Skip to main content

Trump “La Sindrome del Dazio”

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

A cura di Agostino Agamben

Tra trauma economico e dislocazione simbolica, la guerra tariffaria globale si manifesta come un dispositivo psico-politico che, al di là dei numeri e delle merci, ridefinisce i confini tra identità, sovranità e politica nell’epoca dell’instabilità permanente.

Non è forse nella tensione continua tra il visibile e l’invisibile, tra ciò che viene dichiarato e ciò che si cela sotto la superficie, che si manifesta il vero nodo delle guerre commerciali? La disputa che si è instaurata tra Unione Europea e Cina sul brandy, apparentemente marginale rispetto alle più roboanti guerre tariffarie sull’automotive e le nuove tecnologie elettriche, apre uno squarcio nella comprensione del modo in cui l’economia globale si configura oggi come un campo di battaglia non solo commerciale, ma ontologico e politico. L’oggetto del contendere — il brandy — non è solo un bene di consumo, ma un segno, un luogo di mediazione culturale e identitaria, un residuo di un patrimonio europeo messo in crisi da un’imposizione cinese che si qualifica come pratica di dumping, ma che al contempo rivela le fratture di un ordine economico mondiale frammentato.

Le auto elettriche, cuore pulsante dello scontro sulle tariffe, trascinano con sé un intero sistema di relazioni e di valori, ma il brandy, etereo e radicato nella storia europea, si fa portatore di un’altra dimensione: quella di una perdita simbolica e materiale che si proietta su un piano di reciproca ostilità mascherata da normative economiche. L’atto della Cina di imporre dazi anti-dumping, con margini che oscillano tra il 30 e il 40 per cento, non si riduce a una mera contingenza commerciale, ma si iscrive in una logica di esclusione che si estende ben oltre le merci. Si tratta di una guerra, sì, ma di una guerra che ha perso la sua forma tradizionale e si svolge in un campo fluido, dove le regole del gioco sono continuamente riscritte, e dove la nozione stessa di sovranità appare come sospesa.

È in questo contesto che si colloca l’annuncio di Donald Trump, che con il suo ritorno all’attacco sul piano tariffario ci riporta a una dimensione che sembrava superata: quella del conflitto frontale, netto e inequivocabile, che fa esplodere la fragile coesistenza delle economie interdipendenti. Con un gesto che sembra attingere a un residuo di sovranità esclusiva, Trump impone dazi del 25% su Messico e Canada e del 10% su Cina, legandoli a questioni che sfuggono al mero commercio, quali il controllo delle migrazioni e la lotta al traffico di droghe. L’inclusione di queste motivazioni conferisce alle tariffe una valenza di strumento di disciplina politica, un dispositivo di controllo che si innesta su quella che Giorgio Agamben definirebbe una «zona di eccezione», un’area in cui il diritto ordinario cessa di operare e lascia spazio a misure di sospensione e punizione.

Questa zona di eccezione non si limita a negare o restringere diritti, ma disarticola le connessioni economiche e sociali che fino a quel momento avevano retto il sistema. L’Accordo Usmca, che garantiva un libero scambio tra Stati Uniti, Messico e Canada, si ritrova appeso a un filo, come un orizzonte che si dissolve sotto il peso delle nuove imposizioni. Il messicano peso economico di questa alleanza si sgretola sotto il peso di un confine nuovamente marcato, di una barriera che non è soltanto fisica ma simbolica, una linea che segna la fine di un paradigma di cooperazione e l’inizio di una guerra commerciale che si estende ai territori più sottili delle relazioni internazionali.

La risposta cinese, misurata e diplomatica, appare al tempo stesso come una dichiarazione di impotenza e di resistenza. Nel ribadire che «nessuno vincerà una guerra commerciale», Pechino svela la natura paradossale di questo conflitto: una lotta che non può essere vinta perché non ha vincitori nel senso tradizionale. La cooperazione e la competizione si intrecciano come in un nodo gordiano che nessuno riesce a sciogliere, mentre le azioni concrete si dispiegano in una dimensione che possiamo definire quasi politica, il controllo e la gestione delle popolazioni — qui rappresentate dagli immigrati e dal flusso di sostanze chimiche precursori di droghe — si intrecciano inestricabilmente con le dinamiche economiche e commerciali.

Il dazio, quindi, diventa uno strumento di governo della vita stessa, una modalità di sospensione del diritto che si esercita attraverso il controllo delle merci e dei corpi che si muovono lungo le linee di confine. L’atto di imporre tariffe aggiuntive finché non cesseranno i flussi di droga e immigrati si presenta come un paradigma della «sovranità assoluta» che decide sulla vita e sulla morte, sulla presenza e sull’assenza, rivelando come l’economia e la politica si fondano ormai su un meccanismo di eccezione permanente.

Tuttavia, non è solo la dimensione politica a essere messa in gioco, ma anche quella culturale e simbolica. Il brandy, le auto elettriche, i prodotti agricoli non sono meri oggetti di scambio, ma portatori di identità, di storie, di appartenenze che la guerra dei dazi si incarica di spezzare o di ridefinire. Il commercio diventa così una forma di biopolitica, una gestione delle differenze e delle esclusioni che produce nuove gerarchie e nuove linee di demarcazione.

È dunque possibile leggere in queste tensioni una crisi del paradigma neoliberale che aveva dominato la globalizzazione economica degli ultimi decenni, un paradigma che fondava la propria legittimità sulla promessa di un’integrazione senza barriere, di un mercato unico globale che avrebbe dovuto dissolvere i confini tradizionali. La nuova ondata protezionistica, con i suoi dazi punitivi e le sue motivazioni extra-economiche, si presenta come una rottura che mette in luce la fragilità di questo sistema, la sua incapacità di contenere le contraddizioni insite nella sovranità territoriale, nella sicurezza nazionale, nell’identità culturale.

Nel contempo, è interessante osservare come la risposta europea non si limiti alla mera difesa economica, ma tenti di ricostruire un quadro normativo che faccia leva sul diritto internazionale e sull’Organizzazione Mondiale del Commercio. L’UE si presenta come un’entità che vuole governare la crisi attraverso l’ordine del diritto, opponendo alla violenza delle tariffe una procedura formale, un’arena in cui si discute la legittimità delle misure adottate. Questo movimento di restituzione al diritto è però paradossale: da un lato afferma la necessità di regole condivise, dall’altro rivela la debolezza di un sistema che non riesce a prevenire né a risolvere le crisi ma solo a contenerle temporaneamente.

Le grandi aziende europee del brandy, come Jas Hennessy & Co. e Rémy Martin, diventano dunque testimoni e vittime di questo gioco complesso, in cui l’economia globale si intreccia con la geopolitica e la cultura. La battaglia del brandy è al tempo stesso una battaglia per il riconoscimento e la difesa di un patrimonio che travalica il valore economico immediato, un tentativo di resistere alla dissoluzione di un ordine simbolico che si sta sgretolando sotto la pressione delle nuove logiche di potere.

Questa frammentazione delle relazioni internazionali, l’intersezione tra diritto, economia, politica e biopolitica, ci porta a riflettere su cosa significhi oggi la «guerra» in un mondo globalizzato. Non è più la guerra tradizionale tra eserciti e stati sovrani, ma una guerra molteplice, diffusa, fatta di sanzioni, dazi, misure amministrative, controlli e restrizioni, che attraversa e modella la vita quotidiana, i mercati, le identità.

In questo scenario, il confine emerge come un dispositivo centrale. Non più solo una linea geografica, ma un luogo di decisione sovrana, di esclusione e inclusione, un meccanismo che governa l’accesso ai beni, alle persone, alle possibilità di vita. La crisi dei dazi tra UE, Cina, Stati Uniti, Messico e Canada mette a nudo questo dispositivo e ci mostra come il confine sia diventato il luogo in cui si decide non solo chi può entrare o uscire, ma quale ordine economico, politico e simbolico si afferma o si disgrega.

Nonostante la retorica della guerra commerciale sembri promettere una risoluzione netta, la realtà è che ogni mossa apre nuovi spazi di contesa, nuovi campi di tensione in cui si intrecciano interessi contrapposti e alleanze fragili. Il dazio sul brandy, le tariffe sulle auto elettriche, le minacce contro i flussi migratori e le droghe sintetiche sono tutte facce di una stessa medaglia, riflessi di una crisi più profonda che investe la natura stessa della sovranità, del diritto e della globalizzazione.

La questione allora non è tanto chi vincerà o perderà questa guerra commerciale, ma come questa guerra, nella sua forma attuale, riveli e produca il modo in cui il potere si esercita oggi, sospeso tra legge e eccezione, tra mercato e politica, tra identità e esclusione. E forse è proprio in questo intreccio che possiamo cogliere il senso più autentico di ciò che si gioca dietro i dazi, dietro le sanzioni, dietro le minacce che rimbombano tra Washington, Bruxelles, Pechino, Città del Messico e Ottawa: un conflitto che non si risolve più sui campi di battaglia tradizionali, ma dentro la trama stessa delle relazioni economiche e politiche che definiscono il mondo contemporaneo.

Condividi su: