
La Rivoluzione di Bob Dylan
Scritto da Danilo Pette il . Pubblicato in Attualità.
Con “A Complete Unknown” James Mangold firma un ritratto vivido e anticonvenzionale di Bob Dylan, mentre Timothée Chalamet si conferma interprete totale non una copia, ma un’anima che canta.
Nel cuore della New York del 1961, con le sue strade brulicanti di artisti, poeti e musicisti, prende vita una storia che non è soltanto l’ascesa di un giovane sconosciuto del Minnesota, ma il racconto profondo e sfaccettato della nascita di un’epoca musicale, culturale e sociale che ancora oggi echeggia nelle coscienze collettive. “A Complete Unknown”, diretto da James Mangold e interpretato con straordinaria profondità da Timothée Chalamet, è molto più di un biopic. È un’immersione sensoriale e viscerale nella genesi di Bob Dylan, nel suo linguaggio lirico, nella sua spiritualità da cantastorie e nella capacità inedita di ridefinire la narrazione americana.
Nelle sale italiane dal 23 gennaio, il film arriva preceduto da un’attesa vibrante, non solo per il carisma di Chalamet ma per il modo in cui il regista americano è riuscito a sfiorare, raccontare, smontare e ricomporre l’identità di uno dei personaggi più elusivi e mitici della musica contemporanea. Niente è scontato in “A Complete Unknown”, a partire dal titolo: una citazione di quella “Like a Rolling Stone” che ha segnato la storia del rock e insieme un dichiarato intento poetico. Perché Dylan non si racconta con l’oggettività cronachistica dei fatti, ma con la sfumatura incerta della memoria, del mito e dell’impressione.
Il film non tenta l’imitazione, evita il rischio del santino e si affida alla complessità. Mangold ha scelto di costruire un’opera non lineare, vibrante, che sfugge agli schemi del racconto biografico tradizionale. Il Dylan che vediamo crescere nel Greenwich Village non è ancora una leggenda, ma un ragazzo assetato di significato, di suono, di senso. La sua voce, dapprima incerta, si fa grido collettivo. E proprio questo cammino verso l’espressione autentica è il cuore del film.
Timothée Chalamet si cala nel ruolo con una dedizione rara, che va oltre la semplice performance. Non si limita a riprodurre i gesti, le inflessioni, le espressioni, ma assorbe lo spirito del personaggio. “Ho studiato Dylan per più di cinque anni,” racconta l’attore. “Non volevo imitarlo, volevo capirlo. Volevo vivere come lui, pensare come lui, suonare come lui.” E lo fa, suonando dal vivo l’armonica, la chitarra, cantando con la voce rotta di un diciannovenne che ancora non sa quanto lontano andrà, ma sente di doverci provare.
Chalamet canta davvero, non solo per dare credibilità alla sua interpretazione, ma per costruire un’esperienza autentica. Con il sostegno del regista Mangold e del supervisore musicale T Bone Burnett, la colonna sonora è stata registrata in presa diretta per la quasi totalità del film. Una scelta coraggiosa, che restituisce al pubblico non solo la musica, ma la tensione emotiva di chi quella musica la sta creando lì, davanti ai nostri occhi.
Edward Norton, nei panni di Pete Seeger, è il contrappunto ideale alla freschezza inquieta di Dylan. Il suo Seeger è un mentore, ma anche un uomo immerso in un tempo che sta cambiando. Norton parla di “un viaggio dentro le radici musicali dell’America”, ma anche di una sfida narrativa: “YouTube è stato uno strumento fondamentale per studiare Seeger, ma alla fine ho cercato di catturare il suo spirito, non la sua biografia.”
Accanto a loro, Monica Barbaro interpreta Joan Baez con una sensibilità che rinuncia all’imitazione per abbracciare l’essenza. “Joan ha detto una volta che se cerchi di fare qualcosa di troppo perfetto, lo privi dell’elemento che lo rende interessante,” racconta l’attrice. “Questo è stato il nostro approccio: non la perfezione, ma la verità umana.”
Il regista James Mangold, noto per film come “Walk the Line” e “Logan”, rifugge ogni retorica celebrativa e costruisce una narrazione fatta di frammenti, vibrazioni, echi. “Abbiamo cercato di ricreare il passato come se la cinepresa non ci fosse,” spiega. “Non volevamo mostrare un Dylan consapevole della propria grandezza, ma un ragazzo alla ricerca della sua voce.”
Una delle riflessioni più potenti che il film offre è proprio sulla costruzione dell’identità. Bob Dylan non è un personaggio che cerca modelli: ne crea di nuovi, per sé e per gli altri. “Credo che non abbia mai seguito archetipi,” dice Chalamet. “Ha semplicemente seguito il suo desiderio, la sua fame di qualcosa di grande.” Ed è proprio questo a renderlo così vicino a noi, anche oggi: non la sua fama, ma il suo continuo tentativo di capire cosa vuole dire essere sé stessi in un mondo che cambia.
“A Complete Unknown” si inserisce in un filone cinematografico che va oltre il genere biografico: è una riflessione sulla creatività, sul ruolo dell’arte, sulla solitudine del talento. In una scena centrale, Dylan si confronta con la contraddizione tra autenticità e successo. La scena non è solo un riferimento storico — come il celebre Newport Folk Festival del 1965, dove Dylan passò dalla chitarra acustica a quella elettrica, dividendo il pubblico — ma un’allegoria moderna del rapporto tra arte e aspettativa.
Il film riflette anche sull’oggi, sulla crisi dell’autenticità in un’epoca di iper-esposizione. “Oggi condividiamo tutto, ma forse perdiamo ciò che è magico,” dice Mangold. “Bob Dylan proteggeva il suo spazio interiore. La cultura moderna tende ad anestetizzare. Noi volevamo risvegliare.” Ed è forse in questo risveglio che il film trova il suo significato più profondo. Un atto di resistenza contro l’omologazione, un invito a cercare il proprio suono, la propria storia, anche quando nessuno ascolta.
La colonna sonora, curata con maniacale precisione, è un viaggio nel cuore del folk americano, ma anche un ponte tra le generazioni. La musica di Dylan, riascoltata e reinterpretata da Chalamet, non è nostalgica. È attuale. Parla di giustizia, di inquietudine, di speranza. Di cose che non passano mai. Perché Dylan, come dice Monica Barbaro, “attinge da un periodo, ma parla a tutti.”
A livello produttivo, il film è frutto di una collaborazione importante tra Searchlight Pictures e Warner Bros., che ha già inserito l’opera nel circuito delle grandi uscite premianti. Non è un caso che Chalamet, reduce da due successi come “Dune: Parte Due” e “Wonka”, sia anche tra i produttori esecutivi. A 29 anni, è uno degli attori più influenti del panorama contemporaneo, ma è anche uno dei pochi in grado di alternare blockbuster e progetti d’autore con coerenza.
Chalamet ha già dimostrato la sua versatilità in ruoli molto diversi, ma “A Complete Unknown” è probabilmente la sua prova d’attore più matura. Non è solo la somiglianza fisica, ma la densità del lavoro interiore a colpire. Quando canta “Don’t Think Twice, It’s All Right” o “Blowin’ in the Wind”, la voce sembra farsi portavoce di un’epoca ma anche di un presente. È una performance stratificata, che mescola timidezza e ribellione, ironia e dolore. E che, soprattutto, evita qualsiasi scorciatoia sentimentale.
Il film, che è già in lizza per diversi premi tra cui gli Oscar e i BAFTA, ha ricevuto una calorosa accoglienza ai festival di Telluride e Venezia, dove è stato proiettato in anteprima. La critica internazionale ha parlato di “una delle migliori performance dell’anno” e di un “film che ridefinisce il genere musicale.” Ma al di là dei riconoscimenti, è la reazione del pubblico a essere sorprendente: per molti giovani spettatori, il film è il primo incontro vero con la figura di Dylan. Non un’icona da museo, ma un ragazzo che ha deciso di scrivere la sua storia con la musica.
Il lavoro sulla fotografia e sulla ricostruzione scenografica merita una menzione a parte. I colori sbiaditi dei caffè del Village, le luci calde dei piccoli palchi, la pioggia sulle vetrine di Brooklyn: ogni inquadratura sembra un quadro. Ma non è un’estetica fine a sé stessa. Serve a creare un’atmos
fera, a restituire quel senso di nostalgia concreta che pervade l’intero racconto.
C’è una scena in particolare che resta impressa: Dylan suona da solo in una stanza d’albergo, con il nastro che gira. Non parla. Non guarda in camera. Ma basta la musica per capire tutto: la solitudine, la determinazione, il dubbio. È lì che “A Complete Unknown” smette di essere un film su Dylan e diventa un film sull’essere giovani, sul creare qualcosa, sull’accettare il rischio del fallimento.
E forse è proprio questo il messaggio che Mangold, Chalamet e il cast vogliono trasmettere: l’arte non è mai un’imitazione, ma un gesto di libertà. Dylan non ha mai chiesto di essere seguito, ma ha sempre chiesto di essere ascoltato. E oggi, in un mondo che premia l’apparenza e punisce la complessità, “A Complete Unknown” arriva come un invito alla disobbedienza creativa. Alla ricerca. Alla verità.
Come canta Dylan: “The times they are a-changin’.” Ma forse, più che cambiare, il tempo ci sta solo ricordando ciò che conta davvero.
©Danilo Pette