
Afghanistan tra Shariʿa, repressione e propaganda: il volto reale del regime talebano
Scritto da Ottavia Scorpati il . Pubblicato in Italia ed Esteri.
A cura di Ottavia Scorpati
Mentre il governo talebano promette diritti “nel rispetto dell’Islam”, la realtà è fatta di censura, segregazione e paura. Il silenzio internazionale rischia di diventare complicità.
Il governo talebano dell’Afghanistan, insediatosi con la presa di Kabul nell’agosto del 2021, ha avviato fin da subito una campagna retorica basata su parole chiave come “inclusività”, “sicurezza”, “diritti nel quadro dell’Islam” e “governo responsabile”. Un lessico diplomatico studiato per rassicurare la comunità internazionale e ottenere riconoscimento politico, accesso ai fondi congelati e riattivazione dell’aiuto umanitario. Tuttavia, la distanza tra questa narrativa e la realtà quotidiana del Paese è diventata sempre più evidente. Il regime talebano ha dimostrato non solo di essere impermeabile a ogni forma di riforma democratica, ma anche di voler consolidare un modello autoritario, teocratico e tribale, fondato sulla sottomissione totale della società ai vertici religiosi.
Le promesse fatte ai tavoli internazionali di Doha e successivamente nelle dichiarazioni ufficiali, riguardo alla tutela dei diritti delle donne, all’accesso all’istruzione, alla libertà dei media e alla sicurezza dei civili, si sono rivelate meri strumenti di soft power. Nel nome della sharia, interpretata secondo una versione estremamente conservatrice e selettiva, è stata imposta una nuova forma di apartheid di genere, più pervasiva e sistematica di quella già sperimentata negli anni Novanta. Le donne sono oggi escluse da quasi tutti gli ambiti della vita pubblica: non possono lavorare nella maggior parte degli uffici statali, non possono frequentare scuole secondarie e università, non possono viaggiare da sole, non possono essere curate da medici uomini. Anche l’accesso ai parchi, alle palestre o alle biblioteche è loro vietato.
Il corpo femminile è diventato simbolo del controllo sociale: l’obbligo del burqa, la segregazione fisica negli spazi pubblici, le perquisizioni nei mercati e nelle strade per verificare il rispetto del codice vestimentario sono strumenti quotidiani di dominio. Le ragazze che tentano di studiare in segreto, le donne che organizzano proteste o chiedono lavoro vengono arrestate, picchiate, costrette alla “rieducazione” o fatte sparire. Le promesse dei talebani sulla partecipazione femminile si sono dunque rivelate uno strumento propagandistico, un compromesso linguistico utile a guadagnare tempo, non un impegno autentico verso l’uguaglianza.
Parallelamente, anche la questione della libertà di stampa è diventata un indicatore cruciale del degrado democratico del Paese. I media afghani, che durante i vent’anni di presenza internazionale avevano conosciuto un’espansione significativa, sono stati sistematicamente demoliti. Le emittenti televisive e radiofoniche indipendenti sono state chiuse o forzate a riconvertirsi in strumenti di propaganda religiosa. Le testate online sono state oscurate, i giornalisti minacciati, arrestati o uccisi. Il Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio ha assunto il controllo della narrazione pubblica, imponendo rigide linee editoriali e una censura totale. Chiunque pubblichi informazioni critiche verso il regime, anche sui social, rischia il carcere o la tortura.
I giornalisti rimasti nel Paese operano in condizioni di autocensura totale, in un clima di terrore e silenziamento. Non si tratta solo di limitazioni legali o amministrative: la repressione è fisica, diretta, brutale. Il messaggio è chiaro: raccontare la verità equivale a un atto sovversivo. L’informazione, che dovrebbe essere uno strumento di controllo democratico e partecipazione civica, è oggi ridotta a un simulacro, a un canale unidirezionale attraverso cui il regime legittima le proprie azioni. L’Afghanistan non è solo diventato una “zona buia” per la libertà di stampa: è un caso di studio per comprendere come si distrugge, in pochi mesi, un intero ecosistema mediatico.
Il problema, tuttavia, non riguarda soltanto il regime talebano. Riguarda anche e soprattutto la risposta internazionale. Le dichiarazioni di condanna da parte di organismi multilaterali, governi occidentali e organizzazioni per i diritti umani non si sono tradotte in azioni efficaci. Le sanzioni economiche, il congelamento delle riserve della Banca Centrale e la sospensione dell’assistenza bilaterale hanno avuto l’effetto collaterale di colpire soprattutto la popolazione civile, mentre la leadership talebana ha consolidato il proprio potere attraverso il controllo delle risorse rimanenti, la gestione opaca degli aiuti umanitari e l’uso sistematico del terrore. L’isolamento diplomatico ha prodotto un vuoto geopolitico rapidamente riempito da attori come la Cina, la Russia, l’Iran e il Qatar, che hanno adottato una strategia pragmatica e silenziosa, interessata più alla stabilità regionale e all’accesso a risorse strategiche che alla difesa dei diritti fondamentali.
La Cina, in particolare, guarda all’Afghanistan come a una futura pedina nella Belt and Road Initiative, attratta dalla presenza di minerali strategici come il litio, il rame e le terre rare. La Russia vede nel regime talebano un alleato utile per contenere le spinte jihadiste nei Paesi dell’Asia centrale e ridurre la sfera d’influenza statunitense. Il Qatar, grazie al ruolo di mediatore acquisito negli anni dei negoziati di Doha, mantiene un canale privilegiato con i talebani, fungendo da ponte tra il regime e il mondo esterno. In questo scenario si è consolidata una nuova normalità diplomatica, in cui l’autoritarismo viene tollerato — se non apertamente riconosciuto — in nome della realpolitik e degli interessi regionali.
Questa dinamica rischia di ridefinire anche il significato dei diritti umani nel sistema internazionale. Se l’Afghanistan può essere governato da un regime che nega sistematicamente ogni diritto fondamentale — alla libertà, all’istruzione, alla salute, alla partecipazione — senza subire conseguenze concrete, allora i diritti cessano di essere “universali” e diventano merce di scambio, strumenti negoziali da utilizzare quando conviene. La stessa comunità internazionale, che si è a lungo posta come custode dei valori democratici e dei diritti fondamentali, mostra oggi una fragilità strutturale: le dichiarazioni si moltiplicano, ma l’azione politica resta evanescente, incapace di incidere sulle dinamiche reali.
In un tale contesto, il rischio più profondo è quello della normalizzazione. La rimozione dell’Afghanistan dai titoli dei media internazionali, la scarsa copertura delle violazioni quotidiane, il silenzio di fronte alle proteste delle donne, l’indifferenza rispetto alla chiusura delle scuole: tutto questo contribuisce a trasformare l’eccezione in regola, l’orrore in abitudine, la repressione in routine. Le organizzazioni internazionali che ancora operano sul terreno — ONG, agenzie delle Nazioni Unite, gruppi di difesa dei diritti umani — fanno ciò che possono, spesso con risorse limitate e sotto costante minaccia. Ma senza una strategia politica più ampia, senza una volontà collettiva di difendere i principi alla base del diritto internazionale, ogni sforzo sarà parziale, ogni intervento provvisorio.
L’Afghanistan, oggi, non è solo un Paese sotto regime. È un laboratorio, oscuro e silenzioso, di ciò che accade quando la comunità internazionale smette di credere nei propri stessi valori. Un Paese in cui l’arbitrio è legge, la paura è metodo di governo, la teologia è strumento di dominio. Un luogo in cui il futuro è stato sequestrato, e il presente si consuma tra propaganda e silenzio.