
Il Crollo delle Ricchezze Globali e le Disuguaglianze Emergenti
Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in Economia e Politica.
A cura di Agostino Agamben
Come la concentrazione di potere economico, la guerra in Ucraina e le politiche fiscali internazionali alimentano il divario tra ricchi e poveri, minando l’ordine economico mondiale.
La crisi globale, alimentata dalla guerra in Ucraina, ha esposto il fragile equilibrio di un potere economico che, fino a poco tempo fa, sembrava incrollabile. Gli oligarchi russi, una classe di potere che per decenni ha dominato l’economia mondiale grazie alla sua impenetrabilità e alla sua connessione con il Cremlino, si sono trovati improvvisamente in difficoltà. Le perdite devastanti che hanno subito, a partire dal primo mese dell’invasione, sono diventate emblematiche di una crisi più profonda che investe il sistema globale della ricchezza. Non si tratta più di semplici fluttuazioni di mercato, ma di una vera e propria disgregazione dei poteri che reggono il sistema economico mondiale. La guerra, con la sua imprevedibilità e violenza, ha messo in luce la fragilità di una classe che sembrava in grado di eludere qualunque crisi, qualunque minaccia. La disuguaglianza economica, purtroppo, ha trovato in questo conflitto un palcoscenico ideale.
Leonid Mikhelson, ad esempio, azionista di Novatek, uno dei principali produttori di gas naturale della Russia, ha perso 4,5 miliardi di dollari in un solo mese, pari al 16,4% della sua fortuna. Vagit Alekperov, presidente della compagnia petrolifera Lukoil, ha subito un danno simile, sebbene maggiore in termini percentuali, con una perdita di 4,3 miliardi di dollari, pari al 17,1% del suo patrimonio. La lista continua con Alexey Mordashov, azionista di Severstal, e Gennady Timchenko, uno degli uomini più potenti della Russia, con perdite paragonabili. La guerra ha tracciato una linea netta tra il passato, in cui la ricchezza appariva inossidabile, e un presente in cui i super-ricchi russi sono costretti a fare i conti con la caducità delle proprie fortune. Le sanzioni internazionali, la caduta del rublo e la crisi interna del paese hanno eroso la stabilità economica della Russia e dei suoi magnati. Ma questa non è una realtà limitata alla Russia. È, piuttosto, un sintomo di un fenomeno che attraversa tutte le economie occidentali, dove la ricchezza sta diventando sempre più mobile e inaccessibile.
Nel Regno Unito, ad esempio, l’1% della popolazione detiene circa due terzi della ricchezza nazionale. Questo dato, che mostra una disuguaglianza senza precedenti, si è ulteriormente accentuato in seguito alla proposta di una tassa patrimoniale da parte del governo britannico. Secondo uno studio commissionato dal Times, il 53% dei milionari britannici ha dichiarato di essere disposto a trasferirsi all’estero se la tassa venisse effettivamente introdotta. La prospettiva di una riforma fiscale che preveda un’imposta sul patrimonio per i più ricchi ha sollevato un’ondata di reazioni tra i super-ricchi, che vedono in questa misura una minaccia alla loro accumulazione. Ma non si tratta solo di un calcolo fiscale: la mobilità dei capitali rappresenta un indicatore di un sistema economico che sta perdendo la sua capacità di garantire una redistribuzione equa della ricchezza.
Lo stesso fenomeno di “fuga fiscale” si è già manifestato in altri Paesi, come gli Stati Uniti, l’Australia e gli Emirati Arabi Uniti, dove i super-ricchi si rifugiano in giurisdizioni con regimi fiscali favorevoli. Un sistema che consente loro di proteggere i propri beni, eludere le tasse e, in ultima analisi, perpetuare un ordine economico che favorisce l’1% più ricco a discapito delle classi medie e basse. Questo divario crescente è ormai intollerabile, ma la soluzione proposta da molti, come il senatore statunitense Bernie Sanders, non è solo una riforma fiscale che garantisca maggiore equità, ma una riconsiderazione dell’intero sistema economico, che ha permesso una concentrazione di ricchezza senza precedenti, giustificata da una meritocrazia ormai obsoleta.
Ma la disuguaglianza non si limita all’aspetto fiscale. Essa permea ogni aspetto della vita sociale, politica ed economica, creando una frattura che sembra insormontabile. La globalizzazione, che ha permesso una concentrazione mai vista di potere economico nelle mani di pochi, è ora alle prese con le sue contraddizioni. La crescita esponenziale delle disuguaglianze è accompagnata dalla crescente mobilità dei super-ricchi, che si spostano alla ricerca di paradisi fiscali che garantiscano loro la possibilità di accumulare ricchezza senza rispondere in alcun modo alle esigenze della collettività. L’1% della popolazione mondiale possiede oggi quasi i due terzi della ricchezza globale, mentre il resto della popolazione continua ad affrontare il peso della povertà, della disuguaglianza sociale e dell’erosione dei diritti.
Le reazioni alla proposta di una tassa patrimoniale non sono solo un riflesso di un’imposizione fiscale. Sono la manifestazione di un problema ben più profondo: la crescente separazione tra chi detiene il potere economico e chi non ha alcuna possibilità di sfuggire al peso delle crisi. La crisi economica, la pandemia e la guerra hanno solo reso ancora più evidenti le disuguaglianze. Ma la fuga dei capitali è anche una forma di resistenza contro un sistema che non vuole accettare di essere messo in discussione. Mentre i poveri sono costretti ad affrontare l’impoverimento, i ricchi si muovono con estrema facilità attraverso le frontiere, trasferendo i loro capitali in Paesi che offrono una protezione fiscale. Non è più una questione di ricchezza in sé, ma di potere, di chi ha la possibilità di sottrarsi alle leggi e alla responsabilità sociale.
La reazione dei super-ricchi britannici alla proposta di una tassa patrimoniale è solo l’ultimo capitolo di una storia che si ripete in tutte le economie avanzate. Se da un lato, la maggioranza della popolazione si trova a fare i conti con la precarietà, la perdita di lavoro e l’aumento dei costi di vita, dall’altro, una ristretta élite di individui è in grado di sottrarsi alle tasse, allineando i propri interessi con quelli di governi che difendono la loro libertà di accumulare. La fuga fiscale è un segno della fine di ogni progetto di giustizia sociale, una manifestazione di un sistema che, pur avendo come principio fondante l’idea della meritocrazia, non fa altro che consolidare il potere dei ricchi e accrescere le disuguaglianze.
Il dibattito sull’imposta patrimoniale, quindi, è solo un aspetto di una questione ben più grande: chi deve pagare il prezzo della transizione ecologica, delle crisi sociali e ambientali che stiamo attraversando? La risposta sembra ovvia, eppure è difficilissima da realizzare. La concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi non è solo il risultato di una distorsione del sistema economico, ma il prodotto di politiche che hanno favorito un’esplosione delle disuguaglianze, accrescendo la capacità di pochi di sfuggire a ogni tipo di responsabilità.
Il paradosso, tuttavia, è che le classi più ricche si sono trovate a fare i conti con la stessa fragilità che hanno sempre negato agli altri. La guerra in Ucraina, da un lato, ha distrutto la fortuna di molti degli oligarchi russi, ma dall’altro ha rivelato quanto fragile possa essere la ricchezza. Nella sua volatilità, la ricchezza è diventata il simbolo di una società che ha perso il controllo di sé stessa, e che ora si trova ad affrontare il crollo delle sue stesse fondamenta. Se le fortune degli oligarchi russi si sono dissolte in un mese, in parte a causa delle sanzioni e della guerra stessa, ciò che emerge è un paradosso ben più grande: la ricchezza non è solo qualcosa di instabile, ma qualcosa che, nel momento in cui non è più in grado di sostenere l’intero sistema economico, porta con sé anche il suo crollo.
Le mobilità dei super-ricchi, quindi, non sono solo un fenomeno fiscale. Esse sono il segno che il sistema che ha permesso loro di accumulare ricchezza e potere è ormai in crisi. La domanda che dobbiamo porci non è più se i super-ricchi debbano pagare più tasse, ma come possiamo ripensare un sistema economico che, pur avendo permesso loro di accumulare immense fortune, ha messo in discussione le basi stesse della nostra convivenza sociale. Chi deve pagare il prezzo di un mondo sempre più disuguale, e a chi spetta il compito di ridistribuire la ricchezza accumulata da pochi? Il nostro compito, oggi, è dare risposta a queste domande.
Non c’è più tempo da perdere. Il paradosso di un mondo dove il denaro sembra essersi rivelato come unica valuta di valore, e non solo in senso economico ma anche esistenziale, è ormai evidente. Le disuguaglianze crescenti, ormai non solo all’interno delle singole nazioni, ma anche tra di esse, ci costringono a fare i conti con una realtà in cui la ricchezza non è più solo un indicatore di benessere, ma di potere, di controllo, e soprattutto di potenziale distruttivo. Quando si parla di “mobilità dei capitali”, si sta in realtà parlando di una mobilità del potere: una forza che non ha più confini, che attraversa le frontiere a suo piacimento e che determina, di fatto, il destino delle nostre società.
Gli oligarchi russi, ad esempio, rappresentano un caso emblematico di come una ricchezza accumulata su alleanze politiche e manovre opache possa improvvisamente crollare sotto l’impatto di eventi geopolitici e trasformazioni economiche. Eppure, questi magnati non sono stati gli unici a sperimentare un simile destino. La guerra in Ucraina ha fatto da catalizzatore, ma il fenomeno non è confinato al territorio russo, né al conflitto in corso. L’impoverimento della classe oligarchica ha rivelato la fragilità intrinseca di un sistema che si è costruito su un’illusoria invulnerabilità.
Prendiamo come esempio la Gran Bretagna, un paese che si è sempre vantato della sua tradizione di meritocrazia e che ha visto proprio i suoi super-ricchi esprimere la volontà di fuggire di fronte all’introduzione di una tassa patrimoniale. In un’epoca di crisi economica globale, una parte significativa di questi ultraricchi sta valutando l’esilio fiscale, non più solo per un semplice alleggerimento fiscale, ma per preservare un equilibrio economico che potrebbe sfuggire di mano. L’analisi di questo fenomeno mette in evidenza una contraddizione fondamentale: come può una società che si dichiara democratica e giusta sopportare l’idea che chi accumula le ricchezze più imponenti si sottragga a un contributo equo al bene comune?
Ma c’è qualcosa di più inquietante in tutto questo. Quello che sta accadendo in Gran Bretagna, e che ha avuto luogo in Russia e in molti altri paesi, non è un semplice movimento di capitali, ma un vero e proprio spostamento di potere. E in questo contesto la vera domanda è: chi sta realmente pagando il prezzo della crisi economica e sociale che si sta manifestando con una ferocia che non ammette repliche? La risposta, purtroppo, è chiara: non sono certo i ricchi, né coloro che possono spostare senza limiti i propri capitali. Sono sempre le classi medie, e soprattutto i poveri, quelli che subiscono gli effetti devastanti delle politiche economiche inique e della concentrazione del potere economico.
C’è un tema che emerge con prepotenza: quello della giustizia fiscale. La stessa parola “giustizia” diventa in questo caso un concetto ambiguo, piegato dalle dinamiche di potere. La giustizia fiscale non riguarda più il semplice concetto di tassazione, ma un’intera ristrutturazione delle dinamiche di distribuzione della ricchezza. La domanda che diventa centrale è: come rispondere all’esigenza di equità, in un contesto dove le ricchezze sono ormai concentrate nelle mani di pochi, mentre le disuguaglianze sociali e economiche raggiungono livelli che non hanno precedenti?
Nel contesto globale, il fenomeno non è altro che una manifestazione dell’impossibilità di un sistema che ha basato la sua esistenza sull’illusione della crescita infinita, dell’equilibrio che, ad un certo punto, inevitabilmente crolla sotto il peso delle sue stesse contraddizioni. Gli oligarchi, i miliardari, i super-ricchi, e coloro che possiedono enormi fortune, sembrano essere i protagonisti di un gioco che non conosce leggi, ma dove ogni mossa è giustificata dal denaro stesso. È una dinamica che non ammette contestazioni, ma che, per l’appunto, lascia dietro di sé una scia di iniquità e disuguaglianza sociale.
È significativo che il dibattito che oggi si svolge intorno alla giustizia fiscale si interroghi sulla necessità di nuovi strumenti che possano fermare questa spirale di disuguaglianza. La crisi in Ucraina, la disintegrazione del sistema internazionale che avevamo conosciuto fino a ieri, sono solo la superficie di un problema molto più profondo: un sistema economico che non solo ha esasperato le disuguaglianze, ma ha anche prodotto una concentrazione del potere economico tale da mettere in discussione il concetto stesso di democrazia.
Le risposte politiche, per quanto tardive, si fanno sempre più chiare. La lotta per una maggiore redistribuzione delle ricchezze è diventata una delle sfide centrali del nostro tempo. I movimenti che chiedono un contributo maggiore da parte dei super-ricchi, come Tax the Rich, sono l’espressione di una crescente consapevolezza della necessità di un cambiamento radicale. La giustizia fiscale non è più solo un concetto teorico, ma una realtà che deve essere affrontata con urgenza. La domanda di un sistema fiscale globale che ponga un freno alla mobilità dei capitali è ormai impellente.
Eppure, mentre i governi continuano a prendere tempo, continuano a non affrontare la verità: che l’attuale sistema non può reggere. Che, in definitiva, non ci sono più margini per il compromesso. Se davvero vogliamo parlare di giustizia fiscale, dobbiamo chiederci non solo quanto tassare i super-ricchi, ma come ridurre drasticamente il divario tra le classi sociali, come costruire un sistema che sia davvero inclusivo e che non permetta che il denaro continui a determinare il destino di interi popoli. Senza una redistribuzione reale della ricchezza, il nostro futuro è segnato da un’impotenza sistemica che, inevitabilmente, finirà per spazzare via anche le ultime certezze.