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L’infrastruttura della diseguaglianza

Scritto da Ottavia Scorpati il . Pubblicato in .

A cura di Ottavia Scorpati

Nel cuore delle trasformazioni globali del XXI secolo – tra sfide ecologiche, riconfigurazioni geopolitiche e ridefinizione degli assetti economici – la violenza contro le donne persiste come struttura sistemica, profondamente intrecciata con i meccanismi del potere, dell’economia e della rappresentanza democratica. Non si tratta di un’emergenza episodica, ma di una logica radicata che compromette la qualità dello sviluppo, la giustizia sociale e la tenuta delle istituzioni. Senza un’azione politica e culturale radicale, che metta al centro la piena partecipazione femminile e decostruisca il paradigma patriarcale, nessuna trasformazione sarà davvero equa, né sostenibile.Nel cuore del XXI secolo, mentre si celebrano innovazioni tecnologiche, svolte ecologiche e trasformazioni economiche globali, permane un fatto crudo e scomodo: la violenza contro le donne non solo esiste, ma si configura come struttura portante di un sistema di diseguaglianze che attraversa istituzioni, linguaggi, economie e spazi pubblici. Non è un fenomeno marginale, non si riduce a “emergenze” occasionali. È una logica ramificata che si insinua ovunque, in ogni ambito della vita pubblica e privata. Una rete silenziosa ma solida, che lega insieme dominio, paura e marginalizzazione. È un’infrastruttura della diseguaglianza.

Nel momento in cui l’Europa si affanna a risolvere le crisi energetiche, a gestire la complessità delle migrazioni, a rivendicare un’autonomia strategica che possa collocarla come potenza globale, si dimentica che il potere è, ancora oggi, sbilanciato su una base patriarcale. L’esclusione sistematica delle donne dai luoghi in cui si prendono decisioni non è solo un vulnus etico o giuridico. È una perdita misurabile in termini di capitale umano non valorizzato, di competenze soffocate, di leadership abortite. È un danno che ha conseguenze dirette sulla produttività, sull’innovazione, sulla qualità della democrazia. In Italia, i 116 femminicidi registrati nel 2021 raccontano più di un’emergenza criminale: sono la rappresentazione feroce di una paralisi simbolica, oltre che normativa. Ogni donna uccisa è un silenzio che si impone sul dibattito pubblico, una frattura nel tessuto sociale, una sottrazione al potenziale collettivo.

La violenza contro le donne ha un costo altissimo. Un costo che si conta in miliardi, ma soprattutto in prospettive recise. Le spese sanitarie, i procedimenti legali, l’assistenza sociale, le giornate di lavoro perse: tutto ciò grava sui bilanci pubblici, sulle famiglie, sulle aziende. Ma più ancora pesa la rinuncia forzata alla partecipazione. Una donna che rinuncia a muoversi liberamente, che rifiuta un’opportunità lavorativa, che limita le proprie scelte per timore, è una cittadina a metà. La sua assenza pesa sull’economia, sul progresso, sulla cultura. La violenza, in questo senso, è una forma di tassa occulta: invisibile nei bilanci ma onnipresente nella vita quotidiana di milioni di donne. È l’economia della paura, dove metà della popolazione vive sotto ricatto implicito, e quindi fuori da un pieno godimento dei propri diritti.

E questo non riguarda solo l’Italia o l’Europa. In molte aree del mondo, la violenza di genere è deliberatamente utilizzata come strumento politico. In Afghanistan, il regime talebano ha espunto le donne dallo spazio pubblico e istituzionale. In Iran, il corpo femminile diventa campo di battaglia ideologica: la vicenda di Mahsa Amini è emblema di un potere che teme la libertà femminile perché la riconosce come minaccia. Il controllo del corpo, del comportamento, dell’abbigliamento non è un fatto culturale, ma una strategia di repressione. E anche laddove ci si illude di vivere in contesti avanzati e democratici, la realtà si incrina. Il caso di Sarah Everard in Inghilterra – assassinata da un agente di polizia – ha distrutto la fiducia nell’istituzione che dovrebbe garantire sicurezza. Quando lo Stato diventa carnefice, lo spazio pubblico perde neutralità, e con essa la legittimità democratica.

L’inerzia europea è una forma sofisticata di complicità. L’assenza di una politica estera femminista è l’espressione di una volontà debole, schiacciata tra il calcolo geopolitico e l’ipocrisia valoriale. La Cina invoca la “non interferenza” per giustificare l’indifferenza. La Russia si rifugia nella retorica dei “valori tradizionali” per perpetuare il controllo sociale. L’Occidente, invece, si perde tra slogan, manifestazioni simboliche e misure parziali. Le dichiarazioni d’intenti non bastano. Servono visione e strategia. Perché finché la violenza resta impunita o strumentalizzata, non ci sarà alcuna vera giustizia globale.

Il linguaggio è uno specchio di tutto questo. L’ostilità nei confronti delle forme femminili nei titoli e nei mestieri — la sindaca, la ministra, l’avvocata — non è una questione grammaticale. È una forma di negazione simbolica. La lingua costruisce la realtà: nominare significa riconoscere, dare spazio, legittimare. L’assenza di parole è l’assenza di cittadinanza. E se la grammatica del potere resta maschile, anche l’architettura sociale seguirà quella linea. Questo vale anche per la progettazione urbana, pensata da uomini per uomini, con un’idea di neutralità che ignora le esigenze di chi vive lo spazio in modo diverso. L’illuminazione pubblica, le panchine, i trasporti notturni, i percorsi pedonali: ogni elemento contribuisce a determinare il grado di sicurezza percepita. E il corpo delle donne diventa il luogo su cui si proiettano paure e restrizioni.

Il sesso, la sessualità, il desiderio: anche questi sono attraversati da narrazioni distorte e silenzi colpevoli. Il consenso, spesso frainteso o dato per scontato, è un concetto che deve essere educato e condiviso. Non può essere lasciato alla spontaneità o al caso. L’educazione affettiva e relazionale, se introdotta precocemente e con approcci adeguati, può cambiare radicalmente la cultura della violenza. Ma deve coinvolgere tutti: i bambini, le famiglie, gli insegnanti, le istituzioni. La mascolinità tossica si costruisce dentro casa e si consolida sui banchi di scuola. Serve disinnescarla fin dall’inizio. Il rispetto deve essere insegnato non come forma di galanteria o cortesia, ma come principio di convivenza e giustizia.

La Generazione Z rappresenta oggi un’opportunità concreta. Si sta emancipando da modelli rigidi, rifiuta i ruoli prestabiliti, mette in discussione il machismo culturale. Parla di consenso, di parità, di autodeterminazione. È un capitale sociale e politico che va riconosciuto e valorizzato. Ma non bastano le campagne pubblicitarie patinate o le dichiarazioni di intenti istituzionali. Servono politiche vere: riforme scolastiche che introducano l’educazione sessuale e relazionale, incentivi per le aziende che promuovono l’equilibrio di genere, strumenti giuridici che tutelino le donne nella loro interezza, non solo quando diventano vittime.

Anche il giornalismo deve assumersi la responsabilità di cambiare narrazione. Il lessico del “raptus”, della “lite finita male”, delle “gelosie” va abbandonato. Sono formule che occultano la realtà, banalizzano il crimine, annullano il contesto. La violenza sulle donne è prevedibile. È preceduta da segnali chiari, da pattern ripetuti, da dinamiche strutturate. Raccontarla con superficialità significa essere complici. Ogni articolo è un’occasione per educare, per aprire gli occhi, per costruire consapevolezza. Ogni omissione è un buco nero che lascia spazio all’indifferenza.

Non si tratta solo di diritti delle donne. Si tratta di ripensare il modello stesso su cui è costruito il mondo contemporaneo. La crisi della democrazia, la stagnazione economica, il degrado ambientale sono connessi a una cultura che ha ignorato la voce femminile per secoli. L’emancipazione delle donne non è una variabile secondaria. È la chiave per ridefinire sviluppo, sostenibilità, giustizia. Serve un progetto radicale, non una serie di rattoppi. Serve coraggio politico, coerenza istituzionale, visione culturale.

Chi continua a guardare altrove, chi minimizza, chi giustifica, chi tace, chi attende, è parte del problema. Ma chi ascolta, chi agisce, chi si schiera con fermezza e lucidità, ha già cominciato a costruire la soluzione. Perché il futuro sarà femminista — o non sarà affatto.

 

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