Skip to main content

Anatomia di un Paese occupato senza guerra

Scritto da Ottavia Scorpati il . Pubblicato in .

                                                                                                                                                                       A cura di Ottavia Scorpati

Dal collasso istituzionale al laboratorio dell’autoritarismo globale, l’Afghanistan si trasforma in uno spazio di conquista silenziosa, dove corpi, culture e territori vengono ridefiniti da logiche estrattive, biopolitiche e tecnologiche. Tra sfruttamento delle risorse, ingegneria sociale e dominio digitale, prende forma un nuovo ordine mondiale che agisce sulle popolazioni più vulnerabili, nel silenzio delle istituzioni internazionali e sotto la maschera della cooperazione.

Dal 2021 a oggi, il ritorno dei talebani al potere ha segnato non solo un crollo immediato delle strutture civili e istituzionali dell’Afghanistan, ma ha anche innescato una trasformazione silenziosa ma profonda della posizione strategica del Paese nel nuovo ordine geopolitico globale. Quel che appare in superficie come un collasso sociale, economico e umanitario, si intreccia a dinamiche molto più complesse, che vedono coinvolti attori internazionali, accordi segreti, il controllo delle risorse naturali e una nuova corsa alle sfere d’influenza che ha come campo di battaglia anche l’Afghanistan, apparentemente dimenticato dai media occidentali ma centrale per le logiche delle potenze emergenti.

La crisi economica dell’Afghanistan ha assunto proporzioni drammatiche già nei primi mesi successivi alla riconquista di Kabul. Con la fuga dell’élite politica e l’azzeramento del sistema statale precedente, i talebani si sono ritrovati a governare un Paese il cui sistema economico era basato per il 75% su aiuti internazionali. La sospensione di questi aiuti da parte di Stati Uniti, Unione Europea e istituzioni multilaterali ha generato una crisi di liquidità immediata. Le riserve della banca centrale afghana, congelate all’estero per un valore stimato in 9,4 miliardi di dollari, non sono mai state sbloccate del tutto. I salari pubblici hanno smesso di essere pagati con regolarità, l’inflazione è esplosa, le banche hanno imposto limiti drastici ai prelievi, mentre le rimesse dall’estero – unica fonte di sussistenza per milioni di famiglie – si sono ridotte per effetto delle restrizioni bancarie.

In parallelo, il mercato agricolo – colonna portante dell’economia rurale – è collassato. Le frequenti siccità, l’assenza di carburante e fertilizzanti, la mancanza di accesso al credito, e il blocco delle catene logistiche hanno ridotto la produttività agricola del 40% in meno di due anni. L’economia informale, in gran parte legata al contrabbando, al traffico di oppiacei e all’estrazione mineraria artigianale, è cresciuta a dismisura, alimentando corruzione, guerre locali tra clan e un’economia di sussistenza priva di regole. Il tasso di disoccupazione giovanile è stimato sopra il 50%, mentre per le donne è salito a oltre il 90% dopo l’estromissione da tutti i settori lavorativi e formativi.

Il controllo del territorio da parte dei talebani si è consolidato attraverso un sistema di repressione diffusa: censura, arresti arbitrari, torture, esecuzioni extragiudiziali e la sistematica esclusione delle donne dalla vita pubblica. Il divieto di accedere alle scuole superiori e alle università per le ragazze, la chiusura delle ONG internazionali che impiegavano personale femminile, e il ritorno del niqab obbligatorio sono solo alcune delle misure imposte. Questo tipo di gestione integralista, tuttavia, non ha impedito ai talebani di stringere accordi economici, energetici e commerciali con attori internazionali che agiscono secondo logiche di pragmatismo geopolitico.

La Cina ha adottato un approccio tattico. Già nel 2022 sono iniziate le trattative segrete tra Pechino e rappresentanti talebani per la concessione di diritti esclusivi su alcuni giacimenti minerari di rame e litio nelle province di Logar, Badakhshan e Nuristan. Questi accordi, formalmente inquadrati nel piano della Belt and Road Initiative (BRI), prevedono la costruzione di infrastrutture stradali e ferroviarie in cambio dello sfruttamento a lungo termine di risorse strategiche. Il litio in particolare, fondamentale per la produzione di batterie e microchip, ha reso l’Afghanistan un obiettivo di primaria importanza per la sicurezza energetica e industriale cinese. A tal proposito, si parla di un “protocollo riservato” firmato alla fine del 2024 tra la società statale cinese Ganfeng Lithium e un consorzio di intermediari afghani legati alla leadership talebana, che garantirebbe 20 anni di accesso a basso costo a depositi valutati oltre 1 trilione di dollari.

Parallelamente, Mosca ha attivato i propri canali per rafforzare la presenza russa nell’area, soprattutto attraverso accordi militari non ufficiali e la fornitura di armamenti leggeri, droni e formazione per le “forze di sicurezza interne” del regime talebano. Questa strategia, portata avanti da Rosoboronexport sotto copertura diplomatica, è accompagnata da iniziative commerciali nel settore energetico. In un contesto di sanzioni globali, la Russia ha trovato nell’Afghanistan un partner utile per triangolazioni petrolifere e un corridoio terrestre alternativo attraverso l’Asia centrale. Si sospetta che Mosca stia anche utilizzando l’Afghanistan come centro logistico per l’esportazione parallela di grano e metalli strategici, aggirando le restrizioni occidentali.

Ma è forse nel settore sanitario e farmaceutico che si stanno verificando alcune delle operazioni più opache e potenzialmente pericolose. Secondo documenti riservati trapelati da fonti ONU, almeno tre multinazionali farmaceutiche con sede in Europa e una negli Stati Uniti avrebbero stabilito laboratori mobili per la sperimentazione clinica in aree periferiche del paese, lontane dal controllo mediatico. Questi laboratori, finanziati da fondi privati e attraverso fondazioni “umanitarie”, starebbero testando nuovi antibiotici, vaccini e terapie genetiche su popolazioni locali senza pieno consenso informato, approfittando dell’assenza di un sistema legale indipendente. In cambio, i talebani riceverebbero forniture mediche, tecnologia diagnostica e una percentuale sugli introiti derivanti dalla proprietà intellettuale delle nuove molecole sviluppate.

Non meno inquietanti sono gli accordi con compagnie private nel settore delle biotecnologie. A partire dal 2023, startup israeliane e americane con legami con l’intelligence avrebbero acquisito, tramite società di comodo registrate a Dubai, campioni biologici e genetici da popolazioni afghane delle regioni di Panjshir, Herat e Kunduz, per alimentare banche dati genetiche su etnie montane e adattamenti epigenetici in ambienti estremi. Questi studi, mascherati da ricerca antropologica, sarebbero in realtà parte di programmi di bioingegneria a scopi militari o predittivi. La tracciabilità genetica e l’applicazione di modelli di risposta immunitaria in ambienti isolati rappresentano uno dei nuovi fronti della competizione tra potenze.

Nel frattempo, le potenze regionali non restano a guardare. L’Iran ha rafforzato la cooperazione con il governo de facto afghano in ambito infrastrutturale, garantendo la costruzione di un tratto ferroviario tra Herat e Mashhad e favorendo il flusso di gasolio iraniano verso le aree settentrionali del Paese. In cambio, ha ottenuto concessioni per l’estrazione del ferro e l’accesso a bacini idrici vitali per il proprio settore agricolo. Il Pakistan, dal canto suo, continua a svolgere un doppio gioco, tollerando la presenza di cellule talebane pakistane nei suoi territori tribali, mentre negozia con Pechino l’estensione del China-Pakistan Economic Corridor (CPEC) fino a Kandahar.

L’Occidente, nel frattempo, è rimasto prigioniero delle proprie contraddizioni. Mentre alcuni governi europei hanno riaffermato la necessità di “non legittimare il regime talebano”, altri – Francia e Germania in primis – hanno mantenuto canali diplomatici informali per tutelare i propri interessi economici e strategici. Le compagnie minerarie tedesche, ad esempio, hanno inviato delegazioni tecniche per valutare l’accessibilità a giacimenti di uranio e manganese nelle province centrali. Gli Stati Uniti, pur mantenendo la linea dura sul piano politico, hanno consentito a società con contratti in Afghanistan pre-2021 di rinegoziare intese con intermediari privati. Il tutto in un clima di ambiguità e silenzio istituzionale.

Nel 2025, l’Afghanistan si configura dunque come un Paese bifronte: da un lato, una società civile distrutta, donne e bambini privati di diritti, un’economia al collasso, dall’altro un laboratorio geopolitico, economico e industriale in piena attività, gestito nell’ombra da potenze straniere, multinazionali e gruppi di interesse. Un territorio fuori dalle regole, dove ogni legge è sospesa, e ogni profitto è possibile. Un centro nevralgico dove si decide il futuro dell’energia, della farmaceutica, delle risorse strategiche e delle nuove rotte globali.

Il tema dell’energia rappresenta uno dei principali motori dell’interesse straniero per l’Afghanistan. Nonostante il Paese non sia tradizionalmente associato alle grandi riserve di petrolio e gas, negli ultimi anni si sono moltiplicati gli studi geologici – finanziati in gran parte dalla Cina e dalla Russia – che hanno evidenziato giacimenti potenzialmente enormi di gas naturale non convenzionale nel sottosuolo delle province di Jowzjan, Faryab e Balkh. Le difficoltà logistiche e l’instabilità politica avevano finora impedito lo sfruttamento di tali risorse, ma l’attuale assetto autoritario del regime talebano, privo di controllo democratico, si è rivelato un ambiente ideale per negoziare accordi a porte chiuse.

A partire dal 2024, consorzi energetici sino-iraniani hanno siglato intese con rappresentanti talebani per l’esplorazione e l’estrazione del gas da piattaforme terrestri. I proventi, secondo documenti confidenziali filtrati da fonti diplomatiche, vengono suddivisi con un meccanismo opaco che prevede il 40% alle società operative, il 20% a fondi statali “non tracciabili” controllati da membri del comando talebano, e il restante 40% in fondi destinati formalmente alla “ricostruzione infrastrutturale”, ma di fatto distribuiti attraverso reti clientelari tribali. In questo quadro, il rispetto ambientale e il coinvolgimento delle popolazioni locali sono del tutto inesistenti.

In parallelo, il corridoio energetico noto come TAPI – il gasdotto Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India – ha subito una metamorfosi. Inizialmente progetto sponsorizzato dalla Banca asiatica per lo sviluppo e sostenuto da Washington, è stato “privatizzato” da un gruppo di investitori cinesi e sauditi che, con la benedizione di Islamabad e Doha, hanno rilanciato l’infrastruttura come strumento strategico per l’influenza energetica in Asia meridionale. Il tratto afghano è oggi presidiato da milizie private fedeli ai talebani ma armate da contractor internazionali, molti dei quali ex membri di compagnie come Blackwater, ora riconvertiti in consulenti “per la sicurezza delle infrastrutture”.

Non solo energia: il capitale privato sta anche riflettendo sull’utilizzo del territorio afghano come snodo logistico. Le nuove rotte terrestri che collegano il porto iraniano di Chabahar alla Cina passando per l’Afghanistan sono parte di un disegno più ampio di “disaccoppiamento commerciale” dall’Occidente, fortemente sostenuto da Pechino e Teheran. L’Afghanistan diventa quindi non solo un serbatoio di materie prime, ma anche una chiave logistica per scambi interasiatici sempre più de-dollarizzati e gestiti in valute alternative come yuan, rial e rubli digitali.

Tutto questo avviene nell’indifferenza delle istituzioni internazionali, paralizzate da divisioni interne e interessi contrapposti. L’ONU ha perso qualunque capacità d’intervento, la NATO si è ritirata senza aver lasciato un piano di transizione, mentre le grandi ONG internazionali, pur ancora presenti in alcune aree del Paese, sono ridotte a operare sotto condizione di ricatto, obbligate a piegarsi alle imposizioni del regime per poter distribuire cibo e medicine. Alcune fonti interne riferiscono che almeno quattro organizzazioni umanitarie internazionali abbiano firmato “memorandum d’intesa” che prevedono la cessione di parte dei propri fondi operativi direttamente ai ministeri talebani in cambio di “permessi operativi”, un precedente che segna una profonda erosione dell’indipendenza umanitaria.

A tutto questo si aggiunge la crescente digitalizzazione delle operazioni di sorveglianza. Secondo una serie di inchieste condotte da giornalisti investigativi in esilio, tra il 2023 e il 2025 i talebani hanno acquistato sistemi di riconoscimento facciale e software di monitoraggio comportamentale da aziende cinesi e russe. Le telecamere a circuito chiuso sono state installate in diverse città, mentre i telefoni cellulari vengono monitorati attraverso software di sorveglianza per identificare dissidenti, attivisti, giornalisti e donne che cercano di comunicare con l’estero. È stato creato anche un “registro delle devianze religiose”, una banca dati digitale che cataloga comportamenti considerati inappropriati secondo la sharia, e che viene utilizzata per schedare le famiglie, negare accesso ai servizi, o imporre punizioni pubbliche.

Nel frattempo, la popolazione afghana vive in uno stato di sopravvivenza. Oltre 25 milioni di persone si trovano in condizione di insicurezza alimentare, e almeno 3 milioni di bambini soffrono di malnutrizione acuta. I flussi migratori verso Pakistan, Iran, Turchia ed Europa sono ripresi con forza, ma con nuovi ostacoli: i Paesi confinanti hanno rafforzato i controlli di frontiera, spesso rimandando indietro i rifugiati, mentre l’Unione Europea ha firmato accordi di contenimento con Ankara e Islamabad per impedire l’arrivo di nuovi profughi afghani. In questo contesto, gli esseri umani diventano merce geopolitica, pedine sacrificabili su uno scacchiere di interessi.

Il caso afghano è il paradigma perfetto di una nuova era in cui le crisi non si risolvono più, ma si amministrano; dove gli Stati falliti non vengono reintegrati, ma sfruttati; e dove il disastro umanitario non è più una tragedia da evitare, ma una condizione sistemica utile per alimentare una filiera economica sommersa fatta di appalti, estrazioni, traffici, dati e sperimentazioni. Gli attori che ne traggono beneficio sono numerosi: dai governi autoritari che espandono la propria influenza senza dover rispettare trattati internazionali, alle imprese farmaceutiche e minerarie che operano senza vincoli ambientali o etici, fino ai Paesi occidentali che, pur fingendo disinteresse, mantengono aperture tattiche per non essere esclusi del tutto.

Ogni fase del nuovo ciclo afghano è accompagnata da una narrazione pubblica e da una narrazione segreta. Nella prima si parla di “dialogo con le autorità locali”, di “progetti di resilienza” e di “necessità di non abbandonare il popolo afghano”. Nella seconda si negoziano percentuali di profitto, si definiscono i parametri di accesso alle miniere, si tracciano rotte del gas e si studiano gli effetti di nuovi principi attivi farmaceutici su popolazioni vulnerabili. La dissonanza tra retorica e realtà è talmente marcata che diventa essa stessa una forma di violenza epistemica.

In questo scenario, la vera posta in gioco non è soltanto il destino di un Paese, ma il tipo di ordine globale che sta emergendo. L’Afghanistan, che nel 2001 era stato definito “il laboratorio della democrazia post-11 settembre”, nel 2025 si rivela essere il laboratorio dell’autoritarismo del XXI secolo, in cui la potenza si misura non più con le bombe, ma con i cavi del litio, i flussi digitali, le varianti genetiche, i droni e i brevetti farmaceutici. E nel quale la legge non è più l’espressione della volontà popolare, ma un accordo tra poteri economici, silenzi diplomatici e ingegnerie sociali invisibili.

Condividi su: