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Aquisgrana: il trattato sul viale del tramonto

La città di Aquisgrana, già capitale carolingia, ove riposa la salma dell’imperatore Carlo Magno, è passata alla storia per i molteplici trattati che vi si sono conclusi: da quello dell’anno 812, tra Carlo Magno e l’imperatore bizantino Niceforo, a quello del 1668, tra Luigi XIV e Gran Bretagna, Paesi Bassi e Svezia sulla guerra contro la Spagna, a quello del 1748, che pose termine alla guerra di successione austriaca, per finire con quello del 1815 che, deposto Napoleone, la restituì alla Prussia cancellando l’occupazione dei francesi nel 1798.

Quella città termale di confine è tornata in questi giorni al centro dell’attenzione europea, per un’altra intesa franco-tedesca, senza che l’Italia se ne sia nemmeno accorta.

Dopo 56 anni esatti dal trattato dell’Eliseo del 1963 tra Adenauer e De Gaulle, che aveva sancito simbolicamente la riappacificazione tra i due nemici storici plurisecolari, i nuovi leder di Germania e Francia, la cancelliera Merkel e il presidente Macron, entrambi sulla via del tramonto, hanno suggellato un nuovo trattato (16 pagine, 7 capitoli e 28 articoli), già parafato dai due ministri degli Esteri, inteso a rafforzare l’amicizia e la collaborazione tra Parigi e Berlino.

Questa firma, apposta nel momento della debolezza politica più acuta dell’una e dell’altra parte, sia per il ridimensionamento subito dalla Merkel nelle elezioni federali del 2017 e poi nel tracollo di meno 10 punti in quelle della Baviera del 2018, sia per l’impressionante calo di popolarità di Macron, apertamente contestato dal 70% dei francesi e dai gilet gialli, da mesi in una forma di protesta dura, repressa nel sangue, ha un solo significato: il tentativo disperato dell’orgoglio francese di resuscitare un direttorio a due con la Germania per pilotare un processo di egemonia in Europa e rinverdire il sogno tedesco di arrivare al seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Alquanto beffarda o ingenua è apparsa la corte di contorno all’evento, di istituzioni europee in articulo mortis: l’alto rappresentante per la politica estera del nulla Mogherini, il presidente del parlamento europeo Tajani e il presidente della Commissione europea Juncker, che hanno tutti fatto la figura del cappone che partecipa alla festa del proprio sacrificio.

Juncker, noto gaffeur, senza avvedersene, ha voluto aggiungere del sarcasmo con una dichiarazione estemporanea: “l’amicizia franco-tedesca non è solo un sogno, ma una reale necessità ed è garante della pace in Europa anche se qualche volta può irritare gli altri partner che sono chiamati a dare prova di lungimiranza”, che vuol dire in termini più crudi che debbono abbozzare e soggiacere.

L’impalcatura europea negli ultimi cinque anni si è rivelata logora con paurosi scricchiolii, incapace di elaborare una strategia politica che servisse a governare il fenomeno della immigrazione, a ridurre le disuguaglianze economiche e sociali, a applicare regole fiscali non iugulatorie verso le economie in difficoltà, a bilanciare gli squilibri commerciali, a dimostrare nei fatti quella solidarietà intraeuropea che si vorrebbe fosse applicata verso gli africani solo dai mediterranei del sud.

La secessione della Gran Bretagna in applicazione della Brexit e le politiche di rigore economico-sociale messe in campo prima verso la Grecia e poi un po’ dappertutto, non hanno fatto altro che far crescere la protesta di 100 milioni di cittadini, ipnotizzati dal desiderio di recuperare la sovranità nazionale sulle politiche interne, stanchi dell’austerità protettrice solo dei grandi capitali, dell’insipienza dei propri politici e di quelli spediti a Bruxelles, e di una Commissione descritta come composta da aguzzini o per essere più soffici da ottusi burocrati.

In queste condizioni i due leader più malconci rispetto al sostegno popolare, si sono appoggiati l’uno all’altro nell’estremo tentativo di frenare l’erosione di consensi che di qui a tre mesi sconvolgerà gli assetti politici del parlamento europeo.

Del resto le immediate dichiarazioni rilasciate da Macron, a inchiostro ancora fresco, mentre fuori del palazzo la folla rumoreggiava in protesta, non lasciano adito a dubbi ed anzi fanno antevedere quale possa essere lo sbocco: “di fronte alle sfide nazionaliste di oggi ed alle minacce che non provengono solo dall’esterno, ma anche dall’interno della nostre società, Francia e Germania devono assumersi la responsabilità di parlare con una voce sola”.

Che significa? Ben oltre il simbolismo di facciata, c’è la volontà di creare un forte nucleo europeista nel cuore dell’Unione che implica una concertazione preventiva in vista di riunioni ad alto livello europeo, in modo da poter assumere una posizione comune e persino arrivare a dichiarazioni congiunte su temi sensibili e di importanza prioritaria come difesa, armamenti, sicurezza, terrorismo, ricerca, immigrazione, ambiente, politica fiscale.

Si parla anche della creazione di un Consiglio di difesa e sicurezza comune che si riunirà regolarmente al massimo livello e dell’impegno francese a favorire le aspirazioni tedesche ad un seggio permanente al CdS delle NU oltre alla creazione di una zona franca di confine per rafforzare il bilinguismo e i legami commerciali.

Ma l’intesa ha trovato subito proteste all’interno dei confini geografici: l’estrema destra tedesca, in crescita elettorale, ha accusato la Merkel di voler imporre una super Europa a due all’insaputa della popolazione mentre quella francese, altrettanto arrabbiata, ha accusato Macron di vendere l’Alsazia-Lorena e di porre le basi per la cessione alla Germania del seggio permanente della Francia nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Ma anche gli altri spettatori sulla scena internazionale hanno mostrato la propria insoddisfazione e disappunto a cominciare dagli Stati Uniti che non vogliono aggregazioni di potere, dal blocco di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia), e dalla nuova lega di tipo anseatico (Olanda, Finlandia, Danimarca, Irlanda, Lettonia, Lituania, Estonia). E circolano già sondaggi e previsioni sulle prossime elezioni europee che non saranno una battaglia delle democrazie liberali contro i partiti xenofobi e populisti, che guadagnano consensi quasi dovunque, ma una specie di referendum dei popoli sull’Europa di oggi. Colpo di zappa sui piedi peggiore, non potevano darselo.

Per quanto riguarda l’Italia, paese fondatore dell’UE con i trattati di Roma, del tutto all’oscuro del patto franco-tedesco, esce umiliata da questa esclusione che praticamente cancella o supera le prospettive di quello che era stato presentato a inizio 2018 come patto del Quirinale tra Macron e Gentiloni.

Essere tenuta fuori dalla porta, con l’aggravante del comportamento inamichevole concernente il cedimento francese alle pretese tedesche sull’ONU, nonostante che in passato l’Italia avesse raggruppato con una politica trasparente a viso aperto una folta maggioranza di delegati nell’Assemblea Generale in favore di una riforma complessiva del Consiglio di Sicurezza per riconoscere un ruolo a tutti i paesi del G7, va visto non come dice Juncker come una necessità, ma come atto apertamente ostile.

Dunque, ed è qui che si dimostra l’incapacità dei Governi Renzi-Gentiloni, il patto di Aquisgrana è la dimostrazione plateale che a nulla sono serviti oltre ai regolari summit europei anche i vertici tenuti da Renzi (con la Germania a Firenze il 26.1.15, trilaterale a Ventotene dell’agosto 2016 con Hollande e Merkel e bilaterale con la Francia a Venezia 8.3.16 e poi ancora con la Germania a Maranello il 18.6.16) da Gentiloni (con Macron a Lione il 22.9.2017).

Esso ha messo a nudo anche un’altra verità e cioè il fallimento della nostra diplomazia, in completo stato di abbandono da quando a comandare le feluche fu posto come Ministro prima Gentiloni (quello che ha regalato gratis un pezzo di mare alla Francia senza alcun dibattito parlamentare) e poi Alfano (quello che si era fatto soffiare sotto il naso la Shalabayeva), che non hanno saputo captare i segnali del rafforzamento dell’intesa franco-tedesca, né stanare nei molteplici incontri qualche interlocutore per capirne le intenzioni.

Un trattato del genere non si negozia in qualche mese, ma in estenuanti incontri e trattative su ogni parola e su ogni virgola che durano anni per cui è ovvio che il piatto sia stato cucinato all’insaputa degli ignari predecessori di Conte che ha fatto bene a Davos a mettere in chiaro che d’ora innanzi sono i popoli a scrivere la storia d’Europa più che le cancellerie europee.