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L’inerzia del dispositivo energetico

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

A cura di Agostino Agamben

Strutture, vincoli e simulazioni dell’energia, entropia e illusioni di un progetto tecnico diventato meccanismo di governo del presente; un apparato di gestione del consenso dietro la retorica green e il ritorno della dipendenza sistemica al fossile come forma di potere.

Non si tratta soltanto di energia. Non si tratta nemmeno di economia, o almeno non nel senso in cui questo termine è normalmente inteso. L’energia, oggi, non è più una merce tra le altre, ma è diventata la forma simbolica della politica mondiale, il dispositivo silenzioso ma onnipresente attraverso cui si organizza il presente. Il ritorno dei petrodollari non è il semplice ritorno di una forma arcaica di scambio economico, ma è il ritorno del rimosso: ciò che era stato espulso dal discorso ufficiale della transizione ecologica, torna a reclamare il proprio posto al centro della scena.

Mentre si moltiplicano i piani per l’abbandono del gas russo, mentre la Commissione Europea fissa date e percentuali per l’addio definitivo alle fonti fossili, mentre le accise cambiano volto e il linguaggio si veste di green, l’intera architettura della cosiddetta transizione energetica rivela la propria natura illusoria. Non è in gioco un cambiamento, ma una riorganizzazione dell’inerzia.

Gli Stati Uniti, nel tentativo di riscrivere il proprio destino energetico, sono passati – in meno di vent’anni – da essere i maggiori importatori mondiali di petrolio a diventare esportatori netti. Nel 2005 importavano oltre 12 milioni di barili equivalenti al giorno. Oggi, nel 2024, ne esportano più di due milioni. Ma la trasformazione quantitativa non ha modificato la struttura qualitativa della dipendenza. L’economia americana continua a funzionare a debito, e il fabbisogno di capitali esterni resta invariato. Il petrolio prodotto in casa non ha estinto la sete finanziaria: l’ha solo mascherata.

In questa geografia mutante, i Paesi arabi produttori di petrolio ritornano come protagonisti del sistema-mondo. L’Arabia Saudita promette 600 miliardi di investimenti in dieci anni nel debito americano, prendendo idealmente il posto lasciato vacante da Cina e Giappone. Ma non si tratta solo di cifre. Si tratta di riconoscere che il petrolio non è mai uscito di scena: è rimasto sullo sfondo, come la riserva oscura di ogni sovranità economica.

Il ritorno dei petrodollari segna la fine della narrazione dominante secondo cui il mercato avrebbe progressivamente sostituito le fonti fossili con quelle rinnovabili. Al contrario: il mercato si è riorganizzato per mantenere il fossile invisibile, dissimulandone la centralità attraverso una retorica di transizione che è essa stessa un apparato.

Mentre il mondo scivola lentamente verso un nuovo equilibrio fossile, l’Unione Europea tenta di ritagliarsi un’identità energetica autonoma, allontanandosi dalla dipendenza storica dal gas russo. Dal 45% del fabbisogno energetico coperto nel 2021, si è passati al 19% nel 2024. E il piano della Commissione, sulla carta, è ambizioso: fine dei nuovi contratti con la Russia entro il 2025, e divieto totale di importazione entro il 2027, inclusi i flussi via nave e gasdotto.

Tuttavia, ciò che si presenta come una scelta politica appare, a uno sguardo più attento, come una necessità strutturale travestita da volontà. L’Europa non si emancipa dalla Russia per convinzione etica, ma perché costretta dalla logica della guerra e dalle pressioni degli alleati atlantici. E nel tentativo di liberarsi da una dipendenza, ne genera un’altra: quella dagli Stati Uniti, che diventano il nuovo partner energetico privilegiato, esportando GNL a prezzi fluttuanti ma strategicamente determinati.

Il passaggio dal gasdotto al gas liquefatto trasportato via nave non è neutro. Il gasdotto è immanente, territoriale, carico di una geografia politica che implica relazioni stabili. Il GNL è invece fluido, mobile, manipolabile. Ma questa flessibilità, anziché garantire maggiore libertà, rende più precario il legame energetico, soggetto alle oscillazioni del mercato e alle decisioni unilaterali dei fornitori.

Dentro questa cornice geopolitica si inserisce la riorganizzazione fiscale attuata da alcuni governi europei. In Italia, ad esempio, dal 15 maggio 2025 è entrata in vigore una riforma che abbassa le accise sulla benzina e le aumenta leggermente sul diesel. Il gesto è minimo, simbolico, ma profondamente rivelatore. La logica invocata è semplice: chi inquina di più, deve pagare di più. Ma il gesto fiscale è anche un gesto morale. Attraverso la tassazione, lo Stato produce una narrazione: quella in cui il cittadino partecipa alla transizione non tanto con comportamenti virtuosi, ma con un piccolo sacrificio economico.

La benzina, dunque, costa un po’ meno. Il diesel, un po’ di più. Ma al di là dei centesimi alla pompa, ciò che cambia è il rapporto tra soggetto e dispositivo. Il cittadino-automobilista non è più solo consumatore, ma attore dentro una rappresentazione etica della mobilità. Eppure, questa rappresentazione si regge su un paradosso: le accise vengono redistribuite per finanziare il trasporto pubblico, ma la struttura che impone il trasporto individuale – le città, le infrastrutture, la logistica del lavoro – resta intatta. La colpa è individuale, ma la causa è sistemica.

Un altro fronte della crisi energetica si apre nel settore agroalimentare. I dazi europei del 100% sui fertilizzanti russi e bielorussi, in vigore da luglio 2025, colpiscono un mercato che vale oltre 2 miliardi di euro. L’obiettivo dichiarato è doppio: punire Mosca e rilanciare la produzione interna. Ma il risultato è tutt’altro che lineare. I fertilizzanti russi, oggi tra i più convenienti per costi e logistica, rappresentano circa un quarto del fabbisogno europeo. Colpirli significa aumentare i costi per gli agricoltori, comprimere i margini, e trasferire il peso economico sulle famiglie.

La guerra commerciale, dunque, si riversa sulla fame. Il cibo diventa ancora una volta spazio di mediazione del conflitto, ma anche strumento di governo. L’Europa, in nome della sovranità energetica, produce insicurezza alimentare differita. E la filiera agricola, sempre più dipendente dall’esterno, si ritrova compressa tra dazi, prezzi e incertezze. Si impone allora una domanda scomoda: può esserci una vera transizione ecologica in un’economia che si nutre di sovranità esterna?

La produzione globale di petrolio torna a crescere. L’OPEC+, in una mossa interpretata come tentativo di stabilizzazione, aumenta l’offerta, spingendo il prezzo del greggio verso i 60 dollari al barile. Goldman Sachs rivede le proprie previsioni al ribasso, segnalando che un calo del prezzo avrà effetti positivi sull’inflazione, ma solo marginali sul PIL. In questo scenario, si manifesta un altro paradosso: il petrolio non è più percepito come risorsa scarsa, ma come merce abbondante da contenere.

Il calo dei prezzi alimenta i consumi, e questo rilancia la domanda. Ma la domanda, a sua volta, riattiva la dipendenza. Siamo prigionieri di una logica circolare: ogni riduzione di prezzo produce una ripetizione del modello fossile. La transizione si ritira,

lasciando il posto a una stagnazione strategica, dove nulla cambia davvero, ma tutto viene ridefinito nei termini della gestione.

Forse è questo il punto centrale: la transizione non è mai esistita come progetto reale, ma è stata un dispositivo discorsivo, una narrazione tecnocratica, un’immagine di futuro utilizzata per governare il presente. Ogni piano di decarbonizzazione, ogni roadmap energetica, ogni investimento green ha funzionato come un gesto differito, un annuncio rivolto più ai mercati che ai cittadini, più agli investitori che alle comunità.

Il Green Deal, le neutralità carboniche annunciate per il 2050, le tassonomie verdi, tutto questo compone un linguaggio performativo, dove ciò che conta non è realizzare la transizione, ma dare l’impressione che essa sia in atto. Così, mentre le centrali a carbone riaprono, mentre il gas torna a essere strategico, mentre il petrolio resta la vera moneta globale, si continua a parlare di fine dell’era fossile.

Ma è proprio questo il cuore del dispositivo: tenere insieme l’ineluttabilità del fossile e il desiderio del post-fossile, produrre una soggettività schizofrenica che deve consumare meno, ma deve crescere di più, che deve cambiare, ma senza smettere di essere consumatore. La transizione diventa allora una forma di gestione differita della crisi, uno strumento di governo delle aspettative e dei desideri.

Perfetto, proseguo allora da dove avevamo interrotto. Siamo a metà del percorso: ora ci addentriamo nella seconda parte del pezzo, dove le analisi si fanno più radicali, i nessi più profondi, e le contraddizioni sistemiche più evidenti. Questa sezione amplifica lo sguardo genealogico, con una critica che intreccia economia, biopolitica e dispositivi di soggettivazione.

Se la transizione è un dispositivo, allora non è sufficiente criticarne i limiti tecnici o le incongruenze politiche. Bisogna chiedersi che tipo di soggettività essa produce, quali comportamenti stimola, quali desideri modula, quali paure attiva. Non si tratta solo di cambiare i carburanti, ma di riarticolare la vita stessa attorno a nuove forme di legittimità energetica.

In questa chiave, la crisi energetica non è un’emergenza contingente, ma è una forma permanente di governo. Non si governa più attraverso la gestione delle risorse, ma attraverso la promessa della scarsità. La penuria energetica è diventata un orizzonte narrativo, un futuro continuamente evocato per giustificare misure nel presente. È così che si ottiene il consenso: non promettendo abbondanza, ma amministrando il rischio.

La biopolitica dell’energia funziona in questo modo: non si dice più “consuma”, ma “consuma meglio”; non si dice “sii produttivo”, ma “sii sostenibile”; non si dice “cresci”, ma “cresci responsabilmente”. È un linguaggio morale, ma soprattutto colpevolizzante. La colpa energetica è la nuova forma del debito. Ognuno è colpevole delle proprie emissioni, del proprio riscaldamento, del proprio trasporto, come in una liturgia laica della sostenibilità.

Qui si coglie la svolta più insidiosa: la logica green non si oppone al neoliberismo, ma ne è l’estensione adattiva. Il mercato verde non supera quello fossile: lo integra, lo mitiga, lo riarticola. Non si smette di produrre, si cambia la retorica con cui si produce. Le imprese inquinano, ma “compensano”; le banche finanziano le trivelle, ma investono anche nei pannelli solari. La transizione non è alternativa, ma complementare alla riproduzione capitalistica.

Tutto questo si regge su un trucco contabile: la finanziarizzazione del futuro. Le emissioni di oggi vengono giustificate con i crediti di carbonio di domani; l’inquinamento attuale è bilanciato da promesse future di riforestazione o innovazione tecnologica. Così il capitalismo verde diventa una scommessa sul tempo, un modo per differire la crisi e monetizzare la paura.

Il vero mercato che cresce, oggi, non è quello dell’energia rinnovabile, ma quello della speculazione sul clima. I futures ambientali, i fondi ESG, le obbligazioni verdi: tutto è convertito in asset, in rischio calcolabile, in rendita potenziale. La Terra diventa un portafoglio di risorse da ottimizzare. La CO₂ è la nuova unità di misura del valore. E la natura, lungi dall’essere salvata, viene riscritta nei termini della governance finanziaria.

Eppure, nonostante la narrazione green, la realtà materiale resta fossilizzata. Non si può costruire una turbina eolica senza acciaio; non si può fabbricare un’auto elettrica senza litio; non si può estrarre il litio senza diesel. La cosiddetta transizione è, in ogni fase, energivora e fossile-dipendente.

Ma c’è di più. Il fossile non è solo una fonte di energia: è una forma di organizzazione del tempo e dello spazio. Con il petrolio è nata l’accelerazione moderna, la logistica globale, la mobilità di massa. Il fossile è il carburante dell’ideologia del progresso. Abbandonarlo significherebbe smettere di credere in una certa idea di futuro, rinunciare al tempo lineare della crescita continua, accettare una discontinuità.

Ecco perché la transizione non avviene: perché metterebbe in crisi la struttura simbolica della modernità. Il petrolio non è solo nel motore, ma nel pensiero. È la sostanza che tiene insieme la fiducia nella tecnica, l’onnipotenza dell’uomo, il dominio sulla natura. Non basta sostituire una fonte energetica: bisogna decolonizzare l’immaginario.

Ma chi ha interesse a farlo? Chi può trarre vantaggio da una discontinuità radicale? Certamente non gli Stati, non le imprese, non i mercati. L’inerzia è sistemica. E chi la interrompe diventa una minaccia.

In questo quadro, la guerra non è un evento esterno, ma un meccanismo interno alla riproduzione del sistema. L’invasione russa dell’Ucraina ha offerto una formidabile opportunità per ristrutturare le alleanze energetiche, accelerare la dismissione selettiva del gas russo e creare un nuovo mercato del rischio. Le sanzioni non sono una punizione: sono una strategia di riorganizzazione.

La guerra ha legittimato nuove spese militari, nuovi investimenti infrastrutturali, nuove forme di controllo. In nome della sicurezza energetica si costruiscono rigassificatori, si stringono accordi opachi con regimi autoritari, si riattivano fonti fossili. L’emergenza giustifica tutto. Anche la contraddizione.

Così, mentre l’Europa alza barriere contro la Russia, firma contratti ventennali con Qatar, Algeria, Nigeria. Le stesse logiche estrattive continuano, semplicemente dislocate altrove. Il sangue resta, ma non si vede. Si compra a prezzo pieno la neutralità carbonica, mentre si esporta l’inquinamento nei deserti del Sud globale.

La guerra, dunque, non è un’eccezione alla transizione: è il suo motore nascosto. Serve a rendere legittimo l’indicibile, a trasformare una scelta regressiva in necessità pragmatica, a compattare il consenso sotto il segno della minaccia.

La conseguenza più inquietante di tutto questo non è solo economica o geopolitica, ma antropologica. La transizione – come dispositivo – produce una nuova forma di soggettività: il soggetto green, educato al risparmio, colpevolizzato per i propri consumi, incapsulato dentro una responsabilità individuale che maschera l’irresponsabilità sistemica.

Questo soggetto è l’opposto del cittadino politico: è un utente, un contribuente sostenibile, un consumatore responsabile. Non partecipa alle scelte energetiche: le subisce sotto forma di incentivi, tariffe, campagne informative. La democrazia si ritira, lasciando spazio a una governance post-politica, gestita da esperti, tecnici, consulenti.

La transizione, così intesa, diventa un dispositivo di depoliticizzazione. Ogni dissenso è bollato come negazionismo o ritardo. Ogni alternativa è esclusa come impraticabile. E ogni protesta – dai gilet gialli ai movimenti agricoli – viene ridotta a problema di ordine pubblico.

Il paradosso è evidente: nel nome dell’ambiente, si disattiva la politica. Nel nome del futuro, si sospende il presente. Nel nome della Terra, si governa la vita.

Che fare, allora, in questo paesaggio governato dalla fossilizzazione del possibile? Esiste una via d’uscita dalla transizione come dispositivo?

Una cosa è certa: non basta cambiare le tecnologie. Bisogna cambiare la logica. Non serve solo energia pulita: serve una società capace di vivere senza dipendere dalla crescita continua. Questo significa ridefinire cosa intendiamo per benessere, per lavoro, per mobilità, per tempo libero. Significa riorganizzare la vita fuori dalla tirannia dell’efficienza.

Ma prima ancora, significa recuperare il conflitto politico. Ridare voce ai soggetti collettivi. Riportare le decisioni energetiche nelle mani della cittadinanza. Non bastano i comitati tecnici: serve una costituente energetica. Serve un processo di democratizzazione profonda, in cui si possano rimettere in discussione le priorità, i modelli, le infrastrutture.

Infine, bisogna rompere il dispositivo. Smontare il meccanismo discorsivo che tiene insieme promessa, colpa e delega. Non si tratta di negare la crisi climatica – sarebbe assurdo – ma di ricollocarla dentro una critica dei rapporti di potere. Perché il problema non è solo quanta energia usiamo, ma chi decide come viene prodotta, dove, da chi, per chi.

Solo così si può pensare a una vera transizione. Non come gesto tecnico, ma come atto politico e radicale. Non come continuità modernizzata, ma come rottura epistemica. Non come greenwashing del capitalismo, ma come decarbonizzazione del pensiero stesso.

Solo allora, forse, potremo immaginare un mondo davvero post-fossile. Non solo nei mezzi, ma nei fini. Non solo nelle fonti, ma nelle forme di vita.

In ultima analisi, ciò che chiamiamo transizione è un simulacro, una figura retorica che nasconde l’impossibilità di cambiare davvero senza rimettere in discussione tutto. Non esistono scorciatoie. Non ci sarà nessun capitalismo green, nessuna crescita sostenibile, nessuna armonia spontanea tra mercato e ambiente.

La scelta è netta: o si resta dentro il fossile – nei suoi apparati, nelle sue logiche, nei suoi desideri – o se ne esce rompendo la grammatica del mondo così come lo conosciamo.

Il tempo non è dalla nostra parte. Ma la storia non è ancora scritta.

 

 

 

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