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L’economia dell’impossibile

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

a cura Agostino Agamben

Appunti sulla manovra 2024, il ponte sullo Stretto e la dissoluzione del politico nella gestione contabile del presente, aiuti per pensioni e famiglia, ma mancano i fondi

Non è il contenuto esplicito della manovra, né il suo apparato tecnico, né il linguaggio della legge finanziaria che qui interessa. È piuttosto la sua forma di apparizione, ciò che essa rende possibile pensare oltre se stessa, come sintomo. Quando una manovra economica – esercizio par excellence della sovranità moderna – si presenta innanzitutto come mancanza, come qualcosa che non ha, che non possiede risorse sufficienti per darsi, allora ciò che essa espone non è la scarsità, ma l’impossibilità.

L’impossibilità di fondare il politico nel giuridico, l’economico nel numerico, la comunità nella redistribuzione. È l’architettura stessa della forma-Stato che vacilla in questa soglia.

Ogni legge di bilancio presuppone, per essere tale, una certa capacità di legittimazione simbolica del potere: la possibilità, cioè, che il comando politico si traduca in allocazione di risorse. Ma se la prima dichiarazione è l’assenza di fondi – ovvero il venir meno della sostanza stessa che permette al comando di essere tale – ciò che resta è una forma vuota, un’autorità che si attua proprio nella sua inattuabilità.

Un’economia che governa attraverso il deficit, che autorizza se stessa solo nella misura in cui già deroga alla propria regola, ci costringe a ripensare non tanto la “crisi economica”, quanto piuttosto il concetto stesso di economia. Non è più la casa – oikos – che regge la polis, ma un apparato contabile che vive di eccezioni sistematiche.

L’assegno unico, il taglio del cuneo fiscale, il bonus Irpef per le famiglie numerose – queste misure, pur nella loro apparente funzione redistributiva, non fanno che confermare il paradosso di uno Stato che interviene non per garantire diritti, ma per tamponare una serie di mancanze che esso stesso ha prodotto o lasciato proliferare. L’intervento pubblico diventa così una parodia del welfare: non un sistema, ma una serie di dispositivi a tempo, messi in atto per neutralizzare, per un attimo, ciò che altrimenti emergerebbe nella sua nudità – la povertà come destino strutturale della nuova forma di cittadinanza.

Perché oggi, essere cittadini, sembra significare essere in attesa: di un sussidio, di una pensione minima, di un bonus per l’elettrodomestico, di uno sconto sull’energia. La cittadinanza si è fatta condizione di bisogno. La vita nuda dell’economia non coincide più con quella dei migranti nei centri di accoglienza, ma con il pensionato, la madre lavoratrice, il precario con contratto intermittente.

Il passaggio da quattro a tre aliquote Irpef – così tecnicamente descritto dai documenti – non è soltanto una questione fiscale. È una ristrutturazione simbolica della scala sociale. Quando si schiaccia la tassazione sul primo scaglione, non si distribuisce equità, ma si istituisce un nuovo ordine delle soglie, in cui la classe media si confonde con la povertà, e la ricchezza non ha più nome perché diventa invisibile, irrilevante al prelievo.

In questo slittamento delle soglie – come nei testi giuridici antichi, dove bastava una parola per spostare la vita dalla zona del diritto a quella dell’eccezione – si disegna una nuova forma di governo: quella in cui il governo stesso non decide più, ma gestisce, amministra, calcola. E se la politica abdica al calcolo, allora il calcolo diventa la forma ultima della politica. È ciò che Foucault aveva visto, parlando del neoliberalismo non come ideologia, ma come razionalità governamentale: un modo di far vivere e lasciar morire, non più attraverso la decisione sovrana, ma attraverso i dispositivi.

La proroga di Quota 103, il Bonus Maroni, il reintegro dei contributi come incentivo alla permanenza nel lavoro: non sono solo misure di previdenza. Sono atti attraverso cui si tenta di trattenere il soggetto nel ciclo produttivo, spingendolo a ritardare il suo congedo. Il lavoro – già da tempo non più fonte di realizzazione personale, ma di sopravvivenza – diventa qui forma di resistenza politica. L’operaio, il dipendente, il tecnico che non va in pensione è colui che resiste, non più in nome di un progetto comune, ma per garantire la sostenibilità contabile di un sistema che lo include solo nella misura in cui resta produttivo.

Così la pensione, che un tempo segnava la soglia del riposo, si è trasformata in una minaccia: ciò da cui si viene dissuasi, perché troppo onerosa, troppo difficile da raggiungere. Non è più il riconoscimento del tempo donato al lavoro, ma una concessione condizionata, sempre revocabile.

Il ponte sullo Stretto – evento simbolico per eccellenza, gesto infrastrutturale che si pretende epocale – non si oppone a questa logica, ma ne rappresenta la versione monumentale. L’assenza di fondi per le famiglie, le pensioni, la scuola, la sanità, convive perfettamente con l’annuncio trionfale di un’opera dal costo incalcolabile. L’infrastruttura diventa sacrificio: un’opera che si fa perché non si può fare altro, perché la sua inattuabilità stessa la rende necessaria. L’economia dell’impossibile diventa qui tecnica del miraggio.

Un ponte tra ciò che non c’è: tra due coste disconnesse non solo geograficamente, ma simbolicamente. Tra una Sicilia privata delle sue reti interne e una Calabria abbandonata alla gestione emergenziale. Non si collega, dunque, ciò che è già unito; si istituisce una relazione là dove la realtà impone distanza. Il ponte, come ogni gesto prometeico, ha valore non perché unisce, ma perché dichiara di voler unire ciò che il reale tiene separato.

Ma ciò che resta, infine, è l’opera come monumento alla crisi del presente. Un monumento che non celebra, ma ricorda ciò che non si è stati in grado di compiere: la riforma della fiscalità, la redistribuzione della ricchezza, la costruzione di un’economia che non sia solo contabilità delle emergenze.

È qui che la manovra 2024 si rivela, non per ciò che promette, ma per ciò che silenziosamente rimuove. Non si tratta soltanto di ciò che viene detto – gli aiuti, i bonus, gli incentivi – ma di ciò che viene taciuto: la cancellazione di ogni visione sistemica, l’assenza di una politica dell’essere. L’intero impianto si regge su provvisorietà e deroga, su interventi a termine che, lungi dal rispondere all’eccezione, la rendono norma.

Nell’assenza di una fondazione, ogni decisione è decisione senza fondamento, ogni manovra è gesto che non decide. L’urgenza economica si trasforma così in una sospensione permanente: un presente che non riesce a darsi futuro, un potere che non riesce a governare se non attraverso il differimento.

È in questa sospensione – in questo tempo che non è ancora quello della crisi, ma che non è più quello della stabilità – che si delinea la forma del nuovo governare. Non la costruzione del futuro, ma la sua gestione. Non il progetto, ma la curatela.

E il cittadino – non più soggetto politico, ma utente di un sistema di bonus – si ritrova non incluso, ma contenuto, gestito, calcolato, riconosciuto solo nella misura in cui produce o consuma.

Questa è la soglia in cui ci troviamo: un’economia che vive del suo stesso disavanzo, una politica che esercita il potere rinviandolo, una legge che si attua nel suo non potersi attuare.

Eppure, è proprio in questo vuoto, in questa zona d’indecidibilità, che si apre la possibilità di un pensiero altro. Non una nuova manovra, ma una nuova ars politica. Una pratica che non sia più quella della gestione dell’emergenza, ma della costruzione del comune.

Non il calcolo dei bonus, ma la ridefinizione del valore. Non un ponte, ma un legame.

Una comunità che non attenda soltanto, ma interroghi – radicalmente – le condizioni stesse della propria sopravvivenza.

 

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