
La Sfida che Sconvolge
Scritto da Ottavia Scorpati il . Pubblicato in Attualità.
a cura Ottavia Scorpati
Come il confronto tra le due superpotenze mette in crisi la globalizzazione, la cooperazione internazionale e solleva interrogativi morali fondamentali
Le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina hanno raggiunto un punto di svolta critico che segna una cesura profonda nel sistema economico e geopolitico mondiale. L’amministrazione Trump, tornata al potere nel 2024, ha rilanciato una strategia protezionista estremamente aggressiva e senza precedenti, introducendo tariffe doganali che hanno raggiunto picchi fino al 145% su una vasta gamma di prodotti provenienti dalla Cina. Questa escalation tariffaria non ha fatto altro che innescare una risposta altrettanto dura da parte di Pechino, che ha reagito con dazi speculari, restrizioni nel settore tecnologico e un irrigidimento generale dei rapporti diplomatici tra le due potenze, creando così un clima di forte instabilità che ha scosso non solo i mercati finanziari globali, ma ha messo a dura prova l’intero ordine economico mondiale.
L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) ha analizzato con attenzione le ripercussioni di questo confronto e ha delineato un quadro preoccupante. Le previsioni di crescita mondiale, infatti, sono state riviste al ribasso, passando da un 3,3% nel 2024 a un 2,9% nel 2025. Questo calo, apparentemente contenuto nelle percentuali, traduce però effetti economici concreti e pesanti: un rallentamento dell’economia globale che potrebbe accentuarsi ulteriormente nel caso in cui le tensioni commerciali si aggravassero con nuove barriere tariffarie. L’OCSE avverte che un’escalation delle tariffe potrebbe ridurre la crescita globale di circa lo 0,3% nei prossimi anni, aumentando nel contempo l’inflazione di circa 0,4 punti percentuali all’anno, un combinato che rischia di erodere il potere d’acquisto delle famiglie e di complicare la gestione delle politiche monetarie e fiscali a livello internazionale.
Questo scenario coinvolge direttamente le principali economie mondiali, ma non si limita a esse. Gli Stati Uniti, che pure sono stati i promotori di questa strategia protezionista, vedono il proprio tasso di crescita previsto ridursi al 2,2% nel 2025, con una possibile contrazione ulteriore al 1,6% entro il 2026. Parallelamente, l’Eurozona, da sempre un’area sensibile alle dinamiche globali, si trova ad affrontare una crescita anemica, stimata all’1% per il 2025, con poche speranze di miglioramenti sostanziali nei prossimi anni. Anche le economie emergenti, che avevano alimentato speranze di crescita robusta, come India e Cina, non sfuggono a questa tendenza negativa. L’incertezza dovuta all’instabilità delle politiche commerciali, in un contesto geopolitico sempre più conflittuale, contribuisce a frenare gli investimenti e ad alimentare una frammentazione crescente del sistema commerciale globale.
La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina si presenta quindi come una sfida epocale che va ben oltre le dinamiche puramente economiche. Essa rappresenta una vera e propria crisi della globalizzazione, intesa non solo come sistema di scambi commerciali e di interdipendenze economiche, ma come progetto ideale di cooperazione, integrazione e solidarietà internazionale. L’illusione di un mondo interconnesso, in cui le relazioni economiche avrebbero contribuito a stabilire una pace duratura e un progresso condiviso, si sta sgretolando sotto il peso di nazionalismi economici, logiche di potere e strategie di dominio che privilegiano la competizione aggressiva rispetto alla cooperazione.
Questo contesto è emblematico di una trasformazione culturale e filosofica profonda. La globalizzazione, che aveva incarnato per decenni la speranza di un mondo più giusto e pacifico, appare oggi messa in discussione da un “conflitto delle interpretazioni”, per usare le parole di Paul Ricoeur. Da un lato, si assiste a una visione dell’economia e della politica internazionale centrata sulla supremazia, sul dominio e sull’autosufficienza nazionale, che richiama l’idea hobbesiana di uno stato di natura conflittuale in cui ogni nazione si difende e combatte per sé stessa. Dall’altro lato, c’è la possibilità di un’alternativa fondata su una cooperazione regolata da principi di giustizia, equità e sostenibilità, che aspira a costruire reti di solidarietà e sviluppo condiviso.
Questa contrapposizione è visibile nel modo in cui le nazioni reagiscono alla crisi globale: da un lato, la tendenza a chiudere i confini, a imporre dazi e restrizioni, a favorire politiche protezionistiche e nazionaliste; dall’altro lato, la necessità di rafforzare la cooperazione multilaterale, di promuovere regole comuni e di affrontare insieme sfide globali come il cambiamento climatico, le pandemie e la povertà. Il rischio è che, se la prima visione prevalesse, il mondo si frammenterebbe in blocchi contrapposti, aggravando tensioni e conflitti e indebolendo la capacità complessiva di rispondere ai problemi comuni.
La metafora della “Torre di Babele” è particolarmente efficace nel descrivere questa situazione. La globalizzazione, nata dall’illusione di un linguaggio comune fatto di scambi, collaborazione e fiducia, si ritrova oggi divisa da linguaggi discordanti, fatti di sospetto, paura e isolamento. Le nazioni, invece di riconoscersi come partner in un progetto condiviso, si guardano con diffidenza e si arroccano dietro barriere politiche ed economiche, alimentando una logica di conflitto e separazione che mina le fondamenta stesse della cooperazione internazionale.
Questa dinamica non è priva di implicazioni morali e sociali di vasta portata. La dottrina sociale della Chiesa cattolica, sin da Leone XIII fino a Papa Francesco, ha sempre sottolineato che l’economia deve essere al servizio della persona umana e non il contrario. L’enciclica “Fratelli Tutti” mette in guardia contro un fenomeno definito “indifferenza globalizzata”, un atteggiamento che, mascherato da efficienza o pragmatismo economico, alimenta in realtà egoismo, disinteresse per il bene comune e disgregazione sociale. Nel contesto attuale, questa indifferenza si traduce in una crisi antropologica che va ben oltre la mera contabilità economica: è il rischio che si perda il senso del limite, della responsabilità reciproca e della fraternità, elementi essenziali per mantenere vivo un ordine mondiale giusto e sostenibile.
La posta in gioco, dunque, non riguarda solamente le percentuali di crescita del PIL o i bilanci commerciali, ma investe il modello di mondo che si vuole costruire. Si tratta di scegliere tra un paradigma fondato sul dominio, sulla competizione spietata e sulla chiusura, e un modello che ponga al centro la cura, la responsabilità condivisa e la solidarietà globale. Questo bivio non è solo economico o politico, ma anche etico e culturale. È il riflesso di una crisi di civiltà, che mette in discussione le strategie di governance globale, ma soprattutto l’anima stessa del mondo interconnesso.
Le imprese, in questo contesto, si trovano a dover affrontare una sfida complessa e nuova. Le catene di approvvigionamento globali, una volta progettate per massimizzare l’efficienza e ridurre i costi attraverso una specializzazione internazionale estrema, devono oggi essere ripensate per garantire maggiore resilienza, sostenibilità e responsabilità sociale. La minaccia di dazi imprevisti, restrizioni tecnologiche e instabilità geopolitiche spinge le aziende a diversificare i fornitori, a investire in innovazioni tecnologiche meno vulnerabili a shock esterni e a valorizzare la qualità dei prodotti insieme a una gestione etica delle risorse. Questo processo può trasformarsi in un’opportunità per ridisegnare modelli produttivi più equi e sostenibili, capaci di coniugare efficienza economica e valori sociali.
Parallelamente, i governi sono chiamati a una scelta cruciale. Possono continuare a perseguire logiche di confronto, competizione e supremazia, alimentando una spirale di dazi, restrizioni e tensioni diplomatiche, oppure possono decidere di investire in accordi multilaterali fondati su principi di giustizia, cooperazione e rispetto reciproco. La capacità di superare l’attuale stallo dipenderà dalla volontà politica di mettere da parte gli egoismi nazionali per promuovere un ordine globale più stabile, inclusivo e sostenibile.
È evidente che il conflitto commerciale tra Stati Uniti e Cina non può essere ridotto a un mero scontro tariffario o a una questione di bilanci economici. Rappresenta una crisi profonda e complessa, che coinvolge la filosofia politica, la morale, la struttura stessa delle relazioni internazionali e la visione del futuro che si vuole costruire. La sfida che abbiamo davanti richiede una risposta non solo tecnica o diplomatica, ma soprattutto etica, un nuovo patto tra economia, giustizia e fraternità, capace di trasformare questo momento di conflitto in un’occasione di riflessione, rinnovamento e conversione delle strategie e delle coscienze.
Solo attraverso questa rinnovata coscienza etica sarà possibile evitare che la frammentazione del sistema globale diventi irreversibile e che le tensioni commerciali degenerino in un conflitto più ampio, capace di compromettere definitivamente la capacità dell’umanità di affrontare insieme le grandi sfide del nostro tempo, dall’emergenza climatica alla lotta contro le disuguaglianze, dalla gestione delle pandemie alla promozione della pace e della stabilità internazionale.
Questo scenario apre la strada a una riflessione fondamentale: il modello economico dominante, fondato su un’accumulazione incessante e sulla competizione senza regole, ha dimostrato i suoi limiti, rivelandosi incapace di garantire la stabilità e il benessere collettivo a lungo termine. La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, pertanto, può essere interpretata come un segnale di allarme, un invito a ripensare le fondamenta dell’economia globale in modo più inclusivo, umano e sostenibile.
La crisi derivante dalla guerra commerciale non è solo un problema di numeri, ma una sfida per l’intera umanità. Essa ci chiama a riflettere su quale mondo vogliamo costruire, quale visione di futuro intendiamo abbracciare e quali valori intendiamo mettere al centro delle nostre scelte economiche e politiche. Superare questa crisi significa aprire la strada a un nuovo paradigma globale, fondato sulla cooperazione, la giustizia sociale e il rispetto per la dignità di ogni persona, trasformando così un momento di conflitto in un’opportunità di crescita collettiva e di speranza per le future generazioni.