
Revocare i Permessi della Legge 104 ?
Scritto da Danilo Pette il . Pubblicato in Attualità.
a cura di Danilo Pette
Il diritto all’assistenza familiare e i permessi Legge 104; la sentenza della Cassazione n. 23185 tra tutela e abuso. Quando l’onere della prova pesa sul datore di lavoro e l’assistenza non coincide necessariamente con l’orario lavorativo, interpretazioni giurisprudenziali a confronto
La vicenda giudiziaria relativa alla sentenza n. 23185 della Corte di Cassazione rappresenta uno snodo interpretativo cruciale nel dibattito ormai consolidato sul corretto utilizzo dei permessi ex Legge 104. Le tensioni tra datori di lavoro e lavoratori si fanno sempre più evidenti laddove la disciplina giuridica lascia spazi interpretativi, e dove l’esercizio di un diritto soggettivo – quello all’assistenza familiare – incontra le esigenze organizzative e produttive dell’impresa. Il bilanciamento tra questi due poli, nonché il rispetto della dignità della persona fragile che motiva il beneficio normativo, rappresentano una delle sfide pedagogico-sanitarie più sensibili in ambito lavorativo.
Non può sfuggire, infatti, che dietro ogni permesso richiesto ai sensi dell’articolo 33 della legge 104/1992, si cela una realtà concreta di fragilità: una madre, un padre, un coniuge, un figlio in condizioni di disabilità grave, la cui quotidianità è scandita da bisogni sanitari, terapeutici, affettivi e assistenziali non sempre visibili o misurabili secondo logiche lineari. Eppure, proprio per questo, il legislatore ha previsto l’istituto dei permessi retribuiti, come strumento non solo di conciliazione tra vita e lavoro, ma anche di tutela della solidarietà familiare, della responsabilità affettiva e della dignità dell’assistito. In quest’ottica, ogni intervento giurisprudenziale che ne delinea i contorni applicativi, come nel caso di specie, assume un valore non solo normativo, ma anche educativo, sociale e umano.
Il caso che ha portato alla pronuncia della Cassazione ha visto protagonista un lavoratore licenziato in tronco per supposto abuso dei permessi 104. L’azienda, avvalendosi di un’agenzia investigativa, ha raccolto elementi ritenuti indiziari del mancato esercizio della funzione assistenziale durante due dei tre giorni di permesso fruiti dal dipendente. L’osservazione esterna avrebbe documentato, infatti, che nelle ore mattutine – quelle che sarebbero state coperte dall’orario di lavoro – l’uomo si fosse recato al mare in compagnia del figlio, anziché prestare assistenza al familiare indicato nella richiesta. L’interpretazione unilaterale di questi comportamenti ha condotto il datore alla sanzione espulsiva, giustificata da una presunta infedeltà e da una violazione dei doveri di correttezza e buona fede.
Tuttavia, è l’analisi del quadro probatorio a modificare sensibilmente la direzione dell’intera vicenda. In primo grado, il giudice ha aderito alla lettura dell’azienda, considerando sufficiente l’assenza di assistenza documentata nelle ore mattutine. Ma è nel giudizio d’appello che emerge una valutazione profondamente diversa, che si fonda sull’effettiva completezza dell’attività investigativa, sulla natura dell’assistenza richiesta e sulle dichiarazioni testimoniali prodotte dal lavoratore.
Ed è qui che la Corte d’Appello, e successivamente la Suprema Corte, individuano un elemento dirimente: l’onere della prova, in materia di abuso dei permessi ex art. 33 L. 104/92, grava sul datore di lavoro. Non basta un’attività indiziaria o una valutazione parziale dei comportamenti; è necessaria una prova piena, univoca e articolata, che dimostri l’assenza totale di attività assistenziale nell’arco temporale della giornata, o comunque l’incompatibilità delle attività svolte con la finalità del permesso.
Ecco quindi che la dimensione temporale dell’assistenza diventa un nodo concettuale e giuridico. Non esiste nella norma alcuna prescrizione secondo la quale la prestazione assistenziale debba coincidere esattamente con l’orario lavorativo oggetto di permesso. Questa visione, rigida e funzionalista, non tiene conto della realtà sanitaria, né delle specifiche condizioni della persona con disabilità. In particolare, nella sentenza 23185, si chiarisce che l’assistenza può e deve essere modulata in base alle esigenze dell’assistito, che potrebbero emergere nelle ore notturne, nei momenti di maggiore difficoltà, o in situazioni che esulano dall’ordinaria logica produttiva del lavoro salariato.
Nel caso esaminato, il lavoratore ha fornito prova documentale e testimoniale di avere prestato assistenza alla madre durante le ore serali e notturne. Il fatto che nelle ore mattutine abbia trascorso del tempo con il figlio – pur nel contesto di giorni di permesso – non costituisce, in sé, una violazione della finalità della legge, a condizione che l’assistenza non venga elusa. E su questo punto, la Corte è categorica: non è richiesto che l’assistenza sanitaria sia svolta esclusivamente o contestualmente all’orario di lavoro, né che essa sia totale o continuativa per 24 ore. Ciò che è richiesto è che l’assenza dal lavoro sia finalizzata – in modo effettivo e non simulato – alla cura del familiare disabile.
Questo principio apre un’importante riflessione sul significato dell’assistenza e sull’idea di cura. In un sistema che tende a misurare il valore del tempo in funzione della produttività, il tempo della cura rischia di diventare invisibile, relegato a margine, o peggio, sospettato. Ma il tempo dell’assistenza familiare è un tempo qualitativo, spesso frammentato, organizzato intorno a bisogni imprevedibili, notturni, affettivi, medici. L’educatore sanitario sa bene che la malattia e la disabilità non seguono l’orario d’ufficio, e che la presenza di un familiare può essere determinante in momenti non programmabili: una crisi respiratoria notturna, una caduta, una fase di delirio senile, un bisogno di compagnia per gestire l’ansia. Tutto questo sfugge alla logica del badge e delle telecamere investigative, ma è lì che si manifesta il senso autentico del permesso 104.
L’uso distorto di questi strumenti, per finalità diverse, rappresenta certamente un abuso da contrastare. Ma la presunzione d’abuso non può diventare automatica. Il sospetto non può sostituire la prova. In questo equilibrio sottile, si gioca la fiducia tra lavoratore e datore, ma anche la tenuta del sistema valoriale che giustifica l’esistenza stessa del diritto all’assistenza.
La Cassazione, dunque, non fa che ribadire un principio già presente in altre pronunce, ma qui espresso con particolare chiarezza: la legittimità dell’uso del permesso non è condizionata alla coincidenza tra orario lavorativo e orario dell’assistenza. Il diritto soggettivo del lavoratore di assistere un familiare disabile grave, in quanto diritto fondamentale, non può essere compresso da limiti orari arbitrari, né subordinato a una interpretazione rigida e burocratica delle modalità di fruizione. È sufficiente che l’assistenza sia effettiva, coerente con la diagnosi medica, e realizzata nei tempi compatibili con le esigenze dell’assistito.
A fronte di questo, si rafforza anche il profilo pedagogico della responsabilità. Il lavoratore beneficiario dei permessi deve essere consapevole del valore del diritto che gli è riconosciuto: non si tratta di un privilegio, ma di un impegno relazionale, morale e sanitario. Le finalità dei permessi devono essere onorate, non eluse. E proprio questa consapevolezza è, o dovrebbe essere, alla base della formazione etica del personale, della cultura organizzativa aziendale e della costruzione di ambienti di lavoro realmente inclusivi e responsabili.
Si chiarisce altresì che l’investigazione privata non può sostituire l’onere probatorio pieno. Le agenzie investigative possono essere uno strumento, ma non possono fornire evidenze frammentarie o estrapolate da un contesto più ampio. Nel caso in esame, la stessa relazione investigativa non è stata depositata in giudizio, e ciò ha inciso ulteriormente sull’impossibilità di costruire una prova robusta da parte del datore. La parzialità degli orari osservati (solo fino alle 19) e l’assenza di elementi circa la restante parte della giornata ha lasciato spazio alla ricostruzione alternativa del dipendente, fondata su dati reali, testimonianze e documentazione sanitaria.
Si tratta dunque di una sentenza che tutela i lavoratori, ma non solo: tutela le persone fragili che quei lavoratori assistono. È una sentenza che ricorda a tutti gli operatori del diritto, della sanità e dell’educazione che non si può confondere la flessibilità dell’assistenza con l’abuso del diritto. La cura ha tempi, modalità e intensità che spesso sfuggono alla logica della produttività, ma che sono pienamente riconosciute nel diritto e nella pedagogia della fragilità.
Nella prassi, questa sentenza invita le aziende ad agire con cautela e rispetto. L’utilizzo dei permessi 104 deve essere monitorato, certo, ma anche accompagnato da una cultura della fiducia, da un dialogo tra le parti, da una valutazione complessiva delle situazioni. Automatismi sanzionatori, rigide interpretazioni temporali, sospetti pregiudiziali non fanno altro che alimentare il contenzioso, senza generare miglioramenti reali nell’organizzazione del lavoro o nella tutela dell’efficienza.
Per chi opera nei servizi educativi e sanitari, la decisione della Cassazione è un richiamo a una visione integrata della persona e del suo contesto familiare. Il diritto alla cura non può essere sottomesso a logiche univoche, né giudicato secondo metriche lineari. Ogni assistenza familiare è un mondo a sé, con le sue urgenze, i suoi spazi, le sue notti insonni. E non si può ridurre questo universo a un orario timbrato o a un’assenza registrata.
La legittimità dell’uso del permesso si gioca sulla finalità: se l’obiettivo è realmente l’assistenza, se il tempo è speso in funzione del benessere del familiare, se c’è coerenza tra la patologia e il tipo di aiuto offerto, allora il diritto è pienamente esercitato. Il resto sono pregiudizi, sovrastrutture e, spesso, errori interpretativi.
La sentenza n. 23185 conferma la necessità di un approccio interpretativo che tenga conto della realtà concreta dell’assistenza, della variabilità delle condizioni cliniche, della libertà organizzativa del lavoratore e, soprattutto, della centralità della persona fragile. È qui che la legge, la pedagogia e la giurisprudenza si incontrano: nel riconoscere che l’umano non è sempre misurabile, ma è sempre tutelabile.