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Ucraina il suo grano

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

a cura Agostino Agamben

Tra blocchi navali, l’ombra lunga della mediazione non riuscita, Bio-geo-politiche e politica della vita, la crisi ucraina rivela le tensioni di un mondo in bilico tra pace fragile e conflitto pervasivo

La Russia ha ritirato la propria adesione all’accordo sul grano nel mese di luglio, chiudendo così i porti ucraini che da mesi garantivano l’esportazione sicura del raccolto attraverso il Mar Nero. Questo ritiro non si limita a un mero atto diplomatico o logistico; è un gesto che svela qualcosa di più profondo, di più radicale nella natura stessa del conflitto che scuote l’Europa e, in senso più ampio, il mondo intero. Il grano, prodotto naturale, bene primario, diviene così un nodo politico, un punto di incrocio tra la guerra e la vita quotidiana, tra la sopravvivenza e il potere.

In questa trama intricata si inserisce la figura di Erdoğan, che assume il ruolo di mediatore, un ponte sospeso tra Mosca e Kiev, tra Oriente e Occidente, tra la guerra e la pace ancora da venire. Il suo impegno riflette la complessità di un’epoca in cui ogni tentativo di negoziazione appare al tempo stesso necessario e insufficiente, segnato dal peso delle richieste russe: il collegamento della Banca russa dell’Agricoltura al sistema Swift e la questione delle assicurazioni per le navi. Dietro queste richieste si nasconde l’essenza stessa del conflitto, un conflitto che si gioca non solo sul campo di battaglia ma anche nelle pieghe sottili dell’economia globale e delle infrastrutture finanziarie.

Il blocco dei porti marittimi ucraini, dopo la fine dell’accordo mediato dalle Nazioni Unite e dalla Turchia, rappresenta una ferita aperta nell’ordine internazionale. Le parole di Charles Michel denunciano questo atto come «scandaloso», come una rottura non solo politica, ma anche morale. Il conflitto si dispiega così in una dimensione che trascende la guerra militare e investe la sovranità del diritto e la possibilità stessa della convivenza. La solidarietà europea con Kiev appare come una risposta immediata, una riaffermazione di un ordine condiviso, ma è al tempo stesso una fragilità esposta, un gesto che tenta di coprire una crepa profonda in un edificio sempre più instabile.

Janet Yellen, in vista del G20, ci ricorda che la guerra ha un peso tangibile e devastante sull’economia globale, alimentando l’inflazione e l’incertezza. La guerra diventa una presenza materiale, un fattore destabilizzante che incide sul quotidiano di miliardi di persone, al di là dei confini del campo di battaglia. La sua forza è quella di un’invisibile gravità che altera il ritmo stesso della crescita mondiale. Eppure, questa stessa gravità rivela la precarietà dei sistemi economici contemporanei, la loro dipendenza da un equilibrio che la guerra infrange e che sembra difficile da ricostruire.

Il viaggio del vicepremier cinese Zhang Guoqing a Vladivostok, in occasione del Forum Economico Orientale, segna un ulteriore spostamento degli equilibri geopolitici. Le delegazioni provenienti da paesi come Bielorussia, India, Corea del Nord e altri indicano un Eurasia che si configura come un mosaico di alleanze complesse e spesso contraddittorie. In questo contesto, la guerra in Ucraina è al tempo stesso un conflitto regionale e un laboratorio delle tensioni globali. La dialettica tra cooperazione e conflitto, tra pace dichiarata e guerra reale, attraversa l’intero scenario, ponendo domande radicali sulle possibilità di una nuova architettura mondiale.

Gli Stati Uniti confermano il loro sostegno militare con un nuovo pacchetto da 600 milioni di dollari, in un susseguirsi di aiuti che sembrano rispondere non solo a una necessità militare, ma anche a una strategia politica più ampia. L’introduzione delle munizioni all’uranio impoverito, oggetto di controversie per il loro impatto ambientale e sanitario, apre uno spazio di riflessione sulle modalità e sulle conseguenze della guerra contemporanea. Qui la violenza si trasforma in un dispositivo tecnologico e ambientale che supera il semplice confronto militare per investire territori e corpi in maniera profonda e duratura.

Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, racconta di una guerra fatta di avanzate graduali, di centinaia di metri guadagnati ogni giorno. Questa narrazione mette in luce il carattere dinamico e mutevole del conflitto, ma anche il prezzo di una guerra che si consuma lentamente, lasciando spazio a trasformazioni profonde nelle forze in campo. L’esercito russo, un tempo secondo più forte al mondo, si ritrova ora a confrontarsi con una realtà che ne mette in discussione l’egemonia e la capacità di resistenza.

La solidarietà europea con l’Ucraina si esprime anche attraverso l’impegno finanziario: i 50 miliardi di euro in sovvenzioni e prestiti previsti tra il 2024 e il 2027 sono una misura di responsabilità ma anche un investimento politico che cerca di sostenere una nazione in guerra. Questo atto finanziario si inserisce in una dialettica tra unità e divisione, tra volontà di coesione e tensioni interne, e rappresenta una sfida per l’Europa nel definire il proprio ruolo in un mondo in trasformazione.

Nel frattempo, la guerra colpisce i civili in modo brutale e quotidiano. Gli attacchi russi in diverse regioni dell’Ucraina causano vittime e feriti, trasformando il paesaggio umano in un mosaico di dolore e resistenza. La guerra non è solo strategia e geopolitica, ma esperienza concreta di vite che si spezzano, di comunità che cercano di sopravvivere in mezzo al caos.

Un aspetto ancora più oscuro emerge con il reclutamento illegale di cittadini cubani per combattere in Ucraina al fianco delle forze russe. Questa rete, smantellata dall’Avana, mostra come la guerra si estenda oltre i confini tradizionali, trasformandosi in un fenomeno globale che penetra nelle società più lontane, che trasforma gli individui in pedine di un conflitto la cui portata travalica la mera geografia.

Questo insieme di fatti, gesti e riflessioni compone un quadro complesso e inquietante. La guerra in Ucraina non è soltanto una crisi regionale, ma una manifestazione della crisi globale in cui siamo immersi: crisi del diritto, della sovranità, della convivenza e della possibilità stessa di un ordine pacifico. E forse è in questo spazio di tensione e sospensione che si apre la domanda più urgente: come pensare la pace in un tempo in cui la guerra sembra aver assunto una nuova e più pervasiva forma?

La realtà si mostra come un fluire continuo di eventi e azioni, di parole e silenzi, dove ogni tentativo di mediazione si scontra con la durezza della realtà e con la persistente logica del potere. In questo fluire, il pensiero si fa strumento di resistenza, tentativo di comprendere ciò che accade senza ridurlo a semplificazioni, senza smarrire la complessità che ogni guerra porta con sé.

Nel cuore di questa crisi si insinua la figura del «potere sovrano» che decide chi può vivere e chi deve morire, chi può attraversare il mare e chi invece è condannato a restare intrappolato sulle sponde. Il blocco dei porti ucraini diviene così una forma di «biopotere» che trasforma la materia stessa della vita in un campo di battaglia. La guerra si fa non solo violenza fisica, ma anche controllo e gestione della vita stessa, in una forma che Agamben avrebbe riconosciuto come paradigmatica del nostro tempo.

La sovranità si esprime dunque nella capacità di sospendere la legge, di creare uno stato di eccezione permanente in cui il diritto è sospeso in nome della sicurezza e della strategia. Questo stato di eccezione si estende oltre i confini nazionali, si fa globale e pervasivo, condizionando le vite non solo di chi combatte direttamente, ma di tutti coloro che sono coinvolti, anche indirettamente, nel conflitto.

La negoziazione e la mediazione diventano allora un tentativo di ristabilire un ordine, un equilibrio che però appare sempre precario e fragile. La mediazione di Erdoğan, così come l’intervento delle Nazioni Unite, sono segnali di questa ricerca disperata di un senso e di una via d’uscita, ma al tempo stesso riflettono le contraddizioni e le difficoltà di un sistema internazionale in crisi.

Il conflitto ucraino rivela infine la complessità di un mondo in cui le antiche divisioni si mescolano a nuove forme di interdipendenza e di conflitto, un mondo in cui la pace e la guerra non sono più opposti netti, ma si intrecciano in modi imprevedibili e spesso contraddittori.

È in questo intreccio che si apre lo spazio per una riflessione profonda, per una meditazione che non si accontenti delle risposte facili, ma che cerchi di cogliere la profondità e la complessità della realtà contemporanea. La pace, se sarà mai possibile, dovrà nascere da questa consapevolezza, da questo sforzo di pensiero e di resistenza.

 

©®foto di A.P. Paniccia

 

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