
Economia ridefinisce l’identità politica dell’Europa
Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in Economia e Politica.
A cura di Agostino Agamben
“Europa nel tempo dei nuovi confini commerciali”
Nel pieno della riconfigurazione dell’ordine mondiale, l’Unione Europea affronta la pressione incrociata tra l’unilateralismo americano, l’espansionismo asiatico e la competizione per le risorse strategiche. I nuovi trattati commerciali si trasformano in strumenti di difesa ibrida, di diplomazia energetica e di consolidamento di una fragile sovranità continentale. Le negoziazioni economiche non sono più meri atti di apertura mercantile, ma atti geopolitici che definiscono alleanze, sfere di influenza e nuovi equilibri regionali, in un contesto in cui i dazi, le carbon tax e le mappe marittime valgono quanto le basi militari e i trattati di sicurezza.
L’Unione Europea, in questa fase di tensione globale, non si presenta come una potenza che impone, bensì come un organismo che cerca ossigeno. Il dazio evocato da Washington si fa spettro per l’economia europea ma non può diventare prigione. Così, invece di affidarsi a ritorsioni sterili, Bruxelles disegna un altro orizzonte: moltiplicare i partner, diversificare le relazioni, costruire tessiture alternative al sistema commerciale consolidato. Il libero scambio non è più solo ideale retorico; diventa strumento di resistenza. In questa cornice, emergono cinque poli, cinque direzioni strategiche in cui l’Europa spera di ritrovarsi e rifarsi: Sud America, Oceania, Asia meridionale, Sud‑Est asiatico e l’insieme delle acque mediterranee che separano e connettono. Tra queste traiettorie, l’Europa tenta un incespicare misurato, un passo che dia respiro senza cedere sovranità.
Il Mercosur — Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay — è il primo frammento di quel puzzle che Bruxelles tenta di rimontare. Venticinque anni di negoziati convergono in una proposta che coinvolge 700 milioni di persone: una zona di libero scambio che possa essere al tempo stesso simbolo e salvagente. Quando Ursula von der Leyen vola a Montevideo, l’atto assume forma quasi liturgica: firmare non diventa solo un gesto politico, ma la rivelazione di una volontà che tenta di anteporre il nodo europeo a un conflitto globale. E tuttavia, l’atto si accartoccia: la Francia teme concorrenza sleale, i contadini temono sprechi, il vincolo ambientale si affaccia come una spina. Il regolamento UE sulla deforestazione (EUDR) si pone allora come guardiano: deve evitare che le foreste brasiliane diventino merce d’importazione. Accade — inevitabile — che ogni quota, ogni limitazione, si trasformi in nodo d’inerzia. Democrazie che si contano, interdipendenze che si mettono alla prova: «non è solo un’opportunità economica, è una necessità politica», afferma von der Leyen, e l’affermazione suona come un invito a non vedere nei dazi semplici armi, ma sintomi di un disordine più profondo. Alcuni Stati europei, anche quelli inizialmente scettici, iniziano a piegarsi: la guerra commerciale che Trump ha dichiarato — con i suoi colpi improvvisi — trasforma il dialogo con il Mercosur in una questione di sopravvivenza strategica.
Ma l’Europa non può limitarsi al ritorno verso un unico continente. Nel silenzio delle distanze, l’Australia emerge come fronte cruciale: ricca di minerali essenziali, permeata di promesse per la transizione tecnologica, eppure bloccata fra interessi divergenti. I negoziati avviati nel 2018 si sono dipanati in moltissimi round: giunti ormai quasi all’orizzonte, si infrangono sulla barriera della produzione agricola. L’Unione teme l’accesso senza freni dell’agricoltura australiana, le sue lobby temono una concorrenza che si nutre della distanza. Eppure, l’accordo potrebbe aggiungere alla ricchezza europea circa 4 miliardi di euro di PIL — un premio che pesa in un contesto di compressione. Ma il ritorno globale dei dazi, la pressione di Stati Uniti e Asia Pacifico (che con il CPTPP concedono già all’Australia una via preferenziale), rendono urgente per l’UE uscire dallo stallo. Il nodo è che l’equilibrio agricoltura‑industria, in Europa, non può essere sciolto da un trattato: è una tensione sempre viva, una soglia che ogni governo teme di superare.
È in India invece che l’Unione vede forse la più grande opportunità e l’enigma più complesso. Von der Leyen vola a Nuova Delhi per presentare l’accordo «più grande al mondo del genere» — la promessa di un mercato comune per quasi due miliardi di persone, l’occasione per ancorare gli orizzonti indiani all’Europa. Ma l’accordo passato è fallito, i negoziati si sono impantanati. Le barriere indiane su auto, alcolici, settore agricolo hanno messo in difficoltà l’Europa già in passato. Questa volta, tuttavia, la posta è più alta: l’India potrebbe diventare un perno nel riequilibrio globale. Modi e von der Leyen dichiarano ambizioni comuni, ma Goyal, il negoziatore “duro”, minaccia ritorsioni sulla carbon tax europea — una minaccia che suona come avvertimento che ogni cedimento avrà il suo prezzo. E intanto Delhi mantiene un rapporto ambiguo con Washington: da un lato, cerca spazi di autonomia; dall’altro, accetta pressioni. Quando Goyal visita Bruxelles nei primi mesi del 2025, lo fa da protagonista di un gioco che non è diplomatico, ma strategico: mettere in concorrenza le potenze per massimizzare il proprio margine.
Si sposta così il focus verso l’Indonesia, gigante asiatico ancora poco esplorato nei rapporti con l’Europa. Nazione dell’ASEAN, quarta potenza demografica mondiale, l’Indonesia possiede ricchezze minerarie che l’Europa vorrebbe — nichel, terre rare, materie prime critiche — ma chiede flessibilità nelle norme ambientali che l’Unione non intende cedere. Giacarta ha vietato l’esportazione del nichel — misura contestata davanti all’OMC — e chiede che il regolamento EUDR rimanga più blando, per non arretrare nel sistema produttivo dell’olio di palma. L’Unione, d’altro canto, vuole imporre standard che sono al tempo stesso barriera commerciale e atto politico. Il negoziato si trascina in un limbo, tra protesta, mediazione e minaccia implicita di ritorsione, perché qui il conflitto è già inscritto nelle strutture più profonde del potere economico.
Ma non basta: l’Unione volge lo sguardo verso il Sud‑Est asiatico, verso Malesia, Filippine e Thailandia — Stati che portano con sé memorie complesse, sogni interrotti, regimi autoritari sfumati. Negoziazioni con la Malesia si erano arenate per questioni legate all’olio di palma; con le Filippine, per questioni di diritti umani; con la Thailandia, per passati colpi di Stato. E oggi, nel 2025, quella trama riemerge: il Primo Ministro malese visita Bruxelles, un nuovo round è previsto; l’UE ospita colloqui con le Filippine e manda delegazioni a Bangkok. Ma ogni progresso è condizionato, ogni capitolo rimane provvisoriamente negoziato. È come se l’Europa stendesse una rete che sa benissimo di avere nodi deboli e lembi lenti.
L’oro percorre una sua metamorfosi geopolitica. Quando gli operatori istituzionali spostano, a dicembre, decine di tonnellate di oro fisico dalla Svizzera agli Stati Uniti, il gesto non è semplice operazione logistica: esso segnala timore di dazi e tensione con il potere monetario. L’oro, merce monetaria per definizione, è esentato dai dazi, ma la presenza fisica nel territorio conta. Ora che la minaccia si addolcisce, l’oro ritorna in Svizzera — non perché nulla cambi, ma perché alcune sicurezze sono immutabili. La Svizzera — neutrale, stabile, fiduciaria — rimane uno scrigno simbolico: il ritorno del metallo non è solo domanda di sicurezza, ma riaffermazione di una logica che il commercio non può cancellare.
Nel mare che circonda l’Europa, inoltre, si gioca un’altra partita: la Grecia dichiara la Zona Economica Esclusiva nel Mar Ionio, fino a Capo Tenaro, disegnando coordinate che non sono solo tecniche, ma affermazioni di sovranità. Il confine marittimo è gesto politico. Ankara risponde con la “Patria Blu” e contro-mappe: la sovranità, qui, non è solo disegno cartografico, è contrappunto di potere. E l’Europa — soggetto implicato — è chiamata a intervenire con mappa e discorso. La Grecia ricorda ad Ankara che L’Aia è aperta come via legale, ma sa che il diritto marittimo non decide chi domina le onde. Così ogni linea tracciata, ogni cartografia pubblicata, ogni retorica di cooperazione suona come sfida e come avvertimento.
In questo intreccio di territori e relazioni, l’Unione Europea appare come un dispositivo che non ha più margini di inerzia. Ogni ritardo diventa opportunità perduta, ogni rinvio un cedimento della propria autorevolezza. Non si tratta di rinunciare al potere, ma di trasformarlo: governare il commercio non come atto statuario, ma come arte della negoziazione continua. In un mondo dove il dazio torna dalla porta principale, l’Europa cerca vie che non siano solo difesa ma ricostruzione — ma non può farlo come fosse entità unica, chiusa e unitaria: si muove come arcipelago, come trama di accordi parziali, come scultura incompiuta.
Eppure, in questo movimento, rimane un interrogativo latente: può il commercio essere ancora dispositivo regolativo del potere, o si è ridotto a superficie su cui si proiettano conflitti più profondi? Ogni trattato — con il Mercosur, con l’Australia, con l’India, con l’Indonesia, con i Paesi del Sud‑Est asiatico — porta con sé rischi di frammentazione interna, contraddizioni ambientali, pressioni da lobby nazionali. E dietro ogni voce che chiede apertura, c’è sempre un’altra che chiede protezione. Il confine tra economia e politica si fa incerto, tra strategia e etica si dissolve. Ciò che resta, in ultima istanza, è la mappa di un potere che non si dichiara mai compiuto, ma si costruisce passo passo, taglio dopo taglio, trattato dopo trattato.
In questo modo, l’articolazione dei cinque assi non è una pianificazione rigida, ma movimento vivo, processo in divenire. L’Europa non parla da potenza forte, ma da soggetto che cerca salvezza nel cambiamento. Il commercio non è più solo scambio di merci, ma crocevia di alleanze. E la salvezza — se c’è — non si costruisce con muri e dazi, ma moltiplicando i ponti, con la consapevolezza che il vero esercizio del potere non è imporre, ma negoziare, modulare, articolare.