
Tra Diritti Umani e Promesse Talebane
Scritto da Ottavia Scorpati il . Pubblicato in Italia ed Esteri.
A cura di Ottavia Scorpati
Un regime patriarcale teocratico, tra controllo sociale, repressione simbolica e marginalità sistemica: l’Afghanistan dei talebani come paradigma della violenza istituzionale e della crisi della solidarietà globale.
A quasi quattro anni dalla riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani, il Paese si è trasformato in un laboratorio oscuro di repressione sistemica, isolamento economico e strategia diplomatica opportunistica. L’illusione di una nuova stagione talebana, più moderata, rispettosa dei diritti fondamentali e capace di inserirsi in un ordine globale multilaterale, si è infranta contro la brutalità di un regime che ha riproposto, con più lucidità strategica e meno impeto ideologico, i meccanismi di controllo sociale e dominio religioso già visti negli anni Novanta. Il linguaggio adottato dai portavoce del regime — che parla di “diritti nel quadro della sharia”, di “governo islamico inclusivo” e di “stabilità per il popolo afghano” — non è che una copertura diplomatica, utile per cercare legittimità internazionale senza modificare la struttura autoritaria e teocratica del potere.
Le promesse talebane sul rispetto dei diritti delle donne si sono rivelate fin dall’inizio un’arma di soft power. Il divieto d’accesso all’istruzione per le ragazze a partire dalla scuola secondaria, la proibizione delle attività lavorative se non in ambiti “compatibili con la moralità islamica”, l’obbligo del burqa e la segregazione fisica negli spazi pubblici costituiscono oggi un sistema di esclusione totale che riconduce la donna afghana a un’esistenza invisibile. Le figure femminili che avevano cominciato a occupare ruoli pubblici — insegnanti, giornaliste, avvocate, funzionarie statali — sono state sistematicamente rimosse, costrette all’esilio o ridotte al silenzio. In molte province, le donne non possono neppure entrare nei parchi, viaggiare senza un parente maschio o ricevere cure mediche da personale di sesso opposto. È un ritorno all’apartheid di genere, mascherato da “protezione morale”.
Il sistema scolastico e sanitario ha subito un collasso progressivo. La carenza di fondi, personale e infrastrutture è aggravata dalla fuga di cervelli e dalla mancanza di cooperazione internazionale, sospesa o ridotta al minimo in assenza di garanzie di trasparenza e sicurezza. I bambini afghani, in particolare nelle aree rurali, sono privati di istruzione, assistenza medica e spesso anche dell’accesso all’acqua potabile. Molti sono costretti al lavoro minorile per contribuire alla sopravvivenza della famiglia. Il diritto all’infanzia è stato cancellato da un sistema che considera la povertà strutturale una conseguenza inevitabile e accettabile della propria visione teocratica del potere.
La libertà di stampa è stata distrutta in modo più sottile ma altrettanto letale. Invece della censura brutale e diretta del passato, oggi il regime opera attraverso arresti arbitrari, intimidazioni continue, chiusure amministrative e un uso capillare del controllo sulle licenze editoriali. Oltre 200 testate indipendenti sono scomparse dal panorama mediatico; molte di esse erano nate durante i vent’anni di presenza occidentale e avevano costruito reti informative locali vitali per la società civile. I giornalisti che ancora lavorano nel Paese vivono in una condizione di autocensura permanente, tra il rischio della prigione e quello della sparizione. La libertà d’espressione, condizione necessaria per ogni forma di sviluppo democratico, è stata ridotta a un simulacro. I media, oggi, fungono da amplificatori delle direttive religiose e politiche dei vertici talebani.
Sul piano della giustizia, il sistema legale è stato rimpiazzato da una struttura confessionale, basata su tribunali religiosi che applicano una versione rigida e opaca della sharia. Le punizioni corporali sono tornate alla ribalta: fustigazioni pubbliche, amputazioni e lapidazioni si registrano in diverse province. Le vittime di violenza domestica non hanno alcuna tutela e rischiano, al contrario, di essere punite per presunte “condotte immorali”. Le minoranze religiose e etniche, in particolare gli sciiti hazara e i tagiki, sono soggetti a discriminazione strutturale, esclusione dai posti pubblici e, in numerosi casi, a veri e propri pogrom con la complicità delle autorità locali. Il principio di uguaglianza giuridica, elemento fondante di qualunque Stato moderno, è stato completamente smantellato.
Sul fronte economico, l’Afghanistan è un Paese al collasso. Con le riserve estere congelate (circa 9 miliardi di dollari) e l’esclusione dal sistema finanziario internazionale, l’economia formale è pressoché inesistente. Il PIL ha subito un crollo verticale, e il settore pubblico sopravvive grazie ad aiuti internazionali canalizzati tramite agenzie ONU, spesso ostacolate dal regime stesso. La crescente economia informale — che comprende contrabbando, estrazione mineraria irregolare e traffico di oppio — è ormai l’unico motore economico in alcune province. L’Afghanistan resta il primo produttore mondiale di eroina, ma anche uno dei Paesi più colpiti da fame, malnutrizione e disoccupazione. Una contraddizione che dimostra come la dipendenza da circuiti criminali sia non un effetto collaterale, ma una scelta strutturale del regime talebano.
In questo contesto di fragilità assoluta, si innesta il nuovo realismo geopolitico. Se i Paesi occidentali continuano a esercitare pressioni attraverso sanzioni e isolamento, potenze come la Cina, la Russia, l’Iran e il Qatar hanno preferito una linea pragmatica, intravedendo nella debolezza del governo afghano una leva per espandere la propria influenza. La Cina, in particolare, mira a includere il Paese nella Belt and Road Initiative, con interesse crescente per i giacimenti minerari afghani (rame, litio, terre rare). Anche la Russia, pur mantenendo un certo distacco ufficiale, considera il rapporto con i talebani come uno strumento utile per limitare l’instabilità in Asia Centrale. Il Qatar, che ha ospitato i colloqui di Doha, mantiene un ruolo chiave di mediatore, offrendo al regime talebano una finestra diplomatica fondamentale. Questo nuovo asse geopolitico, che bypassa i valori occidentali in nome della realpolitik, pone l’Afghanistan al centro di un gioco di potenze che ignorano sistematicamente il destino della popolazione civile.
L’Occidente, dal canto suo, appare paralizzato. Dopo il disastroso ritiro del 2021, le cancellerie europee e statunitensi oscillano tra condanne retoriche e cautela diplomatica. Le sanzioni restano in vigore, ma senza una strategia politica credibile per il futuro. L’assenza di un piano d’azione condiviso e la crescente disattenzione dell’opinione pubblica rischiano di congelare l’Afghanistan in una condizione permanente di crisi dimenticata. Le ONG e le organizzazioni umanitarie resistono in un contesto pericoloso e imprevedibile, ma non possono colmare il vuoto di visione politica che impedisce di costruire una vera alternativa. La domanda cruciale, oggi, non è solo come aiutare il popolo afghano, ma se esista ancora la volontà collettiva, da parte della comunità internazionale, di difendere i diritti umani in modo coerente e non selettivo.
L’Afghanistan è diventato lo specchio delle contraddizioni dell’ordine globale contemporaneo. Da un lato, si proclamano diritti universali, libertà fondamentali, inclusione e parità; dall’altro, si accetta di fatto la legittimità di un regime che smentisce ogni principio democratico. Se l’oppressione può essere normalizzata in nome della stabilità geopolitica o degli interessi economici, allora il concetto stesso di diritti umani perde valore. Non è solo l’Afghanistan a rischiare la condanna al silenzio: è l’intera architettura morale della politica internazionale a subire una corrosione profonda. Il prezzo dell’indifferenza potrebbe essere molto più alto di quanto si sia disposti a riconoscere.