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Il Prezzo del Caffè come Soglia della Crisi del Quotidiano

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

A cura di Agostino Agamben

Come l’Aumento dei Costi di un Gesto Quotidiano, dall’Impatto Climatico alla Speculazione Finanziaria, Rappresenta il Collasso di un Sistema Globale, la Fragilità della Politica, e la Mutazione Profonda dei Modi di Vivere, Abitare e Relazionarsi nel Contesto di un Mondo che Non Riconosce Più il Futuro

Il caffè, un tempo semplice gesto quotidiano e insieme rituale sociale, un’interruzione nella monotonia del tempo ordinario, diviene oggi il paradigma della crisi ontologica che attraversa la modernità tardiva. Non è più soltanto la materia di una bevanda, né semplicemente la merce di un mercato globale, ma la cifra stessa della disgregazione di ogni orizzonte umano, politico ed economico. La tazzina che si alza tra le dita, rituale antico e familiare, si trasforma in un dispositivo che testimonia l’esposizione al caos, all’ansia e all’instabilità che definiscono la condizione presente.

Il rincaro del prezzo, apparentemente un dato economico, si fa allora emblema di una più profonda dissoluzione: non solo quella di un equilibrio di mercato, ma quella di un’intera temporalità. Il clima, inteso non più come sfondo naturale ma come protagonista di un gioco politico e finanziario, diventa esso stesso terreno di scontro e di devastazione. Le piogge irregolari in Brasile e la siccità che flagella le piantagioni vietnamite non sono eventi meteorologici isolati, ma nodi di una rete globale di controllo e impotenza. Il clima non è più il ritmo naturale dell’agricoltura e della vita, bensì un dispositivo di governo della crisi, che si manifesta come una catastrofe continua e inevitabile.

Il dato del prezzo si moltiplica in una cifra simbolica: non si paga solo una bevanda, ma il debito accumulato nei confronti di un futuro ormai svanito, un futuro che si dissolve nell’oggi come un’ombra di tempo perduto. Ogni centesimo che aumenta sulla tazzina è un pegno versato per un domani che non arriverà, un’imposizione sulla vita che verrà, il segno della precarietà radicale della nostra esistenza in un mondo che non concede più certezze né protezioni. La speculazione finanziaria, come un virus, si insinua in questo scenario, trasformando la materia concreta del chicco di caffè in un fantasma, un derivato astratto che non corrisponde più alla realtà produttiva, ma solo alle paure e alle aspettative di un mercato impazzito.

Il bar, luogo di socialità e di intimità, si trasforma così in uno spazio di eccezione permanente, una zona in cui il rapporto tra soggetto e mondo si riarticola attraverso il segno del prezzo, che sancisce la partecipazione quotidiana a una crisi senza nome né volto. Il gesto di pagare una tazzina che costa due euro non è più la semplice transazione di un bene, ma una testimonianza involontaria di un’esposizione sistemica alla vulnerabilità, una forma di confessione in cui ciascuno riconosce la propria impotenza e la propria resa al regime globale dell’instabilità.

La logistica, un tempo promessa di fluidità e connessione, rivela oggi la propria natura ambivalente, divenendo un Leviatano che non garantisce più il flusso delle merci ma ne sancisce la fragilità e la discontinuità. I container bloccati, le code interminabili nei porti, l’intasamento del Canale di Suez non sono semplici inconvenienti, ma epifanie di una vulnerabilità strutturale che si manifesta con violenza crescente. La globalizzazione, promessa di un mondo senza confini e di un tempo omogeneo, si rivela come un sistema di vincoli e di conflitti, una rete di poteri che si combattono nei nodi strategici del commercio. La logistica, come la legge nell’epoca dell’eccezione, diventa il dispositivo che decide se le merci, e con esse le vite, possono circolare o devono arrestarsi.

La testimonianza dell’amministratrice delegata di Illy, che parla di una riduzione del 50% delle aree coltivabili a caffè entro il 2050, non è una previsione lontana, ma una diagnosi di un presente già compromesso. La temporalità della crisi non è più lineare né progressiva, ma intensiva: il futuro si è collassato nel presente, ogni raccolto perduto è già accaduto, ogni pianta che scompare è una ferita aperta nell’oggi. Il prezzo che paghiamo non è solo quello della materia prima, ma il peso di un tempo che si disarticola, di una storia che si spezza e di un mondo che crolla.

Giuseppe Lavazza ammette con una franchezza che tradisce l’angoscia: “Non abbiamo mai visto nulla di simile nella nostra industria”. Questa dichiarazione, più che riferirsi a un fenomeno economico, indica una mutazione ontologica. L’industria stessa si trova di fronte a un punto di rottura: non più capace di sostenere i paradigmi che l’hanno sostenuta – crescita, efficienza, competitività – essa si confronta con un tempo di scarsità, lentezza e caos. La crisi del caffè è la crisi di una forma di vita industriale e produttiva che si rivela inabitabile, un paradosso che si traduce nella difficoltà di mantenere in vita ciò che ha sostenuto la modernità per secoli.

Il barista, figura spesso marginale ma in realtà custode di un sapere che sfugge alla misurazione economica, diventa allora il mediatore inconsapevole di questa soglia di passaggio. Il suo gesto, apparentemente meccanico, è in realtà un rito di fine impero, una liturgia che si celebra in un tempo sospeso tra ciò che è stato e ciò che non sarà più. L’aumento del 15% del prezzo della tazzina negli ultimi tre anni è meno un dato economico e più un indice simbolico: si passa dal consumo al sacrificio, dal piacere alla rinuncia.

Il caffè non è semplicemente un prodotto agricolo: è una soglia antropologica, un passaggio che segna il rapporto tra attesa e azione, tra solitudine e comunità. La sua crisi è allora la crisi della presenza, della convivialità, dell’umano stesso. Il mondo che si disgrega mette in crisi non solo la disponibilità del bene, ma il senso stesso del tempo sociale e del legame intersoggettivo. La perdita del caffè come rito quotidiano si traduce nella perdita di un modo di stare al mondo.

I dati dell’International Coffee Organization mostrano un aumento del prezzo medio del 48,9% in un anno, ma questi numeri isolati sono insignificanti se non si inseriscono nel contesto di un equilibrio spezzato. La crescita della domanda globale, in un contesto di offerta che si restringe, non è crescita reale ma isteria collettiva, una rincorsa disperata a un’abitudine che si sta dissolvendo sotto i nostri occhi.

Il contesto geopolitico amplifica questa crisi. Lula, nel Brasile che custodisce le piantagioni, si avvicina alla Cina e alla Belt and Road Initiative, un progetto che ridisegna la geografia globale dei poteri attraverso infrastrutture che sono in realtà dispositivi di governo. Il caffè, prodotto simbolico del Sud globale, si trasforma in un nodo strategico, un vettore di memoria storica e di nuovi rapporti di forza. Non è più solo materia, ma vettore di potere e di controllo.

Nel frattempo, la Federal Reserve americana si prepara a tagliare i tassi, un gesto che appare ormai anestetico e impotente, teatro di un dramma senza attori visibili. La politica monetaria si rivela inefficace di fronte a una crisi che ha superato i confini della finanza e investe il vivente stesso, il tessuto delle relazioni sociali e naturali. L’economia, così come la filosofia, si ritrova a produrre solo segnali senza senso, simboli di un mondo che non riesce più a comprendere se stesso.

In Europa, e in particolare in Italia, il collasso della competitività riflette una crisi più profonda: non si tratta solo di numeri o di indicatori, ma della perdita della capacità di governarsi, di immaginare un futuro comune. L’Italia, con la sua memoria contadina e borghese, percepisce questo processo come una violenza lenta, un’erosione che dissolve le condizioni stesse della cittadinanza.

Nel bar, luogo pubblico e sociale, si manifesta questa dissoluzione. La chiusura dei locali, l’aumento dei prezzi, il rischio di default del settore ristorazione – attestato da un tasso del 5% – sono segnali di una frattura che investe la dimensione quotidiana e relazionale della vita urbana. Il caffè, che una volta era segno di incontro e socialità, si trasforma in consumo solitario o in lusso esclusivo, perdendo la sua funzione di rito comunitario.

Nell’epoca digitale, questo smarrimento si riflette anche nelle dinamiche della tecnologia e della comunicazione. L’arresto di Pavel Durov, fondatore di Telegram, e il crollo delle criptovalute sono segnali di un potere che si è disincarnato, che non ha più radici nella realtà ma si muove come un fantasma in un cyberspazio senza sovranità né responsabilità. Anche qui, come nel mercato del caffè, la speculazione anticipa la realtà, e la parola si sostituisce al fatto.

Così, l’aumento del prezzo del caffè si rivela un indice epocale, una cifra che segnala la fine di una forma di vita. Non è più un semplice costo, ma il prezzo di un mondo che si sta estinguendo, di un equilibrio naturale, sociale ed economico che non regge più. Il gesto antico di sollevare la tazzina alla bocca resta forse l’ultimo spazio di resistenza, un residuo di senso che sfugge alla cattura totale del mercato e della crisi. Ma anche questo gesto è esposto, vulnerabile, ed è destinato a essere catturato o disperso nel flusso inarrestabile della storia.

Il caffè come fenomeno economico si fa allora specchio di una crisi più vasta, di una mutazione antropologica che riguarda la relazione tra uomo, natura e politica, tra tempo e spazio, tra finito e infinito. Il prezzo che paghiamo non è solo quello di una bevanda, ma quello di una soglia attraversata, di una epoca che si chiude e di una che non si apre. E in questa soglia, nel silenzio del gesto quotidiano, si condensa la domanda più urgente: come abitare il tempo che resta?

 

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