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Rinaldo Cordovani e la Custodia del Tempo Fragile

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in , .

a cura Agostino Agamben

Nell’epoca della frenesia e dell’oblio, la figura silenziosa di Padre Rinaldo si staglia come soglia vivente tra parola e silenzio, tra memoria e attesa: un’ermeneutica dell’umano che si compie nei gesti minimi, nella cura dell’archivio, nell’ascolto del testo classico, nella preghiera che diventa forma di abitare il mondo senza possederlo.

Non c’è biografia che non sia, prima di ogni altra cosa, un’interruzione del tempo. Ogni vita che si consegna alla memoria, ogni nome che si pronuncia come un frammento sottratto all’oblio, chiede silenziosamente di essere letto non secondo la cronologia lineare dell’accadere, ma nella forma più sottile e inafferrabile del kairos. Così accade per Rinaldo Cordovani, di cui oggi si commemora non tanto la nascita quanto l’essere-nel-mondo come custodia, come vigilanza, come soglia.

Soglia tra parola e silenzio, tra ciò che è stato scritto e ciò che non ha ancora trovato forma, tra la luce visibile dell’insegnamento e l’ombra invisibile della preghiera. Egli non è, nel senso proprio del termine, “qualcuno che fa”: egli è colui che custodisce. E la custodia non è possesso né esercizio di potere, ma uno stare, un dimorare, che riconosce nella fragilità della cosa custodita – un manoscritto, una frase, un’anima – il suo valore inviolabile.

Vi è in lui un’esistenza che si muove in controtempo rispetto alla frenesia dell’utile. Come chi abita un altro calendario, un altro ritmo. Ogni suo gesto – nella scuola, nell’archivio, nella scrittura – sembra appartenere a una liturgia senza officianti, in cui la forma stessa della vita diventa rito. Non rito come schema, ma rito come apertura al possibile, come ripetizione che disvela, che riconduce la parola alla sua origine dimenticata.

Rinaldo Cordovani non “lavora” negli archivi: li attraversa come si attraversa un paesaggio sacro. Non cerca documenti, ma ascolta ciò che nel documento resiste all’interpretazione, ciò che non si lascia chiudere in un sistema, ciò che eccede. Ogni riga annotata da mani remote diventa traccia di una presenza, presenza che non chiede d’essere spiegata ma riconosciuta. E nell’atto stesso del riconoscimento – lento, paziente, meditato – si compie l’etica dell’archivista, che è anche l’etica del monaco, e insieme dell’amico.

L’archivio, in fondo, non è un deposito di memorie, ma uno spazio messianico. È il luogo in cui il tempo non si cancella ma si trattiene, si distende, si prepara. Così, quando Rinaldo vi si reca ogni giorno, non persegue una missione ma compie un’attesa. E attendere, in un’epoca che ha fatto dell’immediatezza il suo idolo, è già forma di resistenza. L’attesa è lo spazio in cui si dà la possibilità dell’incontro: con il passato, con l’altro, con Dio.

Il suo insegnamento, poi, non è differente. Non si può davvero dire che egli “insegni” nel senso corrente. Piuttosto, accompagna. È una presenza laterale, un’ombra che non impone ma accoglie. Nei suoi studenti non cerca replicanti, ma interlocutori. E ogni lezione è un dialogo con l’assenza: l’assenza dell’autore, del mondo antico, della verità piena. Così, leggere un testo con lui non è apprendere ma interrogare. Non trovare risposte ma imparare a sostare nella domanda.

I testi classici, per Cordovani, non sono materia inerte, ma organismi viventi. Portano in sé la tensione irrisolta tra ciò che fu e ciò che ancora può essere. Nella sua lettura di un passo di Tucidide o di un’esegesi sulla tragedia, vi è qualcosa che va oltre il sapere: vi è un’etica dello sguardo, una pedagogia dell’ascolto. Egli sa che educare non è formare, ma lasciar essere. E questo lasciar essere richiede una rinuncia – al controllo, al risultato, alla prestazione. Un vero maestro non forma allievi, ma apre strade.

E questa apertura, che è apertura all’altro, è anche la forma più alta dell’amicizia. Non amicizia come vincolo affettivo, ma come ciò che si dà tra coloro che condividono un’etica comune senza bisogno di dirlo. Ogni volta che Rinaldo invia un suo “Compendio di Cultura”, ogni breve intervento che giunge alla redazione di Consulpress, ogni parola scritta senza pretese, è parte di un dono che non si chiude. Non è per lui atto di generosità, ma di gratuità. E la gratuità, oggi, è già una rivoluzione.

In questi scritti – apparentemente minori, ma in realtà preziosi – si cela una resistenza al tempo del consumo. Sono parole che non gridano, che non competono, che non cercano visibilità. Sono parole che custodiscono. E ogni parola custodita è un atto di fiducia nell’umano. Fiducia che l’umano, anche se disperso, può ancora essere ritrovato nel frammento, nella nota a margine, nel silenzio tra due lettere.

Così la rivista che dirige, La Posta di Padre Mariano, non è semplicemente una pubblicazione, ma un luogo. Un luogo mentale, etico, comunitario. Un luogo in cui la scrittura non è né narrazione né informazione, ma intercessione. E chi scrive vi entra come in un chiostro: non per chiudersi al mondo, ma per ascoltare meglio. Ogni numero è una liturgia laica, una messa in opera della memoria.

Si dice spesso che viviamo in un’epoca senza maestri. Ma forse è l’idea stessa di maestro che va trasfigurata. Non più colui che sa e insegna, ma colui che abita la soglia e invita. Padre Rinaldo non è maestro nel senso della scuola, ma nel senso arcaico: come chi si fa esempio non per volontà ma per necessità, come chi non impone ma mostra. Mostra come si possa vivere senza dominare, parlare senza urlare, servire senza servilismo.

E c’è un’altra dimensione – più nascosta, più segreta – nel suo modo d’essere: la preghiera. Non quella esplicita, declamata, ma quella che si fa respiro. La preghiera che è postura del corpo, inclinazione dello sguardo, tempo sottratto all’efficienza. Non vi è discontinuità tra il suo lavoro e il suo orare. L’archivio è la sua cappella, il testo la sua reliquia, l’altro la sua liturgia. Pregare, per lui, è leggere. Leggere, è accogliere.

Chi scrive ha ricevuto da lui parole nei momenti di difficoltà, preghiere offerte in silenzio, presenze non invadenti ma certe. E dire grazie – per queste preghiere, per questa presenza, per questa amicizia – non è gesto di cortesia ma atto di verità. Il grazie che gli si rivolge è eco di una comunione. Perché l’amicizia vera non si consuma in affetto, ma si compie nella custodia reciproca del tempo dell’altro.

E oggi, nel giorno del genetliaco, non si festeggia un compleanno, ma si riconosce una continuità. Si dice che nascere è entrare nel tempo. Ma forse alcuni nascono per fare del tempo stesso un luogo abitabile. Rinaldo è tra questi: non lascia dietro di sé eventi, ma tracce. Non si definisce per ciò che ha fatto, ma per ciò che ha permesso. È un’assenza che agisce, una presenza che non reclama. È, per usare un’espressione “una potenza del possibile”.

E mentre scorrono le ore di questa giornata, e si evocano immagini del Convento, della Chiesa, dei corridoi silenziosi, delle stanze colme di carta e di tempo, si comprende che anche questi luoghi non sono spazi, ma corpi. Corpi che ricordano, che custodiscono, che ascoltano. E in essi vive la sua figura: non come monumento, ma come gesto. Gesto di cura, gesto di ascolto, gesto di dedizione.

La cultura, oggi, è troppo spesso rumore. Ma nella sua opera vi è un’eco che resta: eco del sacro non sacralizzato, dell’umano non idolatrato, del divino non imposto. Vi è una tonalità quieta, come un canto monodico, che percorre ogni sua parola. E chi ha la fortuna di riceverle, queste parole, sa che dietro ognuna di esse non vi è la volontà di dire, ma il desiderio di servire.

Servire la memoria, servire l’altro, servire ciò che è fragile e sta per svanire. Questo è, forse, ciò che meglio descrive la figura di Padre Rinaldo: non il maestro che insegna, ma il fratello che custodisce. Non il sacerdote che predica, ma l’uomo che ascolta. Non colui che domina il tempo, ma colui che si lascia attraversare da esso.

E così, anche questo articolo, come ogni suo gesto, non vuole concludersi, non desidera chiudere un cerchio. Perché ciò che resta vivo non ha conclusione. Resta aperto, come una domanda. Come una preghiera silenziosa che continua.

RINALDO CORDOVANI è nato a Viterbo ed è entrato giovanissimo nell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini. Dopo gli studi filosofici e teologici, è stato ordinato sacerdote e ha conseguito la laurea in lettere classiche all’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano. Ha insegnato materie letterarie nelle scuole secondarie superiori dell’Ordine e in quelle statali. È incaricato dell’archivio storico dei cappuccini romani ed è autore di alcune pubblicazioni di carattere storico e di ricerca archivistica. È direttore della rivista bimestrale «La Posta di Padre Mariano», da lui fondata nel 1984, e collabora a varie riviste e periodici.

Caro Padre Rinaldo, i miei più cari AUGURI per il Tuo Genetliaco/ Grazie per la Tua Amicizia e vicinanza/ Grazie per le Tue preghiere nei miei momenti di apprensione o di sconforto/ Grazie per la Tua serafica Saggezza/ Grazie ancora per i tuoi articoli ed interventi – a volte piccoli “Compendi di Cultura” inviatici per la pubblicazione su “Consul Press” !!!

Un Grande Abbraccio e mi piacerebbe molto poterti venire a trovare in Chiesa o nel Convento. (22 luglio)

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