I Dazi Doganali
Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in Economia e Politica.
A cura di Agostino Agamben
L’impatto economico globale e le complesse dinamiche tra protezionismo, competitività internazionale e instabilità finanziaria.
I dazi doganali, con la loro forma e funzione, emergono come un elemento centrale nelle dinamiche politiche ed economiche internazionali. Essi rappresentano, a prima vista, un semplice strumento di politica commerciale, ma una volta disvelata la trama che li avvolge, si rivela un intreccio complesso di interessi economici, potere statale e relazioni sociali che si estendono oltre il mero scambio di beni. La domanda centrale, a cui ancora oggi si tenta di rispondere, è: chi paga davvero i dazi?
La risposta, tuttavia, è tutt’altro che semplice e lineare. A ben guardare, il dazio non è un costo che si accumula in un punto preciso e facilmente individuabile del sistema economico, ma piuttosto una sorta di fiume che si snoda, attraversando le differenti fasi della produzione e della distribuzione. I costi che esso implica non si fermano al confine di un paese, ma proseguono attraverso il flusso di merci e capitali, per arrivare a toccare, in modo talvolta paradossale, non solo i produttori, ma anche i consumatori e, in certi casi, anche coloro che applicano questi stessi dazi.
Nel corso della storia economica, i dazi sono stati pensati come strumenti protettivi per le economie nazionali, una difesa, seppur parziale, contro la concorrenza esterna. Le politiche tariffarie sono concepite per difendere i produttori interni, impedendo che i beni importati possano accedere a condizioni di mercato più favorevoli rispetto a quelli prodotti localmente. Tuttavia, il peso di tale protezione non ricade mai in modo uniforme: i dazi, sebbene progettati per pesare sulle imprese importatrici, si riversano su una rete complessa di soggetti, che va dal produttore al distributore, fino al consumatore finale. Il principio, apparentemente semplice, che i produttori assorbono il costo dei dazi, si scontra con una realtà ben più articolata. Infatti, in un contesto di alta competitività, dove la sostituibilità di un bene è molto alta, i produttori non sono in grado di trasferire facilmente questi costi ai consumatori, senza rischiare di danneggiare la domanda stessa.
Il nodo cruciale, quindi, è il comportamento della domanda, ovvero la capacità di quest’ultima di adattarsi ai cambiamenti di prezzo. La sua elasticità diventa un fattore determinante, eppure tale elasticità non può essere intesa come un dato fisso o determinato a priori. In un mercato globale altamente interconnesso, dove la concorrenza e la disponibilità di alternative sono sempre più forti, la risposta del consumatore ai cambiamenti dei prezzi è di per sé fluida, incerta, e dipendente da una serie di fattori contingenti.
La questione diventa ancora più complessa se la osserviamo alla luce della recente evoluzione delle politiche economiche globali. È interessante notare come la crescente reazione protezionistica, rappresentata in particolare dall’amministrazione Trump, non si limiti alla semplice introduzione di dazi, ma si estenda anche a operazioni finanziarie internazionali. Questo approccio radicale alle politiche commerciali ha contribuito a creare una spirale di instabilità che si fa fatica a controllare. La cosiddetta “guerra commerciale” tra gli Stati Uniti e altri attori globali è ormai un tema di discussione primaria nei corridoi internazionali. Ma mentre gli Stati Uniti si rivelano aggressivi nelle loro politiche tariffarie, risulta evidente che, come nel caso del dazio, l’impatto non è mai unidirezionale. I dazi e i controlli sulle operazioni finanziarie, pur pensati come una forma di protezione per l’industria nazionale, generano ripercussioni non solo sui paesi destinatari di tali misure, ma anche sulla stessa economia che li impone. Gli Stati Uniti, pur cercando di riequilibrare la propria bilancia commerciale, si ritrovano intrappolati in una serie di conseguenze non sempre facilmente prevedibili.
Un esempio tangibile di tale dinamica si osserva nell’analisi delle esportazioni italiane e tedesche verso gli Stati Uniti. Paesi come l’Italia e la Germania, che basano una parte significativa della loro economia sull’export verso gli Stati Uniti, si trovano a fronteggiare gli effetti devastanti delle politiche tariffarie di Trump. In una recente analisi di Prometeia, si prevede che l’Italia possa subire perdite fino a 9 miliardi di dollari a causa dell’introduzione dei dazi statunitensi. Il danno non si limita ai singoli settori industriali, ma investe tutta l’economia, minando la competitività e ampliando il gap tra i paesi che esportano verso il mercato statunitense e quelli che ne sono esclusi. È evidente che le misure tariffarie non sono solo una questione economica, ma un vero e proprio strumento geopolitico che interagisce con la stabilità globale.
L’effetto domino che si innesca non si limita ai mercati e alle economie nazionali. L’instabilità commerciale alimentata dall’introduzione dei dazi colpisce anche il settore finanziario, in particolare quello delle riserve auree. Il fenomeno della “fuga verso l’oro” che abbiamo visto nei mesi passati, quando i mercati finanziari hanno registrato un massiccio prelievo di lingotti dalla Banca d’Inghilterra, è il risultato diretto di un clima di incertezza crescente alimentato dalle politiche tariffarie di Trump. L’oro, da sempre considerato un bene rifugio, diventa una risposta immediata alla paura di svalutazione delle valute e di instabilità economica. Il flusso di lingotti verso New York e l’ulteriore aumento dei prezzi dell’oro sono una manifestazione tangibile di quanto le politiche economiche possano influire sulle dinamiche globali. I dati parlano chiaro: nel 2025 il prezzo dell’oro ha toccato picchi storici, superando i 2900 dollari per oncia, con un aumento che sembra non arrestarsi.
Il mercato dell’oro, però, non è immune da contraddizioni. Se da un lato l’oro si conferma un asset strategico per i governi e le banche centrali che cercano di proteggere le proprie riserve in un mondo che diventa sempre più volatile, dall’altro esso continua a essere un bene il cui valore dipende non solo dall’andamento dei mercati finanziari, ma anche dalle scelte politiche internazionali. La speculazione legata alle politiche tariffarie si mescola con la ricerca di stabilità, creando una spirale che contribuisce ad alimentare ulteriormente l’instabilità stessa.
Mentre gli Stati Uniti seguono una linea economica esplicitamente protezionista, l’Europa si trova a dover fare i conti con le proprie limitazioni strutturali. Non solo le politiche tariffarie che l’Unione Europea applica verso l’esterno, ma anche le barriere interne, che dovrebbero promuovere una maggiore coesione tra i paesi membri, spesso finiscono per indebolire il sistema economico complessivo. La stessa Unione Europea, pur essendo teatro di una liberalizzazione commerciale continua, ha visto crescere negli ultimi anni un paradosso: quella che doveva essere una zona di libero scambio è diventata un’arena di interessi contrastanti, dove la competitività è ostacolata da difficoltà strutturali interne.
Mario Draghi, ex presidente della Banca Centrale Europea, ha criticato ampiamente la mancanza di una vera e propria politica fiscale proattiva da parte dell’Europa, sollevando la necessità di abbattere le barriere interne e promuovere l’innovazione. In un editoriale sul Financial Times, Draghi ha sottolineato come l’Europa sia rimasta incapace di affrontare le proprie criticità strutturali, come i pesanti ostacoli normativi che rallentano la crescita. Questi vincoli, in particolare, si sono rivelati un freno alla competitività delle imprese europee, che, non riuscendo a innovare e a sviluppare nuove tecnologie, sono rimaste indietro rispetto ai paesi competitor, come gli Stati Uniti e la Cina.
Nel contesto europeo, l’attenzione si concentra in particolare sulla Germania, la cui politica fiscale e l’orientamento verso il “freno al debito” hanno acceso il dibattito sulla necessità di un cambiamento. La vittoria di Friedrich Merz e la possibilità di una riforma del freno al debito tedesco pongono interrogativi fondamentali per il futuro dell’economia della Germania e dell’Unione Europea stessa. La riforma di questa norma costituzionale, introdotta dopo la crisi finanziaria del 2008, potrebbe aprire la strada a una maggiore spesa pubblica, necessaria per rilanciare infrastrutture e investimenti in innovazione. Tuttavia, la strada verso questa riforma non è priva di ostacoli. La resistenza interna, legata alla tradizionale visione tedesca della disciplina fiscale, rischia di minare la stabilità politica del paese, creando frizioni tra le forze politiche e tra gli interessi economici nazionali e quelli europei.
La risposta alla domanda “Chi paga i dazi?” non può che essere vista come una questione complessa e sfaccettata, che abbraccia ogni angolo della politica economica internazionale. I dazi, lungi dall’essere un semplice tributo sui beni importati, sono una forza che agisce come un tessuto invisibile che collega economie, mercati finanziari, politiche interne e dinamiche geopolitiche, creando una rete in cui il costo delle misure tariffarie viene distribuito in modo imprevedibile e, talvolta, devastante. Eppure, alla fine, la domanda che rimane è quella di una ricerca di un nuovo equilibrio, che riesca a conciliare la protezione degli interessi nazionali con le esigenze di una comunità globale sempre più interconnessa.