CO.NE.PRO. e la Sfida del Rinnovamento
Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in Attualità.
a cura Agostino Agamben
Riflessioni sulla recente competizione di CO.NE.PRO., il valore della partecipazione attiva, e la necessità di un coinvolgimento dal basso per costruire un futuro di formazione continua, responsabilità condivisa e rinnovamento istituzionale
C’è un tempo in cui il gesto si separa dall’intenzione che l’ha generato, e un altro in cui, nel compiersi di un atto collettivo, l’intenzione stessa si rifrange in mille volti, mille decisioni, mille silenzi. Il momento elettorale appena trascorso non è soltanto una consultazione, una somma aritmetica di voti, ma piuttosto una forma di apparizione, un kairos nel quale la comunità professionale si espone a sé stessa, si guarda – forse per un istante – nel proprio potenziale inespresso, nella propria possibilità.
Il dato che chiamiamo affluenza, che registriamo come aumento della partecipazione, non è solo un indice tecnico, un successo organizzativo. È, più radicalmente, il segno di una soglia oltre la quale il corpo collettivo inizia a riconoscersi. Ma riconoscersi, lo sappiamo, non significa ancora essere. Significa forse, per ora, soltanto sospendere l’inerzia, interrompere l’anonimato dell’appartenenza passiva.
CO.NE.PRO. ha proposto questa apertura – questa soglia – attraverso una chiamata al voto che non si è limitata al dispositivo tecnico del remoto, ma ha, forse per la prima volta in modo evidente, mostrato come la tecnica possa essere reinvestita eticamente: non come distanza, ma come forma nuova di prossimità. Non tutti hanno risposto, non tutti hanno colto il tempo che si è aperto. Ma la comunità non si misura solo nella somma dei presenti: si riconosce anche nell’assenza, nella mancata risposta, nel voto non espresso che pesa – e forse più profondamente – come ciò che ancora manca, come ciò che non è stato ancora detto.
Chi non partecipa, tuttavia, non è fuori dal corpo. Il corpo collettivo non si costituisce per esclusione, ma per tensione: l’inerzia di chi non vota interroga chi invece ha scelto, sollecita chi lavora perché la professione sia un luogo di senso, e non solo di regole.
In questo senso, l’affluenza – anche parziale – non è una vittoria, ma un inizio. Il compito non è concluso, ma aperto: perché ciò che una votazione può dischiudere non è un risultato, bensì una responsabilità.
La responsabilità di restituire alla professione ciò che le è stato sottratto lentamente – talvolta impercettibilmente – nel tempo: la sua vocazione originaria, la sua verità pratica, la sua forma comunitaria.
Ecco perché parlare oggi di coinvolgimento dal basso non può ridursi a uno slogan o a una strategia comunicativa. Il basso non è qui una semplice posizione sociale o funzionale. È piuttosto ciò che nella professione resta ancora in potenza: non organizzato, non raccolto, non disciplinato. È l’elemento anarchico della comunità, ciò che le resiste mentre la fonda. Coinvolgere il basso significa allora includere l’invisibile, rendere parola ciò che resta ai margini, far emergere la conoscenza che non ha ancora trovato la sua forma.
Ma perché ciò accada, è necessario un gesto radicale: spostare il centro. Non è più possibile che l’azione dell’Ordine si fondi su modelli verticistici, su logiche di delega che svuotano il singolo della sua capacità d’iniziativa. Ogni forma di rappresentanza che non si rigeneri nel dialogo continuo con la base è destinata, nel tempo, a diventare una caricatura del potere.
Ed è qui che la formazione professionale assume un’altra luce. Non è – o non dovrebbe essere – un semplice adempimento. È, al contrario, il luogo dove si decide la natura stessa del nostro fare. Formarsi significa esporsi al sapere, ma anche saper disimparare, decostruire certezze, rimettere in discussione i presupposti invisibili del proprio agire quotidiano. Una formazione che non trasforma è una burocrazia dell’aggiornamento. Una formazione che trasforma, invece, è una pratica etica.
Garantire questa formazione – costante, puntuale – significa offrire alla comunità una possibilità: non solo di essere aggiornata, ma di essere nuova.
Ma il nuovo, in sé, non è mai garantito. Non basta una generazione nuova di rappresentanti per assicurare il rinnovamento. Occorre che chi entra nei Consigli comprenda la natura del proprio compito: non rappresentare un potere, ma custodire una possibilità.
Possibilità di fare dell’Ordine non un centro di controllo, ma un luogo di cura. Cura delle condizioni di lavoro, certo. Ma anche – e soprattutto – cura del linguaggio con cui la professione parla di sé, del modo in cui si presenta al mondo, del senso che essa porta dentro il tessuto sociale.
Troppo a lungo abbiamo accettato una visione funzionale e amministrativa della nostra identità professionale. Troppo spesso ci siamo ridotti ad “esecutori qualificati” in uno spazio normativo che non lasciava luogo all’etica.
Il vero rinnovamento comincia da qui: dalla decisione di pensare il nostro ruolo non solo come funzione, ma come forma di vita.
Solo se torniamo a pensare in questi termini possiamo comprendere il compito storico che ci attende. Perché la nostra categoria – come ogni comunità oggi, in questo tempo sospeso – si trova a dover decidere non soltanto chi è, ma se vuole ancora essere.
E l’essere, lo sappiamo, non è una semplice condizione ontologica. È una pratica. È un modo di stare insieme.
In questa luce, la gratitudine verso coloro che hanno votato – e ancor più verso coloro che si sono assunti il compito di rappresentare – non è un atto formale, ma un riconoscimento di una responsabilità.
A questi colleghi spetta oggi un compito difficile: quello di rendere visibile ciò che resta invisibile, di ascoltare ciò che non è stato ancora detto, di pensare una nuova grammatica istituzionale, che non si limiti a recepire le istanze, ma le preceda, le accompagni, le metta in forma.
Non si tratta, dunque, solo di fare meglio ciò che già si faceva. Si tratta di fare altrimenti.
Di pensare l’Ordine non più come struttura di regolazione, ma come dispositivo generativo. Di immaginare la categoria non più come aggregato, ma come comunità vivente.
Di comprendere, infine, che ogni struttura, ogni norma, ogni statuto non ha valore se non nella misura in cui serve la vita.
E servire la vita, oggi, significa accettare la complessità del nostro tempo, ma anche osare risposte non ancora dette.
Il Consiglio Direttivo, in questa prospettiva, non è solo un organo. È una soglia. Un luogo in cui il passato incontra il futuro, in cui la tradizione si interroga sul proprio senso, in cui il linguaggio stesso dell’istituzione può essere riscritto.
Ma perché questo accada, non basta la volontà. Occorre la vigilanza. Occorre che ogni associato non si senta semplicemente “parte” della categoria, ma partecipante – nel senso più profondo del termine: colui che prende parte, che si espone, che assume il rischio di esserci.
L’apatia non è una colpa morale, ma una forma di sottrazione. E ogni sottrazione silenziosa indebolisce la forma collettiva, la espone alla frammentazione, all’irrilevanza.
Per questo la partecipazione – anche quando parziale – è un evento. Perché indica che il corpo, seppur stanco, ha ancora desiderio.
Il desiderio di contare, ma anche il desiderio di comprendere.
Comprendere chi siamo, cosa vogliamo, quale forma dare al nostro futuro.
Questa comprensione non può essere delegata. È un compito che ci riguarda tutti. E che oggi, forse più che mai, ci chiede un gesto di coraggio: smettere di pensare la professione come una difesa e iniziare a viverla come una apertura.
Un’apertura che non esclude, ma include. Che non impone, ma interroga. Che non risponde subito, ma si prende il tempo per ascoltare.
Solo in questo ascolto si può formare una vera comunità. Una comunità che non sia solo un insieme di individui uniti da norme, ma un noi capace di parola, di memoria, di futuro.
In questo orizzonte, CO.NE.PRO. vuole essere un punto di riferimento
, sì, ma non come centro dominante. Piuttosto come nodo di una rete. Come luogo in cui l’energia che viene dal basso possa trovare forma, risonanza, possibilità.
Il nostro auspicio – che è anche una promessa – è che nessuno resti ai margini. Che ogni voce trovi spazio. Che ogni domanda abbia dignità.
Il rinnovamento non viene dall’alto. Non si impone per decreto. È un processo che attraversa. Che trasforma lentamente. Che chiede tempo, pazienza, determinazione.
Ma che, una volta avviato, non può essere fermato.
A tutti i colleghi che oggi entrano nei nuovi Consigli, va il nostro augurio sincero. Ma più ancora va la nostra richiesta: non abbiate paura del nuovo linguaggio che dovrete imparare. Non temete la complessità. Non fuggite la fatica del dialogo.
In voi non si deposita il potere, ma la speranza.
E la speranza – come ci insegna la filosofia – non è attesa passiva. È azione. È decisione. È, sopra ogni cosa, il coraggio di pensare che un’altra professione è possibile.