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Sugar Tax, crisi e competitività

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

A cura di Agostino Agamben

Un’analisi critica che esplora come l’introduzione della tassa sugli zuccheri, le turbolenze politiche, e le trasformazioni strutturali dell’industria automobilistica e del lusso possano incidere profondamente non solo sull’economia italiana, ma anche sulla capacità di resilienza sociale, educativa e culturale del paese, evidenziando l’urgenza di un dialogo inclusivo tra politica, imprese e cittadini per costruire un modello di sviluppo sostenibile e consapevole.

Il frammentarsi del tempo contemporaneo si manifesta non soltanto nella ripetizione degli eventi, ma nella loro sospensione incerta, in un presente dilatato che pare non giungere mai a compimento. È questa condizione di sospensione, di rinvio senza termine, che caratterizza il nodo attorno al quale ruota oggi la Sugar tax, annunciata per il primo luglio 2025, e che porta con sé una tensione disgregativa tra industria e politica, tra governance e mercato. La tassa sullo zucchero, più che una semplice misura fiscale, si configura come una superficie di attrito, un dispositivo in cui si intersecano le logiche di salute pubblica e le dinamiche economiche, dando vita a un paradosso emblematico della contemporaneità: l’imposizione di un principio che vorrebbe orientare la società verso un bene comune, e al contempo il rischio di una decadenza irreversibile del tessuto produttivo nazionale.

Non si tratta qui di un mero scontro tra categorie, né di una semplice contrapposizione tra domanda e offerta, ma di un campo di tensione in cui il significato stesso della produzione e del consumo viene sospeso. L’Assobibe, associazione che rappresenta le aziende produttrici di bevande analcoliche, denuncia con forza come la Sugar tax implichi un aumento dei costi, stimato in oltre 2,2 milioni di euro per gli adempimenti fiscali, che colpirebbe soprattutto le piccole e medie imprese con perdite comprese tra i 25 e i 90 mila euro. Ma è nel calo delle vendite previsto – un 16% nel biennio successivo – e nella conseguente diminuzione del gettito fiscale, stimato in 275 milioni di euro di mancato Iva, che si rivela la vera contraddizione: una misura che vorrebbe essere fonte di entrate e di promozione della salute si trasforma in un meccanismo di sottrazione, di erosione delle risorse economiche necessarie al funzionamento stesso dello Stato.

Si profila così un rinvio che non è semplice procrastinazione, ma la manifestazione di un’epoca in cui le categorie di politico e di economico si smarriscono nella loro reciproca dipendenza, portando a un blocco temporale in cui nessuna decisione può essere compiuta senza provocare una frattura insanabile. La richiesta di un tavolo urgente con il governo da parte di Assobibe appare dunque come una richiesta di rinegoziazione dello spazio politico, un tentativo di trovare una mediazione in un momento storico in cui il legame tra impresa e Stato appare più fragile che mai. Non è soltanto una questione di bilanci o di ricadute immediate, ma di un’interruzione della continuità che minaccia di compromettere la stessa identità produttiva del Made in Italy, che, come sottolinea l’associazione, rischia di essere penalizzato da una norma che colpisce prodotti di qualità senza reali effetti sulla salute.

In questa dinamica si riflette il tema più ampio della contemporaneità, quello della crisi della sovranità in quanto capacità di decidere, di stabilire ciò che deve essere incluso e ciò che deve essere escluso, ciò che deve essere permesso e ciò che deve essere proibito. La Sugar tax, dunque, è il luogo di un conflitto che non si risolve nel mero piano della politica economica, ma si estende all’interrogazione sull’essenza stessa della decisione politica nel nostro tempo. È un dispositivo che mette in luce la distanza crescente tra le intenzioni normative e gli effetti concreti, tra la volontà di tutela della salute pubblica e la realtà del mercato globale.

Se in Italia la tensione si concentra intorno alla Sugar tax, la Germania si trova immersa in una crisi di stabilità politica e di direzione economica altrettanto profonda, un paradigma esemplare delle difficoltà dell’Unione Europea nel mantenere coesa la propria architettura istituzionale. La seconda presidenza Trump, che si profila all’orizzonte degli eventi politici statunitensi, agisce come un elemento perturbatore per Berlino, imponendo alla Germania la necessità di un governo stabile e orientato alle riforme, per resistere alle pressioni protezionistiche e ai rischi di guerra commerciale che si profilano con l’amministrazione americana. Un quadro che non si limita alla dimensione nazionale, ma investe l’intera geografia europea e globale.

La ricerca di Scope Ratings mette in evidenza come la crescita del PIL tedesco si stagni, con previsioni riviste al ribasso che indicano una quasi immobilità, uno zero virgola che diventa cifra paradigmatica di un tempo senza slancio. La Germania, fulcro produttivo e industriale europeo, appare così sospesa in un limbo, vittima di un contesto internazionale incerto e di una politica interna frammentata. La spesa pubblica, in particolare quella per la difesa e la transizione verde, si fa strada tra disavanzi fiscali e vincoli costituzionali, mentre le forze politiche estreme minacciano di bloccare ogni riforma, confermando il declino della capacità decisionale sovrana.

La Germania si configura così come un dispositivo che illustra le contraddizioni della sovranità europea: la necessità di rispondere a dinamiche internazionali complesse e allo stesso tempo il vincolo di istituzioni interne fragili e conflittuali. La politica fiscale, con i suoi limiti di spesa e le sue regole stringenti, diventa il luogo in cui si gioca la partita più decisiva, quella della sopravvivenza economica e sociale. La fragilità del governo Scholz, messa a nudo dall’uscita del Ministro delle Finanze, rispecchia non solo l’instabilità interna ma anche l’assenza di un orizzonte chiaro, di una direzione che sappia unire le istanze di crescita, sicurezza e sostenibilità.

Parallelamente, dall’altra parte dell’Atlantico, la Ferrari, icona del lusso e dell’eccellenza industriale italiana, chiude il terzo trimestre 2024 con risultati positivi, un dato che sembra sfidare la crisi generale che attanaglia il Paese. Il fatturato in crescita del 6,5%, un adjusted EBITDA aumentato del 7,1%, e l’utile netto a due cifre, testimoniano un modello di business solido e innovativo, capace di mantenere una visibilità estesa fino al 2026. La presentazione della supercar F80, la continua innovazione e la strategia di elettrificazione sottolineano come l’azienda sappia muoversi tra le sfide della transizione energetica e le esigenze di un mercato globale in rapida evoluzione.

Eppure, anche in questo quadro di successo si inseriscono elementi di vulnerabilità, come la leggera diminuzione delle consegne trimestrali, legata alle scelte di allocazione geografica e ai rallentamenti in alcune aree. La solidità finanziaria di Ferrari, con una liquidità superiore ai due miliardi di euro, si accompagna però a un contesto più ampio, quello della produzione industriale italiana, che registra un calo dello 0,4% a settembre 2024 e un -0,6% nel trimestre, segnali di una crisi strutturale che si aggrava.

Le cause di questo declino sono da ricondurre alle crisi specifiche di due settori chiave: l’automotive e il lusso. Il primo, simbolo della modernità industriale e della mobilità, si trova a dover affrontare la transizione energetica con un aumento dei costi che riduce la domanda e mette in crisi la produzione, come nel caso di Stellantis. Il secondo, incarnazione del Made in Italy più prestigioso, soffre per le tensioni internazionali che hanno compromesso i mercati tradizionali della Russia e della Cina, i cui rallentamenti si riflettono in modo drammatico sui distretti industriali italiani.

Questa duplice crisi non solo impoverisce la produzione, ma si fa portatrice di un senso di disarticolazione profonda, di perdita di punti di riferimento e di capacità di innovazione collettiva. È in questo contesto che il protezionismo emergente, incarnato dalla politica tariffaria proposta da Donald Trump, si configura come un’ulteriore complicazione, un aumento delle barriere che rischia di isolare e penalizzare le imprese italiane in un sistema globale che richiede, invece, una capacità di adattamento e di apertura.

La stima di Prometeia, che prevede un possibile raddoppio dei costi daziari tra 4 e 7 miliardi di dollari, pone sotto pressione settori cruciali come la moda e la meccanica, già fortemente colpiti dalle turbolenze internazionali. Il protezionismo, nella sua dimensione più radicale, non solo mette a rischio l’export ma genera un effetto domino che investe la stessa struttura produttiva e il suo ruolo nel contesto europeo e globale.

Non è solo questione di cifre o di rapporti commerciali, ma di un meccanismo di esclusione che si insinua nel cuore della produzione e della circolazione delle merci, configurando nuove frontiere di separazione e di conflitto. Il protezionismo non è solo politica economica, ma dispositivo politico che riproduce e amplifica le divisioni, configurando una nuova architettura di esclusione che impone riflessioni sulle condizioni della contemporaneità.

L’intersezione di questi eventi, apparentemente distanti e autonomi, si presenta come un intreccio che dissolve i confini tra economia, politica, società e cultura. La sospensione della Sugar tax in Italia, l’instabilità politica e fiscale in Germania, il dinamismo selettivo di Ferrari, il declino della produzione industriale italiana e l’ombra del protezionismo americano non sono fatti isolati ma nodi di una trama complessa, sintomo di un tempo caratterizzato da una crisi della decisione e da un’incertezza che si propaga attraverso tutte le strutture.

In questa condizione, il compito della filosofia e della critica si presenta come la necessità di decifrare e interpretare i segni di un’epoca, di rendere visibile ciò che tende a rimanere nascosto nelle pieghe della contingenza e dell’apparenza. La crisi della sovranità, l’interruzione del flusso produttivo, la contraddizione tra salute pubblica e sviluppo economico, la tensione tra apertura e chiusura dei mercati, sono tutte manifestazioni di una condizione in cui il presente si proietta in un futuro incerto, in una sospensione che è essa stessa una forma di decisione.

Nel ripensare queste dinamiche, si apre uno spazio per una riflessione critica che vada oltre la superficie delle cifre e delle misure, per interrogare le condizioni di possibilità di una nuova forma di politica e di economia che sappia coniugare la dimensione del bene comune con quella della produzione, la tutela della salute con lo sviluppo, la stabilità con la trasformazione. È in questo spazio che si gioca la possibilità di un nuovo orizzonte, che non sia più quello del rinvio indefinito ma della decisione effettiva, di un governo che non si limiti a gestire la crisi ma che sappia trasformarla.

 

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