla riconciliazione alla crescita. Non è un percorso lineare, ma ciclico, perché ciascuno può trovarsi in fasi diverse in momenti diversi della vita. Ma è un cammino che vale la pena intraprendere. Perché, alla fine, l’essere umano è chiamato non a essere perfetto, ma a diventare pienamente sé stesso. E questo è possibile solo se ci è concesso di sbagliare, di tornare, di essere accolti e di accogliere. Solo se la libertà individuale diventa responsabilità condivisa, se il perdono diventa fondamento delle relazioni, se l’educazione diventa atto d’amore.

 

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