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Megatrend negli ETF tematici

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

A cura di Agostino Agamben

La crescita costante dei flussi negli ETF tematici evidenzia una mutamento profondo delle dinamiche di allocazione del capitale, dove l’investitore non cerca più solo rendimento finanziario, ma si orienta verso narrazioni simboliche che riflettono i megatrend globali come la difesa, l’intelligenza artificiale e la transizione energetica; questo fenomeno segnala un’evoluzione del capitale da mero strumento di scambio a vettore di significati, influenzando le politiche monetarie, la distribuzione del rischio e la struttura dei mercati, in un contesto caratterizzato da vulnerabilità economiche, mutamenti geopolitici e un nuovo ethos finanziario che intreccia strategia, mito e identità collettiva.

Nella crescita silenziosa, ma persistente, dei flussi in ETF tematici si coglie la mutazione del desiderio dell’investitore post-moderno, il quale, svuotato del suo volto razionale, non è più consumatore di rendimenti ma di narrazioni. Non si investe nell’uranio, nella cybersecurity o nella difesa globale in quanto tali, ma nella loro aura simbolica, nel loro posto all’interno di un nuovo racconto del mondo. Così, mentre i prodotti collegati ai megatrend raccolgono oltre 11,5 miliardi di dollari nei primi otto mesi del 2025 – come segnala ARK Invest Europe – ciò che veramente cresce non è il capitale finanziario, ma il capitale mitopoietico, cioè la capacità della finanza di farsi racconto del tempo storico.

Il primato della Difesa Globale, con 5,64 miliardi di dollari di flussi netti, non sorprende se lo si legge alla luce dei nuovi dispositivi del potere: un potere che non si fonda più sul controllo territoriale, ma sull’anticipazione permanente della minaccia. In questa prospettiva, l’investimento sulla difesa è una forma di gestione preventiva del rischio sistemico. Segue la Difesa Europea, con +3,67 miliardi, come se l’Unione, al tramonto della sua ideologia universalista, cercasse ora ancoraggio nella propria tecnocrazia bellica, in una reinvenzione del Leviatano sotto forma di fabbrica di droni e semiconduttori.

L’Intelligenza Artificiale, che raccoglie 1,60 miliardi da inizio anno, si pone come il secondo linguaggio del capitale dopo quello finanziario. Gli investitori non vedono tanto l’efficienza, quanto l’episteme: un salto ontologico, non solo tecnologico. Non si investe nell’AI perché automatizza, ma perché simula l’intelligenza, e quindi promette di dissolvere l’umano, e con esso, ogni vincolo antropologico.

Nel mese di agosto, con flussi totali per 941 milioni, domina ancora l’AI (282 milioni), seguita da Difesa Globale (112) e Idrogeno (103), a testimoniare che la crisi climatica è divenuta essa stessa un megatrend da capitalizzare. Ma più che una transizione ecologica, sembra affermarsi un green capitalism tecnocratico, capace di sostituire la lotta politica con l’allocazione algoritmica di risorse.

Il declino dei Veicoli Elettrici (-29 milioni) e degli ETF sul Lusso (-22 milioni) è allora doppia cifra di un paradosso: ciò che ieri sembrava simbolo di progresso – l’auto elettrica, l’esperienza del lusso come estasi sociale – oggi appare già archeologia di una promessa disattesa. La domanda asiatica rallenta, il fascino delle grandi griffe evapora nella noia di mercati saturi. Il consumatore non cerca più status, ma scopo. Il capitale finanziario lo asseconda, offrendogli un ETF su ogni angoscia del presente: sicurezza, energia, futuro.

Ma è guardando alla Banca del Giappone che si svela la natura mutante della politica monetaria: non più solo leva economica, ma dispositivo pedagogico. Lasciare i tassi invariati allo 0,5%, iniziare la vendita di ETF e J-REIT per un controvalore pari allo 0,05% del mercato, non è solo una manovra tecnica, ma una dichiarazione filosofica: la liquidità non è più virtù, ma vizio. L’era dell’Abenomics si chiude nel silenzio di un tapering che non vuole turbare i mercati. Come dire: l’ideologia dell’intervento statale si dissolve senza trauma, nel nome della normalizzazione.

Eppure, come ogni forma di potere che agisce per sottrazione, anche questa ritirata lascia un vuoto denso di inquietudine. Il PIL giapponese ristagna, il turismo – un tempo salvezza – diventa “piaga infernale”. Il premier Ishiba si dimette, il paese si muove nel limbo tra potenza e impotenza. In questo contesto, i dati sull’inflazione (tra il 2,5% e il 3%), il ritorno degli investimenti statunitensi, il ruolo di shock dell’alimentazione (aumenti del prezzo del riso) si combinano in un diagramma della vulnerabilità globale.

Similmente, la Bank of England, pur mantenendo i tassi al 4%, riduce il ritmo del Quantitative Tightening da 100 a 70 miliardi di sterline. Anche qui, non è la variazione dei numeri a fare notizia, ma l’interpretazione del gesto: si afferma un nuovo ethos monetario, dove l’obiettivo del 2% d’inflazione diventa l’equivalente secolare di un dogma spirituale. Qualsiasi deviazione è un’eresia da correggere con le armi della prudenza.

L’inflazione annuale del Regno Unito, al 3,8% ad agosto, appare compatibile con un sistema che ha accettato la disinflazione come forma di disciplina, non solo economica ma sociale. E la crescita salariale, pur rallentando, resta sorvegliata speciale. Il mercato del lavoro viene raccontato non più come luogo di realizzazione, ma come variabile monetaria. Un cambiamento ontologico nel rapporto tra uomo e lavoro.

Negli Stati Uniti, invece, il primo taglio dei tassi del 2025 (dal 4,25% all’attuale intervallo) appare come gesto necessario ma non liberatorio. Il FOMC prevede due ulteriori tagli entro l’anno, segno che l’indebolimento del mercato del lavoro pesa più dell’inflazione. Le parole di Jerome Powell sono rivelatrici: il mercato non è più “molto solido”, la domanda di lavoro si è attenuata, la creazione di posti non regge il tasso di pareggio. L’economia si fa vulnerabile e la vulnerabilità – un tempo scandalo – diventa ora parte integrante della narrazione monetaria.

Il rischio non è più il default, ma la disoccupazione endemica in un mondo a bassa domanda e alta automazione. E così la Fed entra in una nuova fase di neutralità flessibile, in cui ogni riunione è un’interpretazione: non ci sono più sentieri tracciati, ma un cammino di dati e intuizioni.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze italiano rilancia i BTP Valore, dedicati ai piccoli risparmiatori: sette anni di durata, cedole trimestrali crescenti, premio finale dello 0,8%, tassazione agevolata al 12,5%. È il tentativo di restituire al risparmio familiare una forma di appartenenza. Non più titoli di Stato come forma di patriottismo economico, ma come risposta a una crisi fiduciaria: tra cittadini e finanza, tra redditi e inflazione, tra banche e individui.

Il collocamento su MOT, con la presenza di Intesa, UniCredit, Banco BPM e altri co-dealer, rappresenta l’ennesima alleanza tra Stato e mercato: il debito pubblico si trasforma in prodotto da scaffale. Ma in questa trasformazione si cela una nuova estetica del risparmio: non più prudenza, ma performance. Anche il piccolo risparmiatore vuole “tematizzare” il proprio investimento, giocare tra cedole e premi, simulare una partecipazione al grande gioco dei mercati.

Questa finanziarizzazione dell’esperienza del consumo – laddove l’acquisto di un titolo di Stato diventa atto identitario – segna una nuova fase del capitalismo finanziario; il passaggio dall’homo oeconomicus all’homo narrans, che non cerca più solo sicurezza, ma senso.

Il consumo, che un tempo era atto privato e ripetitivo, si fa oggi forma evolutiva: lo si vede nella scelta degli ETF legati alla Cybersecurity (+398 milioni), all’Uranio (+429 milioni), all’Idrogeno. L’investitore, che un tempo comprava azioni Fiat o General Electric, ora si posiziona su “temi”, “visioni”, “futuri”.

L’economia si racconta come se fosse letteratura speculativa: ciò che conta non è più il dividendo, ma la direzione del tempo. Il rendimento si dissolve nella narrazione, e l’investimento diventa esercizio di futurologia personalizzata, un atto quasi escatologico. Come in un romanzo a più voci, l’investitore moderno si percepisce personaggio e autore, spettatore e demiurgo, mentre il portafoglio-finzione si popola di idrogeno, difesa, chip quantistici e demografia.

E qui l’economia si fa filosofia: gli ETF tematici, che una volta avremmo classificato come strumenti passivi, diventano oggi architetture morali. Scegliere di investire nell’IA, nella sicurezza alimentare o nell’energia pulita non è più solo una decisione tecnica, ma una forma di posizionamento etico-esistenziale in un mondo incerto.

Ma come ogni forma simbolica che si istituzionalizza, anche questo slittamento della finanza verso il racconto rischia la saturazione. Così come il consumatore è stato trasformato in “prosumer”, co-creatore del valore che consuma, anche l’investitore finisce per essere consumatore di ideologia. Ed è qui che si dischiude il cuore della questione: la finanza non si evolve solo come sistema di scambio di capitali, ma come linguaggio, e ogni linguaggio porta in sé una grammatica del potere.

Il piccolo risparmiatore, sedotto dalla promessa di partecipazione e premialità crescente del BTP Valore. Dall’altro, i grandi fondi internazionali che modellano i flussi tematici a partire da previsioni macro-geopolitiche. In mezzo, una crescente ambiguità normativa: le regole europee sul Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR) sono ancora in transizione, lasciando spazio a quella zona grigia dove tutto è ESG e niente lo è veramente. L’Autorità Europea degli Strumenti Finanziari e dei Mercati (ESMA) chiede maggiore trasparenza sui fondi a impatto, ma le definizioni restano fluttuanti, come se la finanza si aggrappasse al vago per non rinunciare alla sua capacità performativa.

Le norme italiane sui PIR alternativi, rinnovate con la legge di Bilancio 2023, tentano di canalizzare il risparmio privato verso l’economia reale. Ma il vero nodo è altrove: che cos’è oggi “economia reale”? Una startup sull’idrogeno in Piemonte? Una società di data science per la sorveglianza urbana? Un fondo di investimento sulla longevità? La distinzione tra reale e speculativo si è dissolta nel tempo liquido della finanziarizzazione permanente.

Il PIL dell’Eurozona si muove lentamente, con una crescita media annua attesa intorno all’1,2% nel 2025, secondo i dati della Commissione Europea, e l’inflazione torna verso il target del 2% solo grazie a un rallentamento globale dei consumi. L’OECD conferma: la spesa delle famiglie è calata in media dell’1,8% nell’ultimo trimestre, e il risparmio precauzionale cresce, ma si polarizza. I più fragili si ritirano dal consumo, i più forti capitalizzano la volatilità.

Il quadro si completa con l’evoluzione dell’indice MSCI World Thematic, che nei primi 9 mesi del 2025 ha sovraperformato l’MSCI World standard del 3,7%, trainato dai fondi su AI e difesa. Ma è una sovraperformance che si nutre di paure collettive: guerra, controllo, automazione. È il paradosso della finanza tematica: più racconta il futuro, più assorbe il presente. Non libera dal rischio, lo interiorizza.

E forse è in questa tensione tra consumo e capitale, tra narrazione e strategia, che si può leggere il volto attuale della trasformazione finanziaria. Non un semplice cambio di prodotti o preferenze, ma una metamorfosi epistemologica, in cui l’investimento diventa l’ultimo rituale di partecipazione alla Storia. Non più una semplice scelta tra azioni o obbligazioni, ma una decisione ontologica: su quale mondo abitare, e quale mondo contribuire a costruire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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