Skip to main content

La forma sospesa della Politica Italiana

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

a cura Agostino Agamben

In un tempo in cui la politica ha smarrito il senso della decisione e le istituzioni sembrano ridotte a cantiere permanente senza progetto, la formula “lavori in corso” non è più soltanto un’espressione di attesa, ma diventa cifra strutturale del presente: uno spazio sospeso dove il conflitto è evitato, le promesse evaporano, e la cittadinanza si trasforma da soggetto attivo a spettatore disilluso — ma proprio in questa frattura si apre la possibilità di un nuovo inizio, fondato sulla cura, sulla responsabilità minima e sulla riscoperta del comune.

Che cosa significa, oggi, parlare di “lavori in corso” nella politica italiana? Non come metafora, non come formula giornalistica ormai usurata, ma come struttura ontologica dell’esperienza pubblica, come condizione in cui si viene a trovare non solo l’agire politico, ma la stessa vita collettiva. L’espressione “lavori in corso” — che pare mutuata più da un lessico urbanistico che da una grammatica istituzionale — assume nel linguaggio mediatico una funzione tautologica: essa non spiega, ma rassicura; non descrive, ma sospende. È il segno di un tempo che non ha più narrazione, di uno spazio che non ha più promessa, ed è in questa sospensione che si dà la cifra del presente, non come incidente ma come forma.
Non è soltanto che si rinvia continuamente l’appuntamento con il reale: è che il reale si ritrae, diventa indecidibile; la decisione, che era un tempo l’atto costituente di ogni politica, diventa impensabile, come se ogni gesto fosse già preso nella rete del possibile indeterminato. Il politico stesso si ritira, si cela dietro il formulaico, dietro il normativo, dietro il labile. E quel “in corso” non indica un progresso, bensì la presenza stabile di un cantiere interno, di una ferita aperta che non si chiude, che non si consolida.
Così, il termine “governo” perde la traccia della sua radicalità: non è più esercizio del potere che fonda, non è più gesto che decide, ma amministrazione dell’attesa, custodia dei residui, gestione del già dato. Le istituzioni non sono più forme in cui il popolo si riconosce, ma organismi che registrano difetti, frammenti, scarti, che cercano di mantenerli in equilibrio, di tenerli a bordo, ma senza poterli integrare o trasformare. Il partito, che un tempo era spazio della promessa, oggi è soglia del nulla, teatro dell’identico, memoria sbiadita di ciò che fu.
Nel linguaggio politico, nei discorsi pubblici, appare allora una retorica della transizione, della riforma, della moderazione, come se fosse peggio sbagliare con ardore che non decidere per timore; come se la scelta avesse automaticamente un costo che la sospensione non ha. Si preferisce restare nella dilazione, nell’ombra di un futuro che si auspica ma non si definisce, piuttosto che assumere la forma di conflitto che ogni decisione autentica comporta. Il conflitto viene derubricato: opposizione sterile, polemica divisiva, intemperanza. Ma senza conflitto non c’è forma, senza contesa non c’è contorno, senza esclusione non c’è identità.
Eppure, non è solo una questione di dirsi destra o sinistra, di annunci, di coalizioni: è una questione di forma — la forma del politico, intesa come orizzonte, come visione, come conflitto legittimo. Quando manca la forma, gli enti politici diventano vuoti; restano nomi, ma disabitati; restano strutture, ma senza tensione. In questa assenza, il consenso diventa apatia, la partecipazione di ventice delegazione, l’etica — se ancora evocata — diventa rituale, liturgia di parola che non chiama più all’azione, o che all’azione chiama solo per confermare se stessa.
Il Movimento 5 Stelle è emblematico non perché sia caduto nel vuoto, ma perché ha incarnato l’affermazione che il vuoto è sufficiente; che la negazione delle forme tradizionali, il rifiuto della mediazione, la volontà di immediatezza, erano, in sé, un atto politico radicale. Ma ciò che si rifiuta non è sostituito da un altro principio costituente: rimane solo lo scarto, il non luogo del politico. Un movimento che si professa contro ogni “sistema” finisce per divenire inessenziale, non perché non abbia potere, ma perché ha perso la capacità di articolare un desiderio fortemente comune.
Analogamente, il centrodestra e il centrosinistra non sono opposti, ma due volti di una stessa dissoluzione. Fratelli d’Italia tenta un recupero identitario, ma identità senza racconto è eco. La Lega si muove ancora fra nostalgie regionali e aspirazioni nazionali, ma non sa più comporre la tensione: la sua stella polare vacilla, e ciò che resta sono brandelli di –ismo che non toccano l’anima del paese. Forza Italia è ombra di un passato che si oppone al presente solo per resistenza, non per proposta. Il centrosinistra, infine, è il luogo dove la moderazione diventa norma, dove la prudenza diventa virtù, non della politica ma della rinuncia.
La politica italiana, in questa forma, è attraversata da una topologia del consenso che si sposta come una nuvola, senza radici. Le coalizioni nascono non per progetto, ma per convenienza; i partiti si formano non per vocazione costituente, ma per opportunità. Dunque, la forma partito, che in altri momenti storici costituiva la mediazione fra il singolare e il comune, fra il reale e il possibile, si trasforma in macchina del registrare: prende nota, cataloga, traduce in voti, ma non pensa. E chi pensa — ovvero chi tenta la decisione che non può più essere rinviata — è guardato con diffidenza, come se l’atto forte fosse un gesto di arroganza in un mondo che ha fatto dell’arroganza la norma.
La forma estetica della politica contemporanea è quella della sospensione. Nulla avviene che non sembri già avvenuto. Le parole si ripetono, i simboli si consumano, i miti si scaricano. Non c’è rinnovamento ma riciclo; non c’è promessa ma déjà vu. La novità diventa problema, la differenza diventa disturbo. Si predilige l’illusione della continuità, si fugge la rottura, si teme l’evento. Ma quando il politico si allontana dall’evento, l’evento si rivolta: diviene crisi, emergenza, colpo di scena. Al quale la risposta è la tecnica, la norma, la regolazione: si richiama al dovere di stabilità, alla opzione per il prevedibile, al consenso che non chiede impegno.
Viviamo, dunque, in uno stato di eccezione normalizzato: ogni cosa è emergenza, ogni emergenza viene amministrata, ogni amministrazione diventa stabile pur restando provvisoria; ogni decisione deferita e ogni decisione sostituita da procedure. E la procedura, per quanto complessa, appare al cittadino come balbettio piuttosto che come articolazione del desiderio comune.
Ma dentro questa condizione, non è tutto perduto. Se la politica si ritrae, se la forma partito vacilla, se la decisione è temuta, rimane un residuo su cui si gioca il possibile: il comune, la vicinanza, la responsabilità minima. Non la politica grande, non il progetto strategico ardito, ma le relazioni sotterranee, le esperienze concrete, le pratiche di cura, i gesti di solidarietà che non chiedono legittimazione, che avvengono fuori delle platee mediatiche.
La parola “cittadinanza” — che pare oggi ridotta a consumo elettorale, a preferenza algoritmica, a voto utile — può risvegliarsi se riprendiamo la strozza dell’ascolto, se recuperiamo la trama del visibile e dell’esistente. Il cittadino non come utente, non come cliente, ma come parte di un corpo politico che non si identifica più con l’insieme degli aventi diritto, ma con chi si occupa, chi cura, chi partecipa, chi resiste.
Non è nostalgia: non si tratta di ritornare a un modello del passato che già ha segnato le sue ferite, ma di riconoscere che la speranza politica non si esaurisce nella promessa di ciò che sarà, ma si annida nel presente, in ciò che già abitiamo, in ciò che già facciamo. Anche quando pare niente, anche quando pare che si stia solo subendo. Ogni gesto di cura, ogni relazione di mutuo aiuto, ogni comunità minima, ogni scuola che tenta di far dialogare piuttosto che di insegnare la mera informazione, ogni ufficio pubblico che non delega la responsabilità, ogni quartiere che difende il verde, ogni voce che chiede giustizia: sono frammenti che continuano a vivere nel cantiere, ma rischiano di restare invisibili, inascoltati, sproporzionati.
La trasformazione politica di cui abbiamo bisogno non si riduce a nuove coalizioni, a formule istituzionali, a regolamenti parlamentari, per quanto necessari essi siano. Piuttosto, occorre un atto costituente di forma: un mutamento nella modalità stessa di pensare il politico, non come sovrano che impone, ma come spazio che accoglie. Non come comando, ma come cura; non come presentazione del potere, ma come composizione del comune.
Questo non significa che manchi chi pensi, chi desideri, chi si faccia carico del rischio: ma che il sistema delle possibilità – come fu teorizzato nei momenti più alti delle democrazie – non è più percepito come tale. È diventato campo di attesa indistinta, di opportunismo, di calcolo. E il rischio è che, nella caduta della percezione del possibile, il possibile stesso venga rimosso: non tanto ignorato, quanto dimenticato come categoria.
Eppure il possibile resiste, spesso sotto forma di domanda senza risposta, di silenzio che cerca voce, di gesto che pretende dignità, di comunità che si riconosce nella sofferenza e nella cura come nella protesta. Ci sono spazi che non chiedono autorizzazione, che non si fondano su un mandato esplicito, ma su una presenza etica: coloro che curano, coloro che educano, coloro che resistono — non come élite, ma come corpi sparsi che, senza cercare visibilità, tessono relazioni, mantengono legami, praticano la responsabilità minima che è forse l’unico seme che oggi possa germogliare.
Allora, parlare di “lavori in corso” non è solo constatazione della nostra impotenza: può divenire il luogo di una differenza possibile, se si riconosce che il cantiere aperto non è soltanto spazio dell’attesa, ma anche spazio della cura; che il lavoro non è la mera costruzione di istituzioni visibili, ma il mantenimento di forme invisibili; che il politico non è soltanto chi governa, ma chi veglia, chi abita il comune.
Questo non avverrà senza conflitto, senza passione, senza discontinuità: ma la discontinuità non è rottura violenta, è svolta nel gesto, è decisione che interrompe, è esclusione che delimita, è parola che non è solo enunciato, ma convocazione. Ed è nella misura in cui qualcuno accetterà di pronunciare quella parola, di rischiare che il parlare diventi gesto, che il politico ritroverà non la forma che era, ma la forma che può essere. Una forma che tiene insieme il passato, il presente, il possibile; una forma che non esclude l’errore, ma che non abdica all’atto dell’elaborazione; una forma che fa del comune non un’astrazione, ma un’esistenza condivisa.
E mentre tutto sembra sbandare, mentre le istituzioni appaiono ingessate, mentre la parola politica è sospesa nel vuoto della conversazione distratta, l’unica via è quella della veglia: non la speranza ingenua, non l’impegno meramente rituale, ma l’attenzione che non si lascia distrarre, che vede ciò che viene oscurato, che riconosce la frattura. Perché riconoscere la frattura non è deprimersi davanti al reale, ma vedere che il reale non coincide con ciò che è visibile; che sotto la superficie bruciano tensioni, desideri non soddisfatti, possibilità non articolate.
Abitare questa tensione significa non smettere di chiedere: che cos’è la giustizia, non come formula poetica, ma come pratica quotidiana; che cos’è il lavoro, non come impiego, ma come partecipazione; che cos’è la democrazia, non come procedura, ma come spazio vivo; che cos’è il politico, non come professione, ma come vocazione. E chiedere non perché si riceva risposta, ma perché la domanda stessa formi un soggetto, un collettivo che non sia cliente ma comunità.
Non si tratta di attendere il momento rivoluzionario che tutto cambi: forse non verrà. Ma si può anche cominciare, adesso, a praticare un’altra politica: non grande, non mediatica, non spettacolare, ma sobria, attenta; non dominatrice, ma dialogica; non decisa per occupare, ma per abitare. Una politica che sappia mettere al centro non il potere, ma la responsabilità; non il consenso, ma la cura; non la rappresentanza astratta, ma il visibile degli esclusi; non la voce che proclama, ma la voce che ascolta; non il discorso che afferma, ma il silenzio che interroga.
Tutto questo non è manifesto, non è programma manifesto, è soltanto la sola forma di domanda che oggi pare degna di essere posta; ed è nel porla che qualcosa comincia a muoversi nel cantiere. La stabilità che appare non è pace, è anestesia. Il rituale della politica non è ordine, è assenza. La forma che attende non è già definita: è parola possibile, azione possibile, comunità possibile. È ciò che resta nelle crepe del senso; ciò che resiste nella assenza di forme compiute; ciò che chiama decisione non come rottura, ma come cura del possibile.
Allora “lavori in corso” smette di essere formula ¬fredda di rimando e diventa responsabilità del presente: ogni cittadino, ogni abitante di questo paese, ogni voce minuscola è chiamato a essere operaio nel cantiere, a partecipare non per richiedere ma per incidere, non per consumare ma per costruire, non per attendere ma per abitare.
E cosa può essere abitato, se non il presente? Cosa può essere curato, se non ciò che già pulsa sotto la cenere? Cosa può crescere, se non dalla cura minima, dalla parola esposta, dal gesto che non pretende visibilità ma pretende coerenza? Forse allora smetteremo di ripetere “lavori in corso” come consolazione, e cominceremo a prenderlo come promessa. Cominceremo a tornare a decidere, a scegliere, a escludere — non per divisione, ma per forma; non per potere, ma per presenza; non per mostra, ma per vita.
Intanto, nel luogo dove sembra che nulla si muova, qualcosa si muove: nel volto di un insegnante che non si piega; nella mano che cura un anziano; nella parola che resiste al rumore; nel volto che non accetta di essere invisibile. Quel minimo può farsi visibile, può farsi parola, può farsi comunione. E allora il politico non ritornerà come spettacolo, ma come cura; non come narrazione imposta, ma come comunità convocata.
Il tempo sospeso può diventare tempo aperto. Non per un’immagine proveniente da fuori, ma per quel movimento interno che riconosce la frattura, che accoglie la domanda, che traduce la distanza in possibilità. E non come metafora, ma come pratica di vita, come compito dell’abitare, come atto della parola.
Così, nei lavori in corso, forse possiamo finalmente riconoscere non la nostra impotenza ultima, ma la nostra responsabilità originaria; non il vuoto come sconfitta, ma il vuoto come spazio in cui formare la parola che ancora non è stata detta.

 

Condividi su: