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Un’Analisi Economica della Libertà

Scritto da Fulvio Muliere il . Pubblicato in .

a cura di Fulvio Muliere

 

Sostenibilità economica, equità sociale e il valore della dignità umana come fondamenti di un sistema economico che, oltre a premiare il successo individuale, offre possibilità di recupero e riscatto per chi ha sbagliato, in una visione di giustizia sociale che trascende il merito e promuove l’inclusività e la solidarietà

L’analisi economica della libertà costituisce un punto di svolta nella concezione stessa dello sviluppo umano, proponendo una visione in cui l’essere umano non è più ridotto a una semplice unità economica di consumo o produzione, ma è riconosciuto come un soggetto dotato di dignità, volontà e aspirazioni. Amartya Sen, con la sua riflessione, rompe radicalmente con i paradigmi tradizionali dello sviluppo basati unicamente sulla crescita del prodotto interno lordo, mostrando come la libertà debba essere non solo il fine, ma anche il mezzo dello sviluppo. Questo spostamento concettuale è decisivo: lo sviluppo non può più essere letto solo in termini quantitativi, ma deve essere compreso nella sua dimensione qualitativa, in relazione alle libertà reali che gli individui possono esercitare nelle sfere personale, sociale e politica.

Sen parte da una constatazione cruciale, i numeri dell’economia non bastano a restituire la complessità dell’esperienza umana. Una società può essere ricca in termini di PIL, ma profondamente ingiusta se quelle risorse non si traducono in reali opportunità per tutti. Egli osserva come la democrazia, i diritti civili e la partecipazione politica non siano solo strumenti accessori o decorativi, ma costitutivi del benessere. Sen mostra come, in presenza di diritti civili e politici effettivi, le persone abbiano strumenti per difendersi, per far sentire la propria voce, per ottenere attenzione pubblica verso le situazioni di ingiustizia. Un esempio emblematico, spesso richiamato, è quello delle carestie: nei paesi con stampa libera, opposizione politica e elezioni regolari, carestie devastanti non si sono mai verificate. Questo non perché tali paesi siano più ricchi, ma perché l’informazione e la pressione politica costringono i governi ad agire.

L’assenza di libertà reale, che Sen definisce “illibertà”, si manifesta in molteplici forme: nella fame, nell’ignoranza, nella malattia evitabile, nella discriminazione, nella disoccupazione forzata, nell’oppressione politica. Queste privazioni strutturali non sono meri “fallimenti” di politica economica, ma autentiche violazioni della dignità umana. Contrastarle non significa solo migliorare condizioni materiali, ma restituire alle persone la possibilità di vivere vite che esse stesse considerano degne di essere vissute. Per questa ragione, Sen sviluppa l’approccio delle capacità, un modello analitico e normativo che pone al centro le libertà effettive di ciascuno.

Le “capacità” sono le possibilità concrete che un individuo ha di essere o di fare ciò che considera prezioso. Esse non si esauriscono nell’avere un reddito, ma riguardano ciò che una persona è realmente in grado di realizzare: nutrirsi adeguatamente, accedere a cure sanitarie, partecipare alla vita collettiva, esprimere le proprie opinioni, sviluppare il proprio potenziale. Le “funzioni” o “funzionamenti” rappresentano le realizzazioni effettive, mentre le “capacità” descrivono l’insieme di possibilità a disposizione per raggiungerle. Una società giusta e sviluppata è dunque quella che amplia il ventaglio delle capacità a disposizione di ciascuno, specialmente dei più vulnerabili.

Il lavoro, in questa visione, non è solo un mezzo per guadagnarsi da vivere, ma è una dimensione fondamentale della libertà individuale. La possibilità di scegliere il proprio impiego, di lavorare in condizioni dignitose, di realizzarsi professionalmente è un indicatore essenziale del grado di sviluppo umano. La disoccupazione, la precarietà, la discriminazione sul lavoro sono non solo problemi economici, ma veri e propri attentati alla libertà. In una società che restringe le possibilità di accesso a un lavoro decente, le persone vivono sotto il peso di un’insicurezza esistenziale che le priva della libertà di progettare il futuro.

La povertà, nella prospettiva seniana, non si riduce a una carenza di reddito. È, piuttosto, la mancanza di libertà sostanziali: di educarsi, di curarsi, di partecipare alla vita sociale e politica. Le persone povere, secondo Sen, non sono solo economicamente svantaggiate: sono escluse da una serie di opportunità fondamentali, sono private delle condizioni minime per autodeterminarsi. La lotta alla povertà non può quindi esaurirsi nella redistribuzione del reddito, ma deve puntare alla rimozione degli ostacoli che impediscono a ciascuno di realizzare la propria umanità.

In questo contesto, la globalizzazione rappresenta una sfida ambivalente. Da un lato, essa consente la diffusione del sapere, l’accesso a nuove tecnologie, l’apertura di nuovi mercati. Dall’altro, essa può produrre profonde disuguaglianze, marginalizzazione culturale e sfruttamento. Sen non rifiuta la globalizzazione, ma ne sottolinea i rischi quando non è accompagnata da istituzioni giuste e meccanismi di equa distribuzione. I frutti dell’interdipendenza globale possono tradursi in una straordinaria espansione delle libertà, ma solo se i benefici vengono redistribuiti e se i più deboli non vengono sacrificati sull’altare della competitività.

La democrazia, in questa visione, non è solo un metodo di governo, ma un elemento strutturale dello sviluppo umano. La partecipazione democratica consente agli individui di incidere sulle scelte collettive, di controllare il potere, di esprimere dissenso. Essa crea lo spazio per la deliberazione pubblica, per il confronto tra valori, per la costruzione condivisa di priorità. Una società che nega la democrazia, o che la svuota di senso, restringe anche le libertà sostanziali: le decisioni vengono imposte, le istanze dei più deboli non trovano ascolto, la diversità viene repressa.

L’approccio delle capacità si oppone apertamente alla visione utilitarista tradizionale, secondo la quale il benessere sociale si misura in termini di somma delle utilità individuali. Per Sen, tale approccio ignora le disuguaglianze nella distribuzione delle capacità e delle opportunità. Una società in cui pochi sono felici e molti sono esclusi può apparire “efficiente” secondo l’utilitarismo, ma è profondamente ingiusta. Al contrario, l’approccio delle capacità insiste sulla valutazione delle libertà effettive: ciò che conta non è quanto ciascuno desidera o gode, ma ciò che può realmente fare e diventare.

Le implicazioni politiche di questa visione sono radicali. Le politiche pubbliche devono essere orientate non solo all’efficienza economica, ma all’espansione delle libertà fondamentali. L’investimento in istruzione, salute, infrastrutture, partecipazione civica non è solo una scelta etica, ma una strategia di sviluppo sostenibile. La giustizia sociale non è un lusso morale, ma un presupposto della stabilità e del progresso. È necessario costruire istituzioni capaci di rimuovere le barriere che impediscono agli individui di sviluppare le proprie potenzialità, indipendentemente dalla classe sociale, dal genere, dall’origine o dalle condizioni di nascita.

In questa prospettiva si inserisce, con sorprendente coerenza, la parabola del Figlio Prodigo, che da secoli accompagna la riflessione morale e religiosa, ma che oggi si rivela un potente strumento per leggere le dinamiche dell’esclusione, della fragilità e della giustizia sociale. Il giovane protagonista della parabola, desideroso di libertà e autonomia, reclama la sua parte di eredità e si allontana dalla casa paterna. Questo gesto è emblema di una volontà profonda di emancipazione, ma anche del rischio dell’autonomia non accompagnata: la libertà intesa solo come liberazione dai legami, senza responsabilità né sostegno, può condurre alla rovina.

Il destino del giovane, che finisce per sperperare tutto e vivere in miseria, si riflette in molte traiettorie moderne: persone lasciate sole nella competizione, senza reti sociali, senza accesso all’istruzione o a un lavoro stabile, senza possibilità di recupero. Quando egli arriva a desiderare il cibo dei porci, non si tratta solo di un’immagine di degrado materiale, ma di una completa perdita di dignità e riconoscimento sociale. Il suo isolamento – “e nessuno gli dava nulla” – è il prodotto di una società che non sa, o non vuole, reintegrare chi ha fallito.

Il ritorno a casa del figlio non è un semplice movimento spaziale, ma un gesto esistenziale e politico. Egli torna consapevole dei propri errori, non pretende nulla, chiede solo di essere riammesso come servo. È un gesto di

umiltà e di disperazione, che richiama la condizione di tanti esclusi che non reclamano privilegi, ma solo il diritto di esistere e di essere accolti. La risposta del padre, che corre incontro al figlio, lo abbraccia, lo riveste e organizza una festa, è un potente atto di giustizia riparativa: non lo umilia, non lo condanna, ma lo reintegra pienamente nella comunità.

Questa figura paterna, nella sua radicale gratuità, incarna la logica della misericordia, che non è debolezza né sentimentalismo, ma riconoscimento della comune vulnerabilità umana. La misericordia, in questo contesto, appare come una forma di giustizia superiore: una giustizia che non si limita a bilanciare torti e ragioni, ma che cura le ferite, restituisce dignità, riapre possibilità. Il perdono diventa così un atto politico, una pratica sociale che permette la ricostruzione dei legami lacerati e l’inclusione degli scartati.

Il rifiuto del fratello maggiore, che si oppone alla festa e rinfaccia la generosità del padre, è la voce della giustizia retributiva, della logica del merito. Egli rappresenta l’ordine che distingue tra giusti e ingiusti, tra meritevoli e immeritevoli. Ma il padre lo invita a superare questa visione: “Bisognava far festa, perché tuo fratello era morto ed è tornato in vita”. Qui si afferma un altro paradigma di giustizia, fondato non sulla distribuzione delle ricompense, ma sulla responsabilità verso chi è perduto. Non si tratta di negare il merito, ma di ricordare che la vita umana vale più delle prestazioni, che la comunità deve includere anche chi è caduto.

La parabola ci obbliga a ripensare il concetto stesso di giustizia. Non come bilanciamento astratto, ma come capacità di tenere insieme verità e compassione, responsabilità e riconciliazione. In questo senso, essa anticipa e rafforza l’approccio delle capacità: ciò che conta non è il giudizio su chi ha meritato di più, ma la possibilità che ciascuno possa vivere una vita degna. La casa del padre diventa il simbolo di una comunità capace di includere, di ricominciare, di restituire futuro.

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