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Europa tra dazi e alleanze contese

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

a cura di Agostino Agamben

Dall’imposizione delle tariffe di Trump che colpiscono settori chiave come automotive, acciaio, agricoltura e beni di lusso, alla crescente instabilità dei rapporti commerciali tra Bruxelles e Washington che rischia di ripercuotersi su consumatori, produttori e catene di fornitura europee; mentre sul fronte della sicurezza, la Turchia spinge per un ruolo di primo piano nell’architettura difensiva europea nonostante le tensioni storiche con la Grecia e le perplessità di molti Stati membri, con scenari politici che intrecciano politica commerciale e strategia militare in un continente in bilico tra rivalità interne, alleanze fragili e sfide globali.

La guerra dei dazi, innescata dal presidente Trump, sembra più di una semplice contesa commerciale. È un dispositivo che si dispiega nella trama stessa dell’economia europea, un nodo gordiano che non solo piega ma stravolge le strutture industriali e sociali del continente. Il conflitto si manifesta in settori che si credevano solidi, indistruttibili: l’automotive, la siderurgia, l’agroalimentare. Ma il problema non è mai stato solo il prezzo delle merci o le cifre di un bilancio: è il modo in cui questa contesa ridefinisce i rapporti di forza tra economie, nazioni e soggetti politici. Non si tratta semplicemente di tariffe, ma di una nuova configurazione di potere che investe la sovranità stessa del mercato e dell’Europa.

I dazi imposti dagli Stati Uniti – in particolare quelli sull’alluminio e sull’acciaio – non sono solo una risposta a presunte pratiche sleali, ma un vero e proprio attacco a un modello di produzione e distribuzione. L’Unione europea, che reagisce con misure ritorsive su beni per un valore di 26 miliardi di euro, si trova costretta a una guerra a colpi di tariffe, che rischia di trascinare i consumatori europei in una spirale di prezzi crescenti e tensioni sociali. I produttori, dagli stabilimenti siderurgici alle aziende agricole, si scoprono fragili, impotenti di fronte a una minaccia che non è solo economica, ma politica e culturale.

Si potrebbe pensare che il fenomeno sia limitato all’economia, ma è un’illusione. L’interconnessione tra i vari settori si estende fino al tessuto stesso della società. Prendiamo l’automotive: le case automobilistiche europee devono ora confrontarsi con costi operativi più alti, una domanda frenata dall’incertezza e consumatori più prudenti. Ma dietro questa crisi si nasconde un nodo più profondo, quello della perdita di competitività di un continente che ha costruito la propria identità anche attraverso il dominio industriale. Quando il prezzo di un’automobile cresce per effetto di tariffe imposte oltre oceano, non si tratta solo di un prodotto, ma di un simbolo che vacilla.

Nel frattempo, la minaccia si estende oltre i metalli e i beni di consumo. L’agricoltura, e con essa tutta la filiera alimentare, rischia di pagare un prezzo altissimo. I dazi UE su cereali e soia provenienti dagli Stati Uniti minacciano di interrompere forniture vitali per l’alimentazione animale, un’interruzione che avrebbe effetti a cascata sulla produzione e sull’occupazione. Si tratta di un sistema che appare fragile di fronte a una strategia che mira a scardinare ogni anello della catena produttiva e distributiva. Il settore zootecnico, già in difficoltà, si ritrova così in una condizione di vulnerabilità senza precedenti.

Se si osserva questo intreccio di elementi, non si può prescindere dalla questione delle catene di fornitura. Un tempo si parlava di globalizzazione come di una rete indistruttibile, ora queste stesse reti mostrano tutte le loro crepe. L’incertezza economica e politica che si riverbera sul commercio europeo crea un clima di instabilità che si traduce in una difficoltà crescente per le imprese di pianificare e investire. La complessità del sistema produttivo europeo, con le sue dipendenze incrociate, rivela la sua fragilità dinanzi alla guerra dei dazi, che appare come una strategia volta a rinegoziare equilibri geopolitici più ampi.

In questo scenario, il settore farmaceutico – cuore pulsante di una delle economie più avanzate – si trova a sua volta minacciato. Le esportazioni verso gli Stati Uniti, fondamentali per Paesi come Irlanda e Danimarca, rischiano di essere colpite da tariffe future che metterebbero a rischio sia i posti di lavoro sia la ricerca. Il carattere strategico di questo settore non è solo economico, ma anche geopolitico: dipendere da mercati instabili o ostili significa rinunciare a una dimensione sovrana della cura e della salute pubblica.

Mentre l’Europa cerca di riorganizzarsi in questa crisi che non è soltanto economica, emergono nuove tensioni e richieste sul versante della sicurezza. La Turchia, da sempre punto nodale tra Oriente e Occidente, torna a farsi sentire con insistenza, chiedendo di non essere esclusa dai futuri piani di difesa europei. Ankara si presenta come un attore imprescindibile, forte di una posizione strategica sul Mediterraneo e di un esercito numeroso e ben equipaggiato. Il presidente Erdoğan rilancia la richiesta di una piena adesione all’Unione, sottolineando come la collaborazione sia indispensabile per la sicurezza del continente.

Tuttavia, questa richiesta non si limita a una mera questione di sicurezza, ma si intreccia a una serie di contraddizioni irrisolte. La storia lunga e tormentata tra Grecia e Turchia, con i suoi conflitti irrisolti sulle acque territoriali, lo spazio aereo e il problema di Cipro, rimane un nodo irrisolvibile che getta un’ombra inquietante sulla possibilità di un’integrazione reale. Ankara si pone come garante della sicurezza europea, ma in realtà continua a sfidare i confini sovrani dei suoi vicini, dimostrando come le alleanze strategiche non siano mai semplici o lineari.

Non si può trascurare che la sicurezza europea è oggi garantita principalmente dalla NATO, un’istituzione che non ha evitato le tensioni tra Turchia e Grecia, entrambe membri. La politica di sicurezza e difesa comune dell’UE si trova così di fronte a una sfida cruciale: come integrare un attore tanto controverso senza compromettere gli equilibri interni? Il ministro degli Esteri turco Fidan non nasconde le sue ambizioni: senza la Turchia, nessuna architettura di sicurezza europea può essere credibile. Eppure, le posizioni divergenti, soprattutto sul conflitto in Ucraina e le alleanze con Mosca, complicano ulteriormente il quadro.

L’Europa si trova così ad affrontare un dilemma non solo strategico ma culturale e politico. L’adesione della Turchia all’Unione non è mai stata solo una questione di merito politico o economico, ma anche di identità. Le preoccupazioni per la democrazia, i diritti civili e la libertà di stampa si sono accumulate nel tempo, rafforzate dalla svolta autoritaria di Erdoğan dopo il tentato golpe del 2016. Ma più di tutto, c’è una questione profonda legata alla cultura e alla storia: la possibile estensione dei diritti europei a milioni di persone turcofone residenti nell’ex Unione Sovietica solleva interrogativi sul senso stesso di “Europa”.

Non è solo un problema di numeri, ma di matrice culturale e giuridica, di radici che si rifanno a un quadro occidentale che comprende la tradizione romana, giudaico-cristiana e germanica. La prospettiva di un’Europa allargata che includa un paese a maggioranza musulmana, con una storia politica e sociale tanto diversa, è vista da molti come una perdita di identità e di libertà conquistate nel corso dei secoli. Il dibattito si sposta così su un terreno che non è più solo quello dell’integrazione economica o politica, ma dell’appartenenza e della cultura.

In questo contesto, non è un caso che la sinistra europea, tradizionalmente critica verso le radici cristiane dell’Europa, si sia spesso schierata a favore dell’inclusione della Turchia, vedendola come un contrappeso all’omogeneità culturale del continente. Questa posizione, tuttavia, ha suscitato una forte reazione nei Paesi più conservatori e nazionalisti, creando una spaccatura profonda nel dibattito europeo.

Le tensioni con la Francia sono emblematiche di queste dinamiche. Il know-how militare trasferito dalla Germania alla Turchia ha provocato la rabbia dei militari francesi, che vedono Ankara come un concorrente pericoloso e un rivale strategico. Le accuse di aver infranto un monopolio franco-tedesco nell’industria della difesa mettono in luce come le alleanze europee siano fragili e permeabili a rivalità profonde. Queste tensioni si riverberano anche sul mercato delle armi, dove la Francia minaccia di bloccare alcune forniture cruciali, aggiungendo ulteriori strati di complessità a un quadro già confuso.

Il tema dell’immigrazione, poi, si incrocia con tutte queste questioni geopolitiche. La Turchia, in virtù di un accordo del 2016 con l’UE, gestisce flussi migratori fondamentali per la sicurezza europea. Ma ora Ankara annuncia la costruzione di un muro lungo il confine con Grecia e Bulgaria, una barriera fisica che sembra un monito e una risposta alla pressione crescente. Questo muro non è solo una questione di sicurezza, ma un simbolo di una Europa che si chiude, che costruisce confini sempre più rigidi e impone limiti netti a chi cerca rifugio.

Le migrazioni – con i numeri tragici di morti e dispersi nel Mediterraneo – diventano così un elemento che intreccia economia, politica e diritto. L’Europa appare come un insieme di nodi dove si intrecciano fragilità, contraddizioni e conflitti, senza una linea di fuga semplice o una soluzione rapida.

In questo groviglio, la guerra dei dazi si rivela non solo come un confronto economico, ma come un indicatore di una crisi più profonda. La crisi della sovranità, della coesione e dell’identità europea emerge da tutte queste tensioni, in un tempo in cui il vecchio continente sembra chiamato a ridefinire sé stesso. E nel mezzo di tutto questo, la domanda resta sospesa: quale Europa stiamo costruendo e a quale prezzo?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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