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Mercato Americano: Opportunità per le Aziende Italiane

Italia e Europa il prisma degli squilibri

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

A cura di Agostino Agamben

Nel cuore del mercato europeo 2024, l’Italia si conferma epicentro di tensioni macroeconomiche e politiche, riflettendo una condizione di eccezione permanente tra debito, controllo e crisi strutturali, mentre l’Unione si confronta con un equilibrio fragile tra norme, mercati e sovranità in un tempo finanziario dilatato e incerto.

In questa epoca in cui la visibilità è divenuta la cifra dominante della politica, la finanza rappresenta il luogo in cui ciò che è decisivo avviene, per lo più, nell’invisibile. Il capitale finanziario non ha volto, né corpo; è una pura forza di astrazione che agisce nel vuoto, eppure condiziona il concreto, determina il possibile, delimita il dicibile. Lo spread, il rating, i rendimenti obbligazionari non sono semplici segnali economici, ma dispositivi semiotici: generano effetti reali a partire da giudizi proiettati nel futuro. Non si tratta più di un’economia fondata sul lavoro e sulla produzione, ma di un’economia del segno, del rischio e dell’anticipazione.

L’Italia, nell’essere perennemente esposta al giudizio dei mercati, si offre come laboratorio della vulnerabilità democratica nello spazio economico europeo. Il debito diventa così non solo un’eredità storica, ma un paradigma dell’impotenza contemporanea: esso si comporta come un doppio legame, una struttura che obbliga alla sottomissione nel momento stesso in cui promette la salvezza. L’obbligo al pareggio di bilancio inscritto nella Costituzione, le regole del Patto di Stabilità, i vincoli di Bruxelles: tutto ciò costituisce una macchina normativa che rende la sovranità un simulacro, un gesto svuotato della propria efficacia.

Se il potere sovrano si definiva, secondo la tradizione, come colui che decide sullo stato di eccezione, oggi è il mercato – o meglio: il dispositivo di mercato – a esercitare questa funzione, senza mai apparire come tale. È il mercato che decide quando uno Stato è “affidabile”, quando un piano di bilancio è “credibile”, quando un governo può continuare a esercitare le sue funzioni. Ma lo fa attraverso un insieme di indici e segnali che non sono mai responsabilità di alcuno, che non rispondono a nessun criterio democratico, e che proprio per questo acquistano un’autorità che si sottrae a ogni contestazione. Siamo qui al cuore di una nuova forma di potere: un potere anonimo, impersonale, ma totale.

La crisi, in questa prospettiva, non è l’eccezione ma la norma. Essa non è qualcosa che irrompe dall’esterno per minacciare un ordine prestabilito; piuttosto, essa è il modo in cui quell’ordine si riproduce. Non c’è oggi governance economica senza una continua produzione di crisi: il rischio sistemico diventa così la condizione permanente dell’equilibrio, la giustificazione per nuove misure, nuove regole, nuovi adattamenti.

Gli stress test della Federal Reserve, la revisione dei bilanci statali da parte della Commissione europea, le continue rettifiche delle previsioni di crescita da parte del FMI: tutto questo compone un paesaggio della precarietà istituzionalizzata, in cui l’instabilità è sorvegliata, calcolata, preventivata, ma mai risolta. È il “governo della crisi” – non come misura eccezionale, ma come forma regolare dell’amministrazione.

In tale scenario, la trasparenza diventa l’altro volto dell’opacità. Le banche reclamano regole certe, ma solo nella misura in cui esse non riducono la flessibilità strategica del capitale. L’autorità monetaria reclama indipendenza, ma solo nella misura in cui può esercitare un controllo privo di contropoteri reali. E la politica, che dovrebbe essere il luogo della decisione collettiva, si ritira, diventa gestione tecnica, si frammenta in atti regolativi che non hanno più né autore né destinatario.

In questo senso, la crisi della politica non è un effetto collaterale della globalizzazione economica, ma la sua condizione di possibilità. È solo quando la politica rinuncia al proprio ruolo sovrano che l’economia può divenire pienamente ciò che è: una macchina di produzione dell’ordine. Ma un ordine che non è mai stabile, perché fondato sull’instabilità come forma di vita.

Milano, Francoforte, Parigi, Londra: ogni borsa è un palcoscenico su cui si rappresenta il dramma dell’economia contemporanea. I titoli salgono e scendono, ma ciò che si muove davvero è la percezione del rischio, la fiducia degli investitori, l’umore dei mercati. È un teatro in cui ogni atto è reale, perché produce effetti concreti, ma al tempo stesso è fittizio, perché le ragioni di quel movimento restano per lo più indecifrabili.

Il caso di titoli come MPS, Unicredit, Saipem, TIM non è marginale. Sono aziende che, per ragioni diverse, incarnano l’ambivalenza dello Stato nel mercato: partecipazioni pubbliche, strategie di rilancio, fusioni e spinte speculative si intrecciano in un groviglio inestricabile. Lo Stato non è né dentro né fuori il mercato: è in una zona d’indistinzione, in cui agisce senza apparire e appare senza agire. In questa zona, la trasparenza diventa impossibile e, al tempo stesso, necessaria.

La Borsa di Milano – con la sua volatilità costante – si fa immagine di un’Italia che non riesce a sottrarsi al proprio destino di oscillazione. Le fasi di ripresa sono seguite da nuovi allarmi, le buone notizie sono immediatamente compensate da segnali di prudenza. E il dibattito economico non riesce mai a separarsi del tutto dalla retorica della crisi, come se ogni passo avanti fosse già la premessa di un futuro arretramento. Si tratta, più che di un ciclo, di una spirale: un movimento in cui si torna sempre nello stesso punto, ma da un’altezza diversa.

Nel cuore di questo sistema, il denaro non è solo mezzo di scambio o unità di conto. Esso è forma di fiducia istituzionalizzata, rappresentazione materiale della relazione tra Stato, cittadini e mercato. Quando il rendimento del BTP decennale tocca il 3,51%, non è solo il costo del finanziamento a crescere; è la misura della fiducia che il mercato attribuisce alla capacità dello Stato di onorare i propri impegni. Ma cosa accade quando quella fiducia si basa su un futuro che nessuno può garantire?

La fiducia, allora, si trasforma in scommessa, e la politica si riduce a un calcolo delle probabilità. In questo scenario, l’unico linguaggio legittimo diventa quello delle agenzie di rating, dei target di deficit, delle revisioni trimestrali. La sovranità, che un tempo era definita dalla possibilità di decidere sul futuro, è oggi una funzione derivata dal credito.

In tale contesto, l’Unione Europea si trova a un bivio strutturale: continuare a governare attraverso la molteplicità delle sue regole – sempre più complesse, sempre più astratte – oppure ripensare radicalmente la propria costituzione materiale. Ma ogni tentativo di riforma appare inceppato, perché ciò che è in discussione non è un singolo parametro o una specifica politica, bensì l’intero paradigma governamentale su cui si fonda l’Unione.

È allora possibile immaginare un’Europa che non sia soltanto una tecnica di regolazione dei bilanci, ma un progetto politico condiviso? Una comunità che non nasca dalla paura del fallimento, ma dalla volontà di costruire un destino comune? Queste domande, che risuonano debolmente nei palazzi istituzionali, emergono con forza nei margini, tra coloro che vivono gli effetti della crisi senza poter nominare le cause.

Forse, è proprio nei luoghi in cui il capitale mostra le sue ferite – le periferie produttive, le aree interne, i mercati secondari – che si può intravedere l’inizio di una riflessione altra, una politica che non si fondi solo su parametri e algoritmi, ma su forme di solidarietà, di mutualismo, di cooperazione. Un’economia della prossimità, che non rifiuti il mercato, ma lo reinterpreti, lo ridimensioni, lo riconduca a misura umana.

Ma questo non sarà possibile finché il dispositivo della crisi continuerà a operare come unica grammatica del reale, finché ogni deviazione dalla norma sarà interpretata come minaccia, e non come occasione per rinegoziare le condizioni della convivenza.

Così, in questo scenario in cui il tempo del capitale si fa eterno presente e la politica si consuma nell’amministrazione dell’instabilità, l’Italia continua a oscillare tra centralità e marginalità, tra promessa e disincanto. Non come eccezione, ma come specchio – forse deformato, ma rivelatore – dell’intera costruzione europea.

Nel ripetersi delle crisi, nei ritorni dello spread, nelle tensioni tra banche e regolatori, nei giorni di borsa e nelle pause festive, si rivela una verità che non è né economica né politica, ma ontologica: che il potere oggi non decide più, ma calcola; non costruisce, ma gestisce; non comanda, ma sorveglia. E che la possibilità di una politica autentica – se ancora esiste – può nascere solo a partire da questa consapevolezza.

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