
Auto e l’Acciaio
Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in Economia e Politica.
A cura di Agostino Agamben
Il potere come strategia e trame elettriche, disallineamenti e la metamorfosi dell’auto europea.
Nell’era della guerra ibrida e delle catene del valore come fronti operativi, la penetrazione industriale cinese in Europa non è una semplice espansione commerciale ma una manovra di occupazione infrastrutturale; CATL e Chery non vendono solo batterie e veicoli, ma posizionano asset strategici nel cuore del continente, ridisegnando la mappa della sovranità produttiva europea; l’Europa si scopre terreno conteso tra logistica militare ed energetica, tra supply chain come armi e stabilimenti come basi avanzate, mentre il confine tra industria e difesa evapora e la mobilità elettrica diventa teatro di un conflitto senza dichiarazione, in cui chi controlla la soglia — della tecnologia, dell’energia, della decisione — controlla il futuro.
CATL non entra in Europa. Non varca un confine. CATL costruisce la soglia. E non si tratta di metafora, la soglia è ciò che non separa ma connette, ciò che non divide ma espone. È la forma politica che oggi prende il capitale industriale, la condizione attraverso cui il potere non domina dall’esterno ma si installa, si incorpora, si dispone nel cuore stesso dell’altro. Quando la Cina “arriva”, non attraversa; apre, fonda, si rende condizione — e l’Europa non ha ancora appreso la grammatica di questa logica.
La IPO da 4,6 miliardi non è capitalizzazione di mercato. È gesto di una fondazione globale che si fa economica e politica. Lo scarto del 16% al debutto è cifra solo per chi legge numeri; ma per chi legge poteri, è dichiarazione d’intenti, è affermazione di un’agenda, è l’inaugurazione di una nuova architettura del valore, nella quale il luogo non è più dato, ma costruito. E questa soglia non si limita a essere l’apertura di un cancello, è il cantiere di una nuova forma di presenza che, mentre si mostra, già trasforma ciò che tocca.
Non è un caso che l’Ungheria diventi territorio di insediamento. La scelta geografica non obbedisce al calcolo tecnico — pur sempre presente — ma alla mappa delle disponibilità politiche. La soglia si insinua là dove il dispositivo statale è pronto a farsi docile alla forza del capitale. L’Europa non è invasa: è già predisposta, è già conformata. Il capitale non ha bisogno di forzare l’ingresso, perché la soglia è già aperta, o meglio, non ha mai davvero chiuso.
CATL destina il 90% della sua raccolta a un impianto che non è solo fabbrica, ma nodo. Nodo simbolico, nodo logistico, nodo di riorganizzazione delle filiere. Un nuovo tipo di penetrazione, non dall’esterno, ma dal di dentro. Così, Stellantis, BMW, VW non sono semplicemente clienti: sono satelliti, sono attori di una costellazione che si sta ricomponendo su assi non più europei, ma sino-centrici. E nella misura in cui le case automobilistiche europee si legano a queste nuove piattaforme produttive, si sottomettono a una logica che non governano più.
Chery, meno fragorosa, più insinuante, disegna un’altra soglia. Non l’impianto massivo, ma l’innesto delicato. Prende la forma di SUV, si traveste da transizione: elettrico, ibrido, combustione. Lepas non è solo un veicolo, è maschera, è codice linguistico. Con il suo assemblaggio a Barcellona — ex stabilimento Nissan — Chery si presenta come ospite che ristruttura la casa dell’ospitante. Non estrae valore, ma lo ri-orienta. L’Europa diventa non più padrona, ma piattaforma.
La strategia non è dunque l’esternalizzazione, ma l’internalizzazione del capitale. Produrre in Europa per non essere *dell’*Europa. E questo è forse il tratto più sottile del dispositivo cinese: penetrare non attraverso il commercio ma attraverso la coabitazione. Installarsi non come invasore, ma come condizione. È la soglia che non si vede, ma che modifica tutto.
Volkswagen, in questa partita, appare bloccata tra forma e sostanza. I contratti collettivi che vietano la chiusura degli stabilimenti tedeschi sono garanzia solo apparente. Sono come quella legge che garantisce libertà, ma solo all’interno di uno spazio già ridotto. Dresda e Osnabrück non sono più luoghi di produzione, ma luoghi di sospensione: in attesa di una decisione che verrà da altrove. La capacità produttiva di Osnabrück non è semplicemente un dato tecnico: è l’indice di un possibile abbandono simbolico. Non si chiude, ma si svuota.
E intanto i dazi si alzano. Non come muri, ma come filtri. Gli Stati Uniti lanciano il loro anatema contro CATL, non per vietare, ma per rallentare, per sporcare il simbolo. Le accuse di connessioni con l’esercito cinese non sono tanto prova quanto sospetto. E il sospetto è già un dispositivo. Chi entra nel mercato occidentale con questo marchio è già segnato. Ma la soglia non si chiude: si sporca, si complica. E questa complicazione diventa parte della strategia.
Mazda abbandona il Canada, Toyota ricalibra i suoi piani. I flussi produttivi si spostano come acque sotto pressione. E l’Europa appare come un bacino di raccolta, non per scelta, ma per geometria. Non centro, non periferia, ma interregno. Spazio dove le decisioni altrui si depositano. Spazio di transito più che di progetto.
L’auto — un tempo oggetto di consumo, oggi dispositivo di potere — si fa forma politica. È il vettore con cui si spostano interessi, alleanze, ricatti. E la mobilità elettrica, che doveva liberare, diventa invece il nuovo strumento della subordinazione.
Horizon Europe lancia i suoi 7,3 miliardi come gesto di presenza. Ma il gesto è vuoto se non è inscritto in un progetto. La politica dei bandi è politica della reazione. Si finanzia perché si è in ritardo, si finanzia per evitare lo svuotamento. Ma se la soglia è già stata presa, se il luogo è già segnato dal capitale esterno, allora il finanziamento rischia di essere toppa, non trama. E la trama, in questo racconto, è ciò che conta: la capacità di tessere, di connettere, di costruire una rete non solo tecnica, ma simbolica, politica, culturale.
La batteria non è solo accumulo di energia: è deposito di potere. Non è un oggetto tecnico: è il cuore di una infrastruttura. Pensare alle batterie come bene economico è già accettare la subordinazione. Solo se si pensa la batteria come dispositivo politico — condizione materiale della sovranità — si può provare a invertire la rotta.
L’Italia, in questo quadro, è come sempre sospesa. Osservatrice partecipe, mai attrice piena. Potrebbe essere nodo, ma teme di esserlo. Potrebbe prendere parte, ma preferisce attendere. E mentre attende, le decisioni si prendono altrove. Gli impianti si installano, le reti si saldano, le soglie si rafforzano.
Ma è ancora possibile un ribaltamento. La soglia, se riconosciuta, può essere anche forma di potere. Non luogo della passività, ma spazio della decisione. L’Europa deve imparare a costruire soglie che non siano semplici accessi, ma porte condizionate. Non muri — non si tratta di respingere — ma filtri intelligenti, capaci di dire: si entra, ma secondo le nostre regole.
Questa capacità di fissare le condizioni del dentro è ciò che distingue il soggetto dal semplice ospitante. E oggi l’Europa appare più ospitante che soggetto. Più terra d’uso che terra di progetto.
Così, l’industria dell’auto si disegna come il teatro in cui si recita la nuova partizione del mondo. Non più solo fra est e ovest, ma fra chi dispone della soglia e chi la subisce. Chi produce non è più solo chi possiede gli impianti, ma chi orienta le filiere, chi detta gli standard, chi definisce le tecnologie.
E se l’Europa non decide chi è dentro e chi è fuori, non sarà nemmeno più capace di riconoscere sé stessa.
La soglia, allora, non è un concetto marginale. È il concetto politico fondamentale di questa nuova fase. Perché è sulla soglia che si decide l’accesso. E nell’accesso, si gioca il potere. Non più confine rigido, ma interfaccia. Non più barriere, ma codici. Codici di ingresso, codici di permanenza, codici di riconoscimento. La soglia non è più ciò che separa chi è dentro da chi è fuori, ma ciò che condiziona l’essere dentro, che lo plasma secondo coordinate imposte da chi controlla le regole dello scambio. Non è dunque nella chiusura che si esercita il potere, ma nella capacità di scrivere le condizioni dell’apertura.
CATL lo ha compreso: l’Europa non si conquista da fuori, si riscrive da dentro. Il sito ungherese non è espansione industriale, ma architettura giuridico-geopolitica. È un dentro che trasforma il significato stesso dell’Europa come spazio. Non è più un continente, ma un’interfaccia: una piattaforma di distribuzione di valore, priva — se non reagisce — di potere sovrano sul come e sul dove.
Nel frattempo, Chery opera in una zona grigia. Non è più esportatore, non è ancora soggetto pienamente radicato. Lepas, il SUV pensato per i mercati europei, è prodotto per somigliare. Non adatta il consumatore alla macchina, ma adatta la macchina al consumatore, con l’astuzia di chi capisce che l’assimilazione non passa dalla forza ma dalla forma. Chery entra non per restare cinese, ma per diventare condizione del futuro europeo, sotto una nuova grammatica dell’identità industriale.
Così, ciò che si dispiega sotto i nostri occhi non è una semplice competizione economica, ma un conflitto per la definizione delle regole della coesistenza. Chi può determinare come si produce in Europa, chi vi può produrre, a quali condizioni, con quali standard e verso quali fini — è questo il vero terreno di scontro. La fabbrica non è più luogo della produzione: è luogo del diritto. È lì che si decide se l’Europa è ancora uno spazio di decisione, o solo di reazione.
Il contratto collettivo di VW che vieta la chiusura degli impianti è esemplare: è una forma vuota che tenta di trattenere ciò che è già sfuggito. Il lavoro resta, ma il potere di decidere dove esso si localizza è già altrove. Dresda diventa non un presidio, ma una promessa sospesa, la cui effettività è subordinata a logiche non dichiarate. Osnabrück si candida come sacrificabile. E così il linguaggio giuridico della difesa diventa involontario linguaggio della resa.
Nel cuore di questa trasformazione, Horizon Europe tenta di giocare la partita dell’inversione: finanziare ricerca, incoraggiare innovazione, costruire reti. Ma il rischio è quello di agire per frammenti, dove servirebbe una visione integrale. Perché ogni progetto di ricerca, se isolato, è voce flebile nel coro degli interessi globali. Solo se la rete europea saprà articolarsi in potere collettivo — istituzionale, industriale, culturale — potrà nascere una soggettività tecnologica europea.
Non è questione di bilancio, ma di architettura della decisione. Se l’Europa finanzia batterie, ma CATL controlla le fabbriche, se l’Europa incentiva l’auto elettrica, ma Chery ne definisce la filiera, allora la distanza tra investimento e autonomia non è solo economica: è ontologica. Si finanzia ciò che altri definiranno. Si investe nella forma, ma non nel contenuto. Si possiede il contenitore, ma non il codice sorgente.
È qui che la soglia si fa ultima posta in gioco: non è più il semplice punto d’accesso, ma il luogo in cui si decide chi è autore del futuro. Per questo, parlare di soglia come strategia non è esercizio teorico, ma necessità politica. Decidere la soglia significa decidere che tipo di futuro si vuole, da chi sarà abitato, attraverso quali forme si strutturerà.
L’Italia, in questo snodo, appare incerta. Troppo grande per essere solo periferia, troppo disarticolata per essere centro. Potrebbe scegliere di essere nodo — nella logistica, nella filiera, nella ricerca, nell’assemblaggio — ma ciò richiede un salto di paradigma. Non basta l’attrattività fiscale, non bastano i bonus: serve una strategia di soglia, capace di orientare non solo l’arrivo dei capitali, ma il loro insediamento politico.
Eppure, una possibilità ancora esiste. La soglia non è solo ciò che si subisce. Può essere anche ciò che si costruisce. Ma per costruirla, occorre imparare a pensare come dispositivi ciò che sembrano eventi: un’IPO, uno stabilimento, un dazio, una chiusura, un incentivo. Nessuno di questi elementi è neutro: sono elementi performativi di un nuovo ordine produttivo.
CATL ha agito come autore. Ha scritto la soglia. Chery la sta riscrivendo, lentamente. Gli Stati Uniti la marchiano di sospetto. L’Europa la sta leggendo, forse, ma non ancora interpretando. Se vuole rientrare nel racconto, non deve solo reagire: deve iniziare a scrivere.
E scrivere la soglia, oggi, significa assumere che ogni nuova fabbrica è un atto di fondazione, ogni incentivo una presa di posizione, ogni standard una forma di potere. Solo riconoscendo che la fabbrica è insieme spazio di produzione e forma giuridica, che la batteria è insieme accumulatore di energia e accumulatore di decisioni, l’Europa potrà cominciare a esistere non solo come luogo geografico, ma come soggetto politico.
La posta in gioco non è più se l’Europa saprà competere con la Cina, o se saprà difendersi dall’invasione di capitali. Questo è già passato. La vera posta è: chi decide il significato dell’essere in Europa? Chi traccia le linee, chi costruisce le soglie, chi stabilisce cosa significhi “produrre in Europa”?
Se la soglia è solo un passaggio che altri determinano, allora l’Europa è già un continente senza forma. Ma se la soglia diventa uno spazio da architettare, allora la partita è ancora aperta. Si può ancora tornare a decidere non chi entra, ma come entra, a che condizioni, con quali legami, con quali ricadute.
La soglia è già qui. È già tracciata. Ma può ancora essere piegata, abitata, rifondata. Non più luogo che segna la fine, ma dispositivo che apre la possibilità. Non muro, ma forma di governo del futuro. Ed è forse proprio qui — in questa zona indeterminata tra potere e passaggio, tra industria e politica, tra mercato e sovranità — che si gioca la possibilità dell’Europa di tornare a essere soggetto. Non per dominare, ma per decidere.
Nel tempo delle soglie, solo chi le costruisce può ancora dire di esserci.