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Cristianesimo verso l’Uguaglianza

Scritto da Fulvio Muliere il . Pubblicato in .

                                                                                                                                                                      a cura di Fulvio Muliere

Dal Vangelo alla modernità, tra conflitti e convergenze: come la fede cristiana ha incontrato e contribuito ai valori della cittadinanza democratica

«Tutti gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti» così si apre, con solennità e tono irrevocabile, l’articolo 1 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. È un’affermazione che, nella sua forza espressiva e nella sua ambizione universale, ha segnato uno spartiacque nella storia della civiltà occidentale. Eppure, questa visione dell’uomo come essere dotato di pari dignità e diritti trova, seppur con parole diverse, un’eco profonda nel cuore del messaggio cristiano. San Paolo, nella Lettera ai Galati, scrive infatti: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). In questa frase si riconosce una visione unificante e liberante dell’umanità, fondata non su leggi positive o ordinamenti politici, ma sulla fede e sull’uguaglianza davanti a Dio.

Che si pongono, storicamente, su piani distinti, ma che convergono su un medesimo fondamento antropologico: l’irriducibile dignità dell’essere umano. Tuttavia, tale convergenza non è stata né immediata né lineare. Essa è stata il frutto di un lungo, spesso doloroso, cammino segnato da tensioni, incomprensioni e, talvolta, conflitti aperti. La relazione tra cristianesimo e modernità, tra Chiesa e società civile, tra fede e politica, è una storia complessa, fatta di rotture e di riavvicinamenti, di condanne e di riconciliazioni.

Fin dalle sue origini, il cristianesimo introduce una rottura nei modelli religiosi e politici dell’antichità. La celebre esortazione di Gesù «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mc 12,17) inaugura un principio di distinzione tra sfera politica e religiosa senza precedenti nel mondo antico. In un contesto, come quello romano, in cui religione e politica erano inscindibilmente legate e il culto pubblico rappresentava un dovere civico, il cristianesimo propone una nuova libertà: la libertà della coscienza, della scelta personale, del rapporto interiore con Dio.

Questa rivoluzione silenziosa produce, nei primi secoli, una forma di “estraneità partecipata”. I cristiani non si isolano dalla società, ma vivono al suo interno con una logica diversa. Non partecipano alla vita politica dell’Impero, si astengono dal servizio militare, rifiutano pratiche come l’infanticidio e la schiavitù, ma non per spirito anarchico: la loro è una fedeltà a una patria superiore, quella del Regno di Dio. Come scrive la Lettera a Diogneto, i cristiani non si distinguono per abiti, lingua o costumi, ma per la loro prassi di vita: condivisione, mitezza, perdono, solidarietà. Essi vivono nel mondo, ma non sono del mondo. Non rivendicano potere, ma testimoniano un altro modo di vivere l’umano.

Origene, nel III secolo, ribadisce questa posizione affermando che i cristiani non rifiutano i doveri civili per disimpegno, ma per vocazione a un servizio più alto. La città dell’uomo è importante, ma quella di Dio è definitiva. In questa tensione tra il “già” della cittadinanza terrena e il “non ancora” del Regno, si colloca l’identità cristiana primitiva.

Con la svolta costantiniana, segnata dal battesimo dell’imperatore e dall’Editto di Milano (313), il cristianesimo da religione perseguitata diventa religione tollerata e, con Teodosio I, religione ufficiale dell’Impero (392). La Chiesa entra nel cuore del potere politico, traendone vantaggi, ma anche correndo gravi rischi. Ilario di Poitiers lo denuncia con parole durissime: il nuovo persecutore non usa la spada, ma l’oro e le carezze; non costringe, seduce. È la tentazione dell’identificazione con il potere, che porta la Chiesa a smarrire, talvolta, la sua profezia.

Nel Medioevo, in assenza di un potere statale forte, la Chiesa assume funzioni civili e diventa garante dell’ordine sociale. Ma il prezzo è alto: si giustificano le disuguaglianze di classe, si rafforza un’idea gerarchica della società, si legittima l’emarginazione dei “diversi”. Tuttavia, accanto al magistero ufficiale, sopravvive una vena profetica: nei monasteri, nei movimenti pauperistici, nella mistica femminile, l’ideale evangelico dell’uguaglianza e della condivisione continua a brillare, pur tra mille contraddizioni.

Con l’emergere del pensiero moderno e l’autonomia della ragione, si apre un’epoca di conflitto tra Chiesa e modernità. Le guerre di religione, l’affermazione dello Stato moderno, la secolarizzazione della società generano una nuova idea di laicità: non più solo distinzione, ma emancipazione della sfera pubblica da ogni controllo religioso. La Rivoluzione francese ne è il simbolo. La Chiesa, soprattutto nella sua componente cattolica, reagisce con durezza: il Sillabo di Pio IX (1864) condanna senza appello il liberalismo, il relativismo, la libertà religiosa. È la fase del rifiuto.

Ma proprio da questo scontro si avvia un lento processo di apertura. La crisi del potere temporale, la fine dello Stato pontificio, l’ingresso dei cattolici nella vita democratica segnano una nuova stagione. La dottrina sociale della Chiesa, nata con Rerum Novarum (1891), cerca una sintesi tra fede e giustizia sociale. Il cammino, tortuoso ma fecondo, culmina nel Concilio Vaticano II.

Con la Gaudium et Spes (1965), la Chiesa compie una svolta profonda. Riconosce l’uguaglianza tra gli uomini come fondamento biblico e come esigenza etica e politica. Non più rivendicazione di egemonia, ma proposta di dialogo. Non potere, ma testimonianza. Papa Paolo VI legge la fine del potere temporale come dono provvidenziale: la Chiesa, spogliata del potere, riscopre il Vangelo.

La nuova laicità non è più l’antitesi della fede, ma il suo possibile alleato. La distinzione tra Chiesa e Stato, tra fede e politica, permette alla comunità cristiana di vivere il Vangelo nella libertà, nella responsabilità e nel confronto pluralista. Giovanni Paolo II parlerà di una laicità “ben compresa”, in grado di favorire il dialogo, non lo scontro.

Nel mondo contemporaneo, segnato da globalizzazione, individualismo e frammentazione, i cristiani non sono più al centro della società. Ma questa condizione minoritaria non è una sconfitta: è un’opportunità per riscoprire la radicalità del Vangelo. Non si tratta di reclamare spazi di potere, ma di vivere una differenza evangelica: nella gratuità, nella solidarietà, nella custodia del prossimo.

Oggi più che mai, la libertà rischia di ridursi a puro arbitrio, e l’uguaglianza a uniformità formale. Ma il messaggio cristiano, se autentico, propone una fraternità concreta: «secondo il bisogno» (At 4,35), come nelle prime comunità apostoliche. È questa la vera “differenza cristiana”: una comunità che vive non per sé stessa, ma per gli altri. Che non impone, ma propone. Che non domina, ma serve.

Nel contesto attuale, in cui la tecnica conferisce all’uomo poteri quasi divini — fino alla manipolazione genetica, al controllo digitale delle masse, al rischio dell’intelligenza artificiale disumanizzante — la voce del Vangelo può offrire un criterio di umanizzazione. Non come imposizione dottrinale, ma come fermento di senso. La laicità, in questa prospettiva, non è una neutralità vuota, ma uno spazio condiviso dove credenti e non credenti possono cooperare per il bene comune.

La cittadinanza, allora, non è solo appartenenza giuridica, ma partecipazione etica. La Chiesa non chiede privilegi, ma il diritto di contribuire, con la propria voce, alla costruzione di una polis giusta, solidale, fraterna. È la sfida della testimonianza, non della supremazia. È la logica delle beatitudini, non della conquista.

La grande promessa della modernità — libertà, uguaglianza, fraternità — trova nel cristianesimo una sorprendente consonanza. Non nel senso di una continuità automatica, ma come possibilità di dialogo profondo. La libertà evangelica non è licenza, ma dono responsabile. L’uguaglianza cristiana non è livellamento, ma riconoscimento dell’altro come immagine di Dio. La fraternità non è sentimento vago, ma legame concreto, capace di generare pace e giustizia. In questo senso, la laicità non è contro la fede, ma la sua possibilità nel mondo plurale. E la fede, quando è autentica, non teme la laicità: la attraversa, la interroga, la arricchisce.

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