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Il Pugilato tra Reale e Finzione

Scritto da Danilo Pette il . Pubblicato in .

Un viaggio attraverso le diverse narrazioni del Pugilato dalla Carne al Mito, tra Muscoli e Metafore, dalla brutalità del ring al suo simbolo e oltreIl pugilato è molto più di uno sport: è una narrazione incarnata, un rito che intreccia il corpo e l’anima in un duello senza tempo. Sul ring, la carne si fa testimone di forza e fragilità, resistenza e ferita, mentre il corpo è martellato dalla brutalità del confronto fisico. È la dimensione tangibile, la realtà cruda e palpabile del combattimento.

Ma il pugilato è anche mito: una storia di eroi e antieroi che, nel loro duellare, raccontano la lotta più profonda — quella con se stessi, con il destino, con la società. Attraverso le parole, le immagini e i suoni, il pugilato si trasforma in metafora universale della resistenza, della speranza e della redenzione.

Attraverso i diversi medium, questo sport prende forme molteplici. La letteratura si immerge nell’interiorità del pugile, svelandone le paure e le aspirazioni con un’intensità meditativa; il cinema lo restituisce con la forza visiva e sonora di un’esperienza che coinvolge corpo e cuore; la televisione costruisce storie di lungo respiro, intrecciando vite e contesti sociali; la musica ne cattura l’energia e l’impulso vitale, trasformando ogni colpo in ritmo e battito di un cuore indomito.

Questo viaggio esplora come il pugilato sia passato dalla carne alla metafora, dal fatto concreto al simbolo universale, attraversando le brutalità del ring per diventare specchio delle grandi battaglie umane.

La prima cosa che colpisce chi si avvicina al pugilato è la sua realtà brutale e concreta, dove muscoli, sangue, sudore, disciplina e strategia si intrecciano in una danza dolorosa e meravigliosa. Il ring è una cornice spoglia, rigorosa, quasi un rettangolo di finitezza fisica e mentale: lì non c’è spazio per la fantasia, solo per la tecnica e la volontà, per il coraggio. La sfida è nuda contro nuda, guantoni contro guantoni, cuore contro cuore. Nel pugilato reale ci sono regole precise e arbitro, ma restano in secondo piano di fronte all’irreversibilità di ogni colpo: un pugno ben piazzato può cambiare il destino di una carriera, o sconvolgere la vita di chi lo riceve – e di chi, dietro ai riflettori, sta guardando. Il tempo scorre in round scanditi da campana, e ogni secondo è una zolla in cui affonda une vita di allenamenti, di rinunce e di sogni, di cicatrici e di speranze.

Ma quando quel pugno viene trasportato nella narrazione – nella letteratura, nel cinema, in un telefilm o in una canzone – qualcosa cambia. La violenza si fa simbolo, la profondità psicologica diventa protagonista, i gesti tecnici si circondano di riflessività. Il racconto – e più ancora, la finzione – non replica semplicemente l’evento, ma lo dilata, lo scompone, gli fa assumere significati che trascendono l’immediato. Perché l’arte ha bisogno di un campo più ampio, metaforico, stratificato.

Il contrasto più potente nasce dall’idea che, nel pugilato reale, le emozioni vanno sotto gancio sinistro o sul mento; nel racconto, l’emozione è il pugno. La letteratura, ad esempio, ha dato vita a capolavori come “Raging Bull” di Jake LaMotta, romanzato da Jake LaMotta stesso nel libro, o “Cinderella Man” nella sua memoria di James J. Braddock, insieme a molte narrazioni minori ma non meno intense, in cui il ring diventa specchio di debolezze e virtù, di sconfitte interiori tanto quanto fisiche. In questi testi si passa da scene di allenamenti ossessivi, di notti insonni, di fame e disperazione, ma soprattutto di riflessione: la lotta contro l’avversario diventa lotta contro se stessi, contro la paura, contro la tentazione di cedere. La prosa stretta, ipnotica, con rapide evocazioni sensoriali, ricrea la stanchezza pungente, l’odore del sudore, lo choc del colpo ricevuto. Il pugno non è più solo gestualità: è destino, espiazione, vendetta dal passato o liberazione. Il lettore accetta di scorgerne l’eco interiore, perché la dimensione letteraria lo consente. Il ritmo è più elastico, e il tempo narrativo può dilatarsi su un’attesa, su un singolo istante, su migliaia di pensieri in un solo istante.

Nei film, la resa cambia ancora: dal nero e bianco ovattato di “Toro Scatenato” di Scorsese (1980), alla pellicola più recente “Creed: Nato per combattere” (2015), fino a “Million Dollar Baby” (2004) di Clint Eastwood, c’è un meticoloso lavoro di montaggio, fotografia e colonna sonora che estrae dal pugno il suo valore cinematografico. Scorsese usa il bianco e nero in “Raging Bull” come un plasma visivo, sottraendo ogni distrazione cromatica, immerso in un bianco-latte quasi mortuario. La telecamera di Michael Chapman resta vicinissima, a volte fin quasi voyeur, inquadra ogni goccia di sudore, ogni alito di rabbia o di dolore. I salti indietro nel tempo, le didascalie della carriera, la voce narrante, la musica – da “The Breeze and I” a “Blue Moon” – lavorano in sinergia per muovere lo spettatore su un piano emotivo e riflessivo. Non si guarda solo un combattimento, si ascolta l’anima ferita di un uomo auto-distruttivo. In “Creed”, invece, si coglie la dimensione del passaggio di testimone tra generazioni: Adonis Johnson, figlio illegittimo di Apollo Creed, sfida la solitudine ereditata dal padre famoso, impara la disciplina e cerca la sua identità, appoggiandosi al vecchio Rocky Balboa – che diventa mentore. Il ring è teatro di una seconda chance, di riscatto individuale, speranza familiare. Qui la tonalità visiva è nitida, i colori realistici ma brillanti, la colonna sonora contemporanea (Drake, Future) accompagna la lotta verso un futuro. Il combattimento non è mai fine a sé stesso: è coronamento di un percorso umano e morale. In “Million Dollar Baby” il pugilato femminile è rappresentato con delicatezza, ma la svolta tragica – la paralisi di Maggie Fitzgerald – rimette tutto in discussione. Non vince chi subisce: la vera vittoria risiede nel tentativo e nella dignità del sacrificio. Il montaggio dialoga con la fotografia crepuscolare e il silenzio più desolante.

La televisione seriale, d’altro canto, introduce un ritmo narrativo più episodico, lungo, articolato: pensiamo a “Lights Out” (2011–2012) o a quella che fu la celebre “Friday Night Lights” (2006–2011): serie in cui l’allenamento, le vittorie, le sconfitte, i traumi, i rapporti umani, familiari e professionali, si dipanano nell’arco di stagioni. Il pugilato assume valenze psicologiche e sociali, commenta il tessuto urbano, razziale, economico. In una serie televisiva c’è spazio per una fotografia che rende riconoscibile l’identità estetica del luogo: dal ring arrugginito in un quartiere popolare, al palazzetto moderno in un quartiere gentrificato. Il design scenico comunica tempo e appartenenza sociale. Le telecamere restano a volte lontane, altre volte stringono sul volto dei protagonisti, facilitando empatia e sospensione dell’incredulità. E l’arco narrativo è costruito come su un ring lungo, fatto di epic win e cadute, di round che portano al cliffhanger, di ritratti profilati a ogni episodio. I protagonisti diventano familiari; il basso profilo dell’emittente (anche CBS, NBC) è contrastato dalla forza emotiva. Il caso di “Lights Out” è paradigmatico: protagonista Patrick “Lights” Leary, ex campione del peso massimi, cerca una rinascita dentro e fuori dal ring dopo una sconfitta umiliante e una famiglia fallita. La serie esplora temi come l’Alzheimer (suo padre), la dipendenza da droghe (suo fratello), la sopravvivenza economica. Il ring è stazione di resistenza e redenzione, ma non trasfigura la realtà: ogni nocciolo di verità è concreto, sociale, e l’eleganza drammatica serve, attraverso dialoghi secchi, musiche sparse, ambientazioni metropolitane, a mettere in luce le contraddizioni della vita.

La letteratura avanza ancor più: qui il pugilato riesce a inserire il lettore all’interno del combattimento come nessuna immagine potrebbe, perché è dentro la testa, nel respiro, nella descrizione in prima persona di un pugno che parte da un riflesso cerebrale e percorre corpo, guanto, l’aria, il volto dell’avversario. La tecnica di scrittura è varia: da riflessioni interiori intense a frammenti quasi antropologici che analizzano razza, classe, genere, ruolo sociale. Il romanzo moderno sul pugilato include anche opere underground, storie di protagonisti fuori da ogni mainstream: migranti, afroamericani, latinos, donne – spesso ignoti ai circuiti ufficiali, ma immensi nella potenza narrativa. Il ring diventa barriera e privilegio, fuga e gabbia. Una pagina infinita di sopravvivenze, scontri di identità, collusioni con la malavita, nostalgie familiari, dedizioni testarde.

Anche la musica ha abbracciato il pugilato: canzoni come “Mama Said Knock You Out” di LL Cool J (1990), “Eye of the Tiger” dei Survivor (1982), “The Fighter” di Gym Class Heroes (feat. Ryan Tedder, 2011), “Hard Knock Life” di Jay-Z (1998 – negli Usa si usava come metafora); ma anche pezzi pop come “Fighter” di Christina Aguilera (2002) o quelli di Eminem, che nel rap parla spesso di sfide, pugni metaforici, attacco e difesa, vita di strada, talento e fatica. Il pugile diventa archetipo per il “warrior mindset” – lotta per l’onore, integrità, emancipazione. In un concerto, quel ritmo, quel testo, quel ritornello, ci sbatte dentro una palestra di vita, dove ci si rialza sempre. La performance musicale diventa ring emotivo, nessun arbitro, ma un pubblico che applaude dannatamente, e il microfono diventa guantone. Il messaggio non è mera violenza, ma fierezza, resilienza, fiammella che non si spegne.

Ce n’è di variazioni infinite: il pugilato con le corde spezzate del circo sociale; la boxe da strada nei videoclip hip-hop; le ronde nostalgiche nel folk; l’energia crossover nei DJ set; e c’è persino l’opera o il teatro che ha messo in scena pugni a mani nude, racchiudendo la dialettica dentro una catarsi drammaturgica. Qui la dizione, l’uso del gesto, la luce scenica, il silenzio, sono l’equivalente di un colpo mosso a tempo di battuta. La gestualità diventa poetica – si ferma, ronza, esplode, frastorna.

Un’indagine comparativa va oltre ed entra nel giornalismo d’inchiesta, dove non si filtra né si snatura: reportage sul pugilato clandestino, mini rifugi per migranti che imparano a boxare, storie di ex detenuti, ex alcolisti che trovano riscatto con i guantoni. Lì la cronaca non ha necessità di pieghe narrative, ma può essere più potente di un romanzo: perché è reale. Lo sguardo giornalistico si impunta sull’umanità concreta, sulle magagne del presente – contrasti sociali, violenza di genere, marginalità urbana –, eppure offre esempi di cura e di speranza, di comunità che si costruisce attorno al sacco e alla corda, scoprendo vocazioni, prevenendo tragedie. Il reportage è crudo, ma con fine etico: documentare senza retorica è già un gesto di fede nell’uomo.

Così, passando da una dimensione all’altra, emerge una rete interreticolare di significati: l’essenza del pugilato non è solo nella potenza dei muscoli, ma nella metafora di lotta, resistenza, credo, storia. E ogni linguaggio – letterario, visivo, sonoro – la eleva, la trasforma, la traduce. Ogni medium sceglie se mostrare la materia (il sangue, il colpo, l’odore della palestra), oppure trasfigurare il gesto in spirito, sguardo, parola. Il realismo può diventare simbolo; la violenza, epifania; il ring, specchio sociale; il colpo, atto morale. Il racconto – in tutte le sue forme – allarga il raggio, produce senso, suscita riflessione. Ecco perché la boxe raccontata resta un repertorio infinito, mai esaustivo, sempre stimolante.

Chi segue la boxe vera come tifoso o appassionato sa che ogni incontro ha storia propria: gestazione nei mesi di allenamento, dati tecnici, campagna mediatica, backstage, allenatore che segna grafici, fisioterapista che cura contusioni. La strategia – quando attaccare, come difendersi, cosa comunicare all’avversario con la guardia, con lo sguardo – è pianificazione scientifica e nervosa. Il pugno è un gesto addestrato, coordinate cinetiche, esecuzione muscolare, respirazione ritmica. E chi sta fuori vede specialmente una parte: la finitura, il contatto, il momento in cui il corpo riceve la mazzata; dieta densa di adrenalina e ansia.

Quando quella scena entra in un film, tutto è montato e pensato, calcolato. I movimenti di camera (dolly, carrello, steadicam, slow motion), la musica che restringe o amplia la tensione, il controluce tra i fili della ring hightlight, i suoni abituali – di sacco che trema, di guantoni che impattano sulla guancia – isolati e amplificati: bastano pochi secondi per far crescere un’emozione. Il pubblico partecipa a vicolo; il montaggio mette in testa del protagonista, lo spettatore vede attraverso i suoi occhi, lo scotoma visivo e la distorsione cinematica lo portano nel corpo di chi combatte. In televisione, però, si allunga il tempo: la regia resta professionale ma più sobria – carrelli discreti, luci realistiche – perché si cerca un filo realistico più solido tra telespettatore e personaggio. Pure la serialità rafforza l’attaccamento: si sta con i pugili per settimane, mesi, anni. Per questo importa di più se una serie descrive le discussioni con fidanzate o manager, gli errori di valutazione tra i round, gli allenamenti che si fanno all’alba sotto la pioggia. Il futuro di ogni personaggio è come un capitale emotivo disperso in ogni episodio. E in fondo in ogni round ce ne sono venti da distribuire.

La letteratura insiste: le frasi sono scritte con sangue, ma anche con una pazienza certosina. Il narratore interno, la focalizzazione soggettiva, la descrizione minuziosa del tempo interiore: la paura, il rispetto per l’avversario, l’illusione della vittoria che ti spinge avanti dopo ogni colpo. Si ignora la sequenza cinematica per affrontare la sequenza concatenata del pensiero, della memoria, del rumore delle corde che sbattono; della preparazione olfattiva del corpo: odore di olio, di magnesio, di muffa. Il pugno del racconto coglie come fulmine interiore: la paura, l’identificazione, la sfida, la redenzione. E la morte plausibile in ogni gesto, il rischio incarnato. Non c’è commentatore sul bordo, il mondo va via e tu resti dentro, senza movimento alternativo. Un libro non può evitare di mostrarti il pugno interiore prima di quello esteriore.

Scavando oltre troviamo la poesia. È raro, ma eccitante: l’accostamento tra gesto atletico e parola compressa, sapida. In una poesia pugni e versi si confondono, l’epica apostrofata, l’appello col pugno chiuso. Spesso è attivismo: resistenza culturale, commemorazione, esaltazione delle radici di quartiere o appartenenza collettiva. La poesia racconta la boxe di nessuno: quella piccola, anonima, clandestina, quella che nessun occhio vede – eppure è la vera palestra della sopravvivenza, il metaforico ring della vita.

La musica, dicevamo, fa vibrare il concetto di round. Il versetto rap diventa serie di ganci verbali: anticipa il tempo, accende la tensione, scandisce la ripetizione rituale. Il ritornello diventa il gong e l’urlo del pubblico. Non c’è arbitro, ma una platea di cuffie, casse d’auto, locali, chiesette. Il beat accelera, rallenta: si lima la ferita emotiva come un singolo colpo ben piazzato. Il rapper non boxa un avversario ma una condizione – povertà, razzismo, pregiudizio, depressione – e se vince porta tanto pubblico quanto un nockout, ma su un cielo sonoro.

E poi ci sono i documentari, ibridi tra cronaca, storia e poesia visiva: come “When We Were Kings” (1996) su Ali‐Frazier a Zaire 1974, oppure “Tyson” (2008), “Facing Ali” (2009). Qui il pugilato reale viene mostrato come evento storico e culturale. Le immagini d’archivio – dietro le transenne, i servizi tv, gli slogan politici – ricuciono inquadrature intime e pubbliche: d’un pre-fight in bianco e nero, e poi d’un ring pieno di speranza. L’alternanza di interviste a testimoni, audio originali, reproduzioni, suoni ambientali, tutto concorre a rendere la boxe pacchetto di civiltà: razzismo, potere, spettacolo, dissenso, autobiografia di massa. Nulla è inventato ma il ritmo e la composizione sono poeticizzanti. Non importa se il realismo si carica di significazione, perché la macchina del documentario non sposta – raccoglie, struttura, sottolinea.

Un altro linguaggio è quello del fumetto – Martin di Belardinelli, Nolitta, Battaglia, Bilal o Quinn della Marvel – quando raccontano pugili reali o immaginari. Le vignette assumono gesti multipli in un unico fotogramma, è come se il pugno venisse mostrato nel suo passaggio grafico. Il ritmo è scansione visiva e testuale, la voce fuori campo puo’ dissertare sull’aritmetica dei colpi, sullo stato d’animo, sul significato allegorico di una guardiola abbandonata. C’è una fisicità del tratto – sanguigna, scabra, plastica – che amplifica la densità del movimento. Le tavole in un silenzio sospeso diventano ganci, controganci, doping alla fantasia.

Non va infine dimenticato il videogame. Nei giochi come “Fight Night” EA o “Punch-Out!!” Nintendo, il pugilato diventa interattivo: guanti, comandi, mano che vibra via controller. Il giocatore non è spettatore ma protagonista. Il ring è gamificato: routine di mosse, tattiche schematiche, sfida tra abilità e riflesso, ma anche gestione dell’endurance. I pixel tracciano traiettorie; i padosempre mezzo tra immersività e astrazione. La resa visiva dipende da motori fisici e script. Non c’è sangue reale, spesso sfuma, ma la soddisfazione – soprattutto quando ti rialzi a metà round – è psicologicamente simile a quella del pugile reale: ha scarto, fatica, pacing. Vedere la barra stamina scendere sullo schermo evoca una tensione vagamente corporea. La differenza è che sanno premere reset, save, rewind. Ma la simulazione rimane mediatica.

Se guardiamo in attorno, scopriamo che il pugilato è anche fenomeno socio-politico: sostegno di cause, protesta, resistenza, identità razziale. Muhammad Ali si fece simbolo di antirazzismo, obbiettore di coscienza, anti guerra; Rocky fu specchio della classe operaia, dell’America di provincia; il pugile clandestino è simbolo di sviluppo urbano, povertà, migrazione. Il racconto artistico non può ignorare tutto questo perché la narrazione – in ogni forma – media significati culturali profondi. Un film come “Ali” di Michael Mann non conta solo le scazzottate, ma rende Ali uomo di scienza politica, personalità pubblica, cultura hip‑hop, icona globale, dettaglio familiare, protesta. La vita reale e la fiction dialogano, si influenzano: se Nesbø raccontasse Ali, coinvolgerebbe agenti, servizi segreti, intimidazioni; se Spielberg dirigesse un biopic su un ex combattente di strada oggi, aggiungerebbe trade-union, tecnologia, distanza generazionale.

Torniamo però al confronto stretto tra pugilato reale e finzione. Il corpo del pugile vero ha anatomia, funzionamento cardio‑respiratorio, tessuti lesi, cicatrici, pelle che si spacca. La telecamera ne restituisce l’effetto esteriore: contusione, labbro sanguinante, luce traslucida che divide la fronte. Il cinema ricrea l’illusione: usa protesi, sangue artificiale, montaggio e suono sdoppiato. Tutto funziona come se fosse reale, ma non lo è: il regista decide cosa mostrare, in quale istante, con quale ritmo. Il telefilm alterna realismo e faciloneria; la letteratura entra nei pensieri; la musica nel pugno simbolico. Quella che importa è la percezione emotiva dello spettatore o del lettore, non la misurazione fisica del danno.

Il pugile reale conosce la paura del destino, dell’incantesimo del colpo che ti toglie la vista, della commozione cerebrale. La finzione gioca con questi limiti e li drammatizza, li fa scorrere come elementi tragici. Può scegliere di esaltarli o di smorzare: “Creed” li smorza, “Raging Bull” li esalta, “Million Dollar Baby” esplode la tragedia. In letteratura un colpo diventa incendio, apocalisse, metafora di rimorso. Nella lirica, tocco divino. Il rap lo nomina vocazionale. Ogni opera sceglie un prisma.

Il pubblico vuole verità (anche se filtrata), spettacolo, riflessione. Cercare la verità nell’immagine o nella pagina vuol dire sospendere la menzogna – la messa in scena – ma accettarla come intermediazione. Penso a ogni incontro visto dal vivo, confrontato con un film di boxe: la differenza non sta nel rischio (reale o simulato), ma nell’adrenalina fisica di respirare dentro un’arena, con il cuore pronto a lampi; mentre in un film l’adrenalina è costruita, ritmica, ma non ti classifica come pugile, ti posiziona come spettatore. Perché il cinema non ti butta giù: ti ridà la sedia. Il pugilato reale sì – o forse ti rimedia la sedia all’ultimo; ti lascia lì, senza recupero, con il cuscinetto fatto di ghiaccio e punti di sutura.

Le stesse differenze si manifestano nel documentario, dove il ricorso al reale è totale, ma lo sguardo può unirsi alla voce di un testimone, può osservare l’occhio rivolto al presente. Qui la boxe è situazione materiale – palestra, corda, suolo, solco –, ma è anche moto storico e memoria. Il manipolatore delle immagini non fa blocco tra estetica e sguardo: è incrocio politecnico. Quando guardi “When We Were Kings”, vedi Zaire e senti la voce di Don King; il racconto politico di Ali; la gente che applaude e che ride. Il grosso è reale, applastante. La poetica risiede solo nello sguardo che mette in serie, che scelta fa di una sequenza d’archivio, che usa collage-sovrimpressioni, distorsioni sonore, silenzi, pause: tutto per restituire la presenza di un mondo, non una finzione.

Permane poi nella boxe letteraria, filmica, televisiva, l’ambizione di “narrarla tutta”. Ma nessuno può farlo completamente: il pugilato è un profondo oceano di storie, di incrostazioni culturali, individuali, politiche, biografiche. Il racconto – in qualunque forma – deve scegliere un segmento: la giovinezza, la caduta, il ritorno, la famiglia, la malattia, l’abuso. Il pattern è spesso lo stesso: ‘garantire ascesa – riscatto – epifania – caduta – redenzione o tragedia.’ Cambiano gli strumenti: cinema concettuale, romanzo interiorizzato, telefilm generazionale, canzone-ritornello, documentario d’inchiesta. Ogni medium dà una lettura, ogni mezzo amplifica un aspetto.

Temporalità: reale è scandito dal cronometro e dalla stanchezza. Telefilm allunga, intensifica, diluisce; cinema comprime, accelera, rallenta; letteratura dilata interiormente; musica trasforma in loop emotivo; documentario estende storie; videogame permette replay e controllo.

Fisicità: reale possiede carne, dolore, rischio; cinema ne replica estetizzato; letteratura lo evoca; video lo simula; musica lo simbolizza; teatro lo trasforma in dramma.

Significato: reale è incontro-scontro-fisico; fiction è metafora – lotta contro se stessi, contro il destino, contro il sistema; narrazione è esilio, famiglia, politica, identità.

Identità e funzione: il pugile vero è atleta, artigiano, a volte povero, diaspora di vita; nel film diventa icona o arché; in serie, base di analisi umana; in romanzo, specchio introspettivo; in canzone, archetipo di resilienza; in teatro, simbolo di rivolta; in fumetto, ibrido tra corpo e tratto; nei videogiochi, avatar di controllo e riscatto.

Effetto sul pubblico: reale commuove e colpisce; cinema seduce e commuove; serie fidelizza; letteratura fa riflettere; musica incanta, solleva gli animi; documentario educa e mostra; videogame intrattiene e coinvolge.

Lasciare chi ha visto fight notte con pathos è diversa cosa dal raccontarlo a parole o su schermo; ed ogni volta la forbice cambia. Viene da chiedersi: il film di boxe esalta la soglia emotiva ma non ti espone al rischio fisico – sei a un passo dal combattimento vero, ma nessuno ti sbatterà contro il ring; il libro ti regala la potenza dell’immaginazione e del pensiero, ma non il contatto istantaneo; la serie ti lega per stagioni; il documentario ti educa. Nessuno di questi media può eguagliare il pugilato reale nella percezione corporea – ma tutti possono costruire una forma di verità emotiva, culturale, intellettuale, che arricchisce la nostra esperienza di spettatori/lettori/ascoltatori.

Ecco perché ogni volta che guardiamo un film pugilistico, dovrebbe passare la voglia di salire sul ring – anche se ci sentiamo invincibili –, perché sappiamo che il rischio è vero là fuori. Ma quel film può aprirci alla comprensione dell’anima umana: dove finisce il corpo, comincia la storia. Le storie di pugilato – in tutte le loro forme – sono storie di umanità. Nessuna vacua esaltazione muscolare, ma riverbero di ferite, di speranza, di appartenenza. E nel guardarle, leggendo, ascoltando, pensando, partecipiamo a un movimento che supera le corde del ring e si allarga verso una coscienza condivisa: quella che ci dice che la lotta, in fondo, è di tutti.

©Danilo Pette

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