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Afghanistan, laboratorio del nuovo disordine globale

Scritto da Ottavia Scorpati il . Pubblicato in .

                                                                                                                                                                           A cura di Ottavia Scorpati

Tra teocrazia talebana e ambiguità geopolitica, il Paese è al collasso istituzionale. Ma è la credibilità dell’Occidente a vacillare sotto il peso dell’indifferenza.

Nel contesto del regime talebano, evocare la possibilità di elezioni democratiche equivale a evocare un’illusione funzionale alla retorica esterna, ma priva di qualsiasi fondamento interno. I portavoce dell’Emirato Islamico parlano a tratti di un futuro “modello islamico rappresentativo”, cercando di conciliare il linguaggio della diplomazia globale con la struttura piramidale e teocratica su cui si fonda il potere talebano. Ma si tratta di formule retoriche vuote, pensate per placare le pressioni internazionali, ottenere accesso ad aiuti umanitari e, in prospettiva, aprire uno spiraglio verso un riconoscimento internazionale. Nella realtà, non esiste alcuna architettura istituzionale in grado di garantire pluralismo, rappresentanza o partecipazione civica. La struttura politica imposta dai talebani dal 2021 si basa su un potere assoluto, concentrato nelle mani dell’Amir al-Mu’minin, leader religioso e politico, e del Consiglio degli Ulema, un organismo selezionato per affinità ideologica e obbedienza.

La soppressione della Costituzione del 2004, ritenuta dai talebani un’imposizione estranea alla tradizione islamica, ha sancito l’abolizione di ogni principio di separazione dei poteri, libertà civili e controllo istituzionale. Non esiste alcuna cornice giuridica codificata che regoli i rapporti tra cittadino e Stato. I decreti religiosi, ispirati a una lettura rigorista e locale della sharia, costituiscono l’unica fonte normativa. Questo vuoto giuridico permette un’applicazione arbitraria delle leggi, impedisce qualsiasi garanzia processuale e annulla ogni tutela dei diritti individuali. La totale assenza di contrappesi istituzionali e la concentrazione del potere rendono impossibile qualsiasi forma di democrazia partecipativa, mentre ogni forma di dissenso viene repressa in maniera capillare.

Le manifestazioni pubbliche, anche quelle pacifiche, sono sistematicamente disperse con l’uso della forza. Particolarmente emblematici sono i casi delle proteste femminili, spesso organizzate da piccoli gruppi di donne in città come Kabul o Herat, che vengono brutalmente represse, con arresti arbitrari, torture, campagne diffamatorie e scomparse forzate. Le donne che chiedono diritti basilari — istruzione, lavoro, libertà di movimento — vengono dipinte come nemiche della morale islamica. Questo processo di repressione è accompagnato da una strategia di “invisibilizzazione” totale della presenza femminile nella sfera pubblica. Le donne sono state escluse dall’istruzione superiore, allontanate dal pubblico impiego, costrette all’isolamento sociale. In molte province, non possono accedere ai parchi, viaggiare senza un “mahram” (accompagnatore maschio) o ricevere cure mediche se il personale sanitario è di sesso maschile. La narrazione ufficiale parla di “protezione morale”, ma si tratta di un sistema strutturato di apartheid di genere.

Parallelamente, il sistema educativo e sanitario ha subito un deterioramento radicale. Le scuole pubbliche, private di fondi e insegnanti qualificati, sono in uno stato di abbandono. Le università hanno perso gran parte del corpo docente, spesso fuggito all’estero. La chiusura delle scuole femminili ha segnato una cesura generazionale che inciderà per decenni sul futuro del Paese. Il sistema sanitario, già fragile, è oggi sull’orlo del collasso. Le strutture sanitarie sopravvivono grazie all’assistenza delle agenzie umanitarie internazionali, la cui attività è però limitata da ostacoli amministrativi e minacce da parte del regime. In molte regioni rurali, le cure mediche di base non sono più disponibili. Il risultato è una catastrofe umanitaria che colpisce in modo sproporzionato bambini e donne, rendendo l’Afghanistan uno dei Paesi con i più alti tassi di mortalità infantile e materna al mondo.

La soppressione della stampa libera ha contribuito a oscurare ulteriormente il quadro. Le testate indipendenti sono state chiuse o costrette all’esilio, mentre i giornalisti rimasti vivono sotto la costante minaccia di arresti, sparizioni e torture. La libertà d’espressione è stata sostituita da un sistema mediatico controllato dal regime, che diffonde comunicati religiosi, proclami politici e propaganda. Non esistono più spazi per il dibattito pubblico: ogni narrazione alternativa è cancellata in anticipo.

Il sistema giuridico è stato completamente ristrutturato sulla base di una giustizia religiosa che applica una versione opaca e selettiva della sharia. Tribunali religiosi, privi di qualsiasi garanzia di imparzialità, giudicano secondo criteri arbitrari e impongono punizioni corporali — fustigazioni, amputazioni, lapidazioni — come strumenti ordinari di gestione sociale. Le donne che denunciano violenze domestiche vengono spesso punite per “condotta immorale”, mentre le minoranze etniche e religiose, come gli hazara e i tagiki, sono oggetto di persecuzioni, esclusione e, in alcuni casi, di violenze sistemiche. Gli attacchi contro comunità sciite, spesso tollerati se non direttamente orchestrati da funzionari locali, testimoniano la trasformazione del sistema giudiziario in uno strumento di controllo confessionale.

Il quadro economico è altrettanto allarmante. Con le riserve estere bloccate e il sistema finanziario scollegato da quello internazionale, l’economia afghana è entrata in una fase di stagnazione estrema. Il settore pubblico sopravvive solo grazie agli aiuti gestiti dalle Nazioni Unite, ma l’assenza di trasparenza e l’ostilità delle autorità locali ne limitano l’efficacia. Le attività produttive formali sono quasi del tutto scomparse, mentre si espande l’economia sommersa: contrabbando, traffico d’oppio, estrazione illegale di minerali. In molte province, la coltivazione della papavero è tornata a livelli preoccupanti. L’Afghanistan è oggi il primo produttore mondiale di eroina, ma anche uno dei Paesi più colpiti da disoccupazione, inflazione e malnutrizione. La povertà è diventata una condizione strutturale, non un effetto collaterale, bensì un elemento funzionale al mantenimento del potere da parte dei talebani.

In questo scenario interno di repressione e miseria, si innesta un panorama geopolitico frammentato. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea, pur mantenendo una posizione ufficiale di non riconoscimento, non hanno elaborato una strategia efficace. Le sanzioni economiche, il congelamento dei fondi e l’isolamento diplomatico non hanno indebolito il regime, ma hanno colpito soprattutto la popolazione civile. Le potenze occidentali, ancora segnate dal trauma del ritiro del 2021, appaiono prive di un piano d’azione, oscillando tra cautela e rassegnazione.

Al contrario, Cina, Russia, Iran e Qatar hanno adottato approcci pragmatici. La Cina ha intensificato i contatti con i talebani, mirando all’integrazione dell’Afghanistan nella Belt and Road Initiative e all’accesso ai suoi giacimenti minerari (rame, litio, terre rare). La Russia, pur mantenendo una posizione ambivalente, considera il dialogo con i talebani un’opportunità per contenere l’instabilità in Asia Centrale e contrastare l’influenza statunitense. L’Iran gestisce con attenzione i rapporti con Kabul, cercando di influenzare le dinamiche delle comunità sciite. Il Qatar continua a fungere da ponte diplomatico, garantendo al regime una visibilità internazionale indispensabile. In questo quadro, l’Afghanistan diventa un campo di prova per un nuovo asse geopolitico, in cui i valori dei diritti umani vengono subordinati a interessi strategici, economici ed energetici.

La risposta della comunità internazionale è segnata da una grave contraddizione: si proclamano diritti universali, ma si accetta la legittimità di un regime che li nega sistematicamente. Questa ambiguità compromette non solo il destino del popolo afghano, ma anche la coerenza del sistema internazionale stesso. L’indifferenza mediatica e politica verso l’Afghanistan alimenta l’isolamento, consente la normalizzazione del regime e mina la credibilità di ogni discorso globale sui diritti e sulla giustizia. Il prezzo di questa cecità, se non verrà affrontata, sarà molto più alto di quanto il mondo sia oggi disposto a riconoscere.

 
 

 

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