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Genealogia dell’Ordine dei Cavalieri della Concordia

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

a cura di Agostino Agamben

“Ogni fondazione è sempre il mascheramento di una soglia. Ed è su quella soglia che l’Occidente ha edificato i suoi ordini.”
(G. Agamben, Il Regno e la Gloria)

Non vi è istituzione più carica di ambiguità ontologica di un ordine cavalleresco. Esso si costituisce come gesto di fondazione e insieme come tentativo di restaurazione. La sua essenza non risiede né nel gesto fondante né nel potere che lo legittima, ma in ciò che Giorgio Agamben chiama “inoperosità operante”: l’interruzione dell’effettualità della storia, per instaurare una forma che è, in sé, un’eccezione.

Nel 1246, Ferdinando III di Castiglia e León istituisce l’Ordine dei Cavalieri della Concordia. Non è una fondazione qualunque. È il segno di una frattura e di un congiungimento. Non monaci, non guerrieri in senso stretto, bensì nobili. Nobili che, nel legame feudale, vedono l’ultima possibilità di un’unità politica minacciata dalla forza centripeta del Califfo di Cordova. Non è la croce a guidarli, ma la Concordia: un concetto più antico e insieme più fluido, meno dogmatico, più romano.

Qui risiede il primo gesto di sospensione: la Concordia non è una virtù cristiana, ma civica. Non si afferma come opposizione alla barbarie, ma come tensione interna alla civiltà stessa. È un ordine che nasce non per estendere un dominio, ma per preservare una soglia.

La fondazione non è mai un evento pieno, ma sempre accompagnata da una zona d’ombra. E in quell’ombra affiorano, nel 1314, le figure dei Templari rifugiati. Essi, fuggiti dalla damnatio memoriae operata da Filippo il Bello, trovano in Spagna non solo un rifugio politico, ma una possibilità teologica. È in questo punto che l’Ordine della Concordia si contamina — non per degenerazione, ma per ibridazione. E come sempre accade nelle genealogie politiche dell’Occidente, è la contaminazione a fondare la legittimità.

Papa Clemente V li aveva scomunicati, ma la loro presenza nell’Ordine non è una negazione del diritto canonico: è il segno della sua sospensione. In tal senso, l’Ordine agisce da ecclesia invisibile, da comunità senza luogo, né tempo, sospesa tra la giurisdizione e il carisma. I Templari, accolti in una forma non monastica, diventano i portatori di una nuova escatologia, depotenziata del martirio, ma investita di una missione storica.

Si produce così una migrazione dell’Ordine attraverso le strutture imperiali. L’impero spagnolo, come ogni impero, è in sé un dispositivo di diffusione e di occultamento. Le città fondate in Argentina e in Messico, entrambe chiamate “Concordia”, non sono solo appendici del potere, ma architetture della memoria. La fondazione urbana — come Roma insegna — è sempre fondata su un crimine originario. Ma qui, il crimine non si mostra: resta velato nella figura del concordare, del mettere insieme, del legare senza fondere.

Il passaggio all’Impero germanico, tramite la dinastia degli Asburgo e sotto la guida del Gran Maestro Margravio Ernesto von Zollern, è il secondo spostamento semantico. L’Ordine smette di essere una risposta alla minaccia islamica e diventa custode di una forma del potere che Agamben avrebbe definito “economica”: un potere che non governa attraverso la legge, ma attraverso l’amministrazione del senso.

La genealogia dei Gran Maestri — da Zollern al principe di Nassau, da Schwarzburg Rudolstadt a Dalberg — mostra come l’Ordine sia progressivamente inglobato nella “gloria” del potere secolare. Ma questa gloria, come ci ricorda Il Regno e la Gloria, è una categoria teologico-politica che ha perso la sua forza escatologica per divenire pura rappresentazione.

E proprio nella rappresentazione si consuma il rischio più grande: l’Ordine, se non custodisce la sua distanza, rischia di divenire apparato, cerimonia, spettacolo. Tuttavia, nell’Ottocento, con il trasferimento in Italia e l’assunzione del Gran Magistero da parte del Principe Lascaris, si intravede una nuova strategia. Non più il dominio dei feudi, né l’espansione imperiale, ma il ritorno alla cultura. Le Accademie dei Concordi fondate a Bologna, Rovigo e Napoli sono il segno che la potestas dell’Ordine non risiede più nella spada, ma nella parola.

La decisione di rimuovere il termine “militare” dall’effige dell’Ordine è un atto che va letto alla luce di quella che Agamben definirebbe “inoperosità attiva”: il gesto che sospende la funzione per restituire l’essenza. Non è una rinuncia alla forza, ma il suo riscatto.

Il priorato in Brasile, sorto come residuo dell’espansione coloniale, diventa il testimone silenzioso di una diaspora dell’Ordine. Una diaspora non geografica, ma ontologica: l’Ordine, privato del suo potere visibile, entra nell’oblio. Ma questo oblio, come ogni vero oblio, è solo apparente. È un’attesa messianica.

Nel silenzio che segue il declino, ogni ordine cavalleresco vive il rischio dell’estinzione. Ma ciò che decade non è mai semplicemente ciò che muore: è piuttosto ciò che resta inoperoso, ciò che si ritira dal campo della funzionalità per abitare la soglia tra la storia e il mito. L’Ordine dei Cavalieri della Concordia, caduto nell’oblio per più di mezzo secolo, non è un’anomalia, ma una forma pura della crisi dell’Occidente: un frammento di sacro che ha perduto il suo tempio, e che tuttavia resiste nel gesto, nella postura, nel nome stesso che porta.

È su questo terreno che riappare la figura del Gran Maestro, non come leader o comandante, ma come testimone. Il nuovo Gran Maestro, Principe Mario Augusto Petricca Giordani, non “ricostruisce” l’Ordine, ma lo risveglia. Il verbo è essenziale. Ricostruire implica il desiderio di potenza, risvegliare è invece un atto liturgico, un ritorno al tempo messianico. In questo senso il risveglio dell’Ordine è un atto politico nella sua accezione più profonda: non la gestione della polis, ma il richiamo alla sua origine.

Non è un caso che le nuove Luogotenenze si stabiliscano in luoghi che sembrano marginali al potere: Malta, Irlanda, Cuba, Ungheria, Croazia. Sono terre liminari, spazi di soglia in cui la storia si increspa, si contorce, perde la sua linearità. In questi luoghi l’Ordine non fonda né conquista, ma abita. E abitare, per Agamben, è il gesto per eccellenza della politica: rimanere, senza appropriarsi; custodire, senza dominare.

L’Ordine della Concordia oggi si muove come una comunità senza potere. Ed è in questa assenza, in questa depotenziata forma di esistenza, che si intravede la sua forza. Non più milizia, non più istituzione, ma forma-di-vita. Il cavaliere della Concordia non è più un funzionario del sacro, ma un portatore di memoria. La sua spada è ormai muta, ma il suo gesto è ancora vivo. Gesto che non vuole produrre effetti, ma rendere visibile l’invisibile: ciò che nell’Occidente si è perduto e che solo la testimonianza può restituire.

Il cavaliere, in questo nuovo ordine, non difende un regno, ma una soglia. E la soglia è ciò che separa e unisce. La Concordia non è più soltanto un’alleanza strategica contro il nemico esterno, ma una pratica interiore, una disciplina della distanza. Non esiste più l’altro come minaccia, ma come riflesso del sé che non si possiede.

Le Accademie dei Concordi, sorte nel XIX secolo e poi disperse, non erano scuole nel senso moderno del termine, ma luoghi di contemplazione. Esse non producevano sapere, ma custodivano il silenzio. Il loro scopo non era la formazione, ma la trasmissione di un’inoperosità attiva: lo stare nel mondo senza aderirvi completamente. È forse per questo che l’Ordine ha potuto sopravvivere all’oblio: perché ha imparato a esistere senza esistere pienamente, a manifestarsi nell’interstizio tra l’essere e l’apparire.

In questo senso, la Concordia non è un fine, ma una modalità dell’essere. Non si raggiunge la Concordia, si dimora in essa. E dimorare implica accettare l’incompiutezza, la non-identità, la mancanza di fondamento. Ogni cavaliere è tale non perché investito da un’autorità superiore, ma perché testimone di una verità che non si può dire: la verità del legame.

Oggi, in un mondo che ha trasformato ogni ordine in procedura, ogni virtù in algoritmo, ogni memoria in archivio digitale, la resurrezione dell’Ordine della Concordia assume un significato radicale. Essa non indica un ritorno al passato, ma una sospensione del presente. Non una restaurazione, ma un’interruzione. Il tempo che abita l’Ordine non è cronologico, ma kairologico. È il tempo dell’occasione, dell’evento, del possibile.

Il Principe Petricca Giordani non fonda un nuovo potere, ma custodisce un’antica impotenza. E in ciò consiste la sua forza: nel sapere che la vera potenza è sempre legata alla capacità di non agire, di astenersi, di sospendere il giudizio. Non è un governante, ma un veggente. Non guida un esercito, ma accompagna una comunità senza nome.

È proprio in questa nuova epoca di apparati onnipresenti, dove l’uomo è ridotto a funzione e la vita a dato amministrabile, che il gesto del cavaliere si distacca come anacronismo vitale. Ma, come insegna Agamben, ciò che è anacronistico non è ciò che è fuori dal tempo, ma ciò che interrompe il tempo, lo scardina, lo espone alla possibilità di un’altra forma. L’Ordine della Concordia, in quanto sopravvivenza anacronistica, si colloca non nel passato, ma nel margine futuro del presente, là dove il possibile non ha ancora ceduto all’effettuale.

Questo lo si comprende ancor meglio osservando la genealogia muta di coloro che hanno rivestito il Gran Magistero. Il Margravio Ernesto von Zollern, poi il principe di Nassau, Guglielmo Luigi von Schwarzburg Rudolstadt e infine Karl Theodor von Dalberg, sotto l’ombra pesante e lucida di Napoleone. Ognuno di questi nomi non è solo un individuo, ma una funzione simbolica — quasi una categoria politica incarnata. L’Ordine, attraversando queste figure, non si sottomette mai completamente al loro potere. Piuttosto, le attraversa, le utilizza come maschere per proteggere la propria nudità. Come accade nella liturgia, il potere si mostra nel momento in cui si nasconde dietro il rito.

E questo rito, nella storia dell’Ordine, non è mai stato privo di ambivalenze. In effetti, nessuna istituzione sopravvive se non attraverso una forma di ambiguità. Il fatto che l’Ordine abbia adottato elementi templari, accolto persecutori redenti, e abbia persino attraversato gli imperi laici del moderno, non ne costituisce una debolezza, ma la prova della sua resistenza. L’Ordine si è sottratto alla linearità della storia proprio perché ha saputo farsi forma oltre il contenuto, gesto oltre la funzione.

Quando il titolo di Gran Maestro passò al Generale Conte Sebastiano Visconti Prasca, e poi al Principe Virgilio Orsini, infine al Marchese Arturo della Scala, non vi fu restaurazione, ma trasfigurazione. Ogni nuova investitura non segnava un nuovo inizio, ma una continuità invisibile. E questa invisibilità è forse il tratto più radicale dell’Ordine: vivere senza mostrarsi, agire senza operare, resistere senza combattere.

Per questo le Accademie dei Concordi sorte in Italia — Bologna, Rovigo, Napoli — non furono mai centri del potere, ma zone di riflessione e di sospensione. Luoghi in cui l’uomo poteva ancora pensarsi fuori dalle logiche dell’utilità. Non si insegnava nulla, ma si disimparava. Si smetteva di credere nel progresso per credere nel ritorno: non un ritorno al passato, ma al punto originario dove la decisione è ancora possibile.

E oggi, sotto la guida di Petricca Giordani, il gesto si ripete. Non nel senso della riproduzione sterile, ma come anamnesi. Il risveglio dell’Ordine non è un evento storico, ma un evento interiore. Non avviene nei consigli o nei titoli nobiliari, ma nella decisione silenziosa di vivere secondo una forma-di-vita. Il cavaliere non segue una regola, è la regola. Non obbedisce a un codice, è egli stesso misura di ciò che è degno.

Questo implica una radicale solitudine. Non vi è comunità dell’Ordine nel senso politico del termine, ma solo una pluralità di solitudini connesse da un legame invisibile: la fedeltà. Non a un re, non a uno stato, non a un’ideologia, ma a una forma. La forma della Concordia.

Ma che cos’è, in fondo, questa Concordia? Non è semplicemente la pace o l’unità. È piuttosto ciò che tiene insieme ciò che è disgiunto. Una complicatio di elementi divergenti, tenuti insieme non dalla forza, ma da un’armonia senza fondamento. La Concordia non unisce, sospende il conflitto. Non lo risolve, ma lo trasfigura. Ed è questo che la rende così profondamente politica, in un’epoca che ha ridotto la politica a mera amministrazione.

È qui che l’Ordine, nel suo risveglio, si fa ancora una volta gesto profetico. Non nel senso messianico della fine dei tempi, ma in quello più sobrio e più tragico della possibilità di una vita diversa, in mezzo alla vita amministrata. In un mondo che ha eliminato la categoria del sacro e ha sacralizzato la burocrazia, l’Ordine si erge come testimonianza di un’altra economia dell’essere.

Non pretende nulla, non chiede riconoscimenti, non rivendica poteri. Esiste come esiste una poesia letta in silenzio, come un canto notturno in una lingua dimenticata. Ma è proprio in questo silenzio che si gioca la sua forza: non più nella visibilità, ma nella custodia. Custodire, in greco antico, è phulatto: sorvegliare, ma anche mantenere vivo. Il cavaliere della Concordia, oggi, è colui che sorveglia senza occhi, e mantiene vivo ciò che il mondo considera morto.

È nell’intervallo tra il potere e il pensiero che l’Ordine della Concordia ritrova oggi il proprio spazio di significazione. Non come ritorno al passato, né come utopia di un nuovo ordine globale, ma come interruzione del corso normale delle cose, come sospensione rituale del presente. È un ordine che non promette né salvezza né redenzione, ma che insiste — silenziosamente — sulla possibilità di una forma-di-vita non sussunta.

Ecco che allora, la figura del Gran Maestro, così apparentemente anacronistica nella modernità secolarizzata, si mostra nella sua verità. Il Gran Maestro non è un sovrano, né un comandante. È un katéchon, colui che trattiene. Trattiene il tempo, trattiene la dissoluzione, trattiene anche la propria volontà di dominio. Nell’agire senza volontà, nel guidare senza comando, egli rappresenta quella zona che Agamben chiama “indecidibile”: lo spazio in cui la politica e la vita si toccano, senza mai coincidere.

La riattivazione delle Luogotenenze in Malta, Irlanda, Cuba, Ungheria, Croazia non è dunque un’operazione geopolitica. È, al contrario, una cartografia interiore. Quei nomi, quelle terre, sono simboli di un’Europa che non coincide più con se stessa. Sono ferite e promesse, margini e memorie. L’Ordine si insinua nei margini, perché è lì che la verità dell’essere si manifesta: non nel centro, ma nel confine.

E proprio nel confine tra visibile e invisibile, tra potere e povertà, l’Ordine ha scelto di abitare. Non rivendica riconoscimenti ufficiali, non desidera patenti di nobiltà né approvazioni ecclesiastiche. Il suo statuto è interno. Non vi è documento che possa legittimare ciò che nasce dal silenzio. È il silenzio, infatti, la forma più alta della fedeltà.

Tutto ciò che è veramente politico, scrive Agamben, è anche essenzialmente inoperoso. Non perché rinunci all’azione, ma perché ne sospende il fine. Così l’Ordine agisce senza progetto, muove senza strategia. Si fa spazio non nel mondo delle istituzioni, ma in quello delle relazioni umane. Esiste solo nella misura in cui qualcuno, in silenzio, decide di aderire a una forma che non comanda.

E tuttavia, questa adesione non è semplice né scontata. Essa implica una perdita. Diventare cavaliere della Concordia, oggi, significa rinunciare a ogni visibilità. Non vi è medaglia che dia lustro, né rito che offra potere. È un gesto nudo, come quello del monaco che si spoglia per entrare nel chiostro. Ma a differenza del monaco, il cavaliere resta nel mondo, senza appartenervi.

Questa presenza senza appartenenza è forse il vero senso dell’Ordine. Non si tratta di una fuga, ma di un altro modo di esserci. Un modo che non si oppone alla modernità, ma che la sospende, la guarda da fuori, come uno straniero. E in questa stranierità, in questa irriducibile distanza, si nasconde la potenza della Concordia: la potenza del non coincidere mai pienamente con il proprio tempo.

L’Ordine, dunque, è una finzione operante. Non nel senso di una menzogna, ma di una forma che mostra la verità proprio perché sa di non essere tutta la verità. È una maschera, e come ogni maschera, non nasconde, ma rivela. Rivela che sotto la storia, sotto i titoli, sotto gli stemmi e le medaglie, c’è una nudità che ci accomuna tutti. Una nudità che non può essere investita, ma solo abitata.

Forse è per questo che l’Ordine è sopravvissuto: perché non ha mai preteso di durare. È stato dimenticato, sepolto, ignorato — ma mai cancellato. Come quei semi antichi ritrovati nei sarcofagi egizi, che germogliano solo dopo secoli, anche l’Ordine porta in sé un tempo che non è cronologico, ma messianico. Il tempo in cui qualcosa può ancora accadere.

Non sappiamo se questo Ordine durerà. Non possiamo prevedere se la sua forma riuscirà a sottrarsi alle logiche della spettacolarizzazione, o se sarà anch’esso assorbito dall’infinito apparato che tutto neutralizza. Ma questa incertezza non è una debolezza. È, al contrario, il suo fondamento. L’Ordine esiste solo finché non è garantito, solo finché resta fragile, esposto, incompiuto.

In questo risiede la sua verità. E forse anche la nostra.

 

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