BCE “L’Asse del Rinvio”
Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in Economia e Politica.
A cura di Agostino Agamben
Divergenze monetarie, paralisi fiscale, inflazione frammentata e riserva strategica della liquidità come BCE, Fed e potenze economiche si muovono in un equilibrio instabile tra normalizzazione differita, sorveglianza algoritmica e sospensione sistemica degli investimenti reali
Non è il taglio dei tassi, né il livello dell’inflazione, e nemmeno il tasso di cambio a costituire oggi la posta in gioco reale. È piuttosto la trasformazione silenziosa della moneta in tecnica di governo, dell’economia in linguaggio dell’obbedienza, della finanza in architettura dell’invisibile. Quando la Banca Centrale Europea si riunisce, quando la Federal Reserve valuta la traiettoria del BCE core o i dati sull’occupazione, non assiste a un semplice flusso di indicatori: essa abita un dispositivo di cattura della vita, un sistema in cui il dato non rappresenta ma prescrive, in cui la fluttuazione non indica ma dirige. La soglia del 2,3% di inflazione nell’Eurozona non è un valore: è un segnale. La sua funzione non è descrittiva ma normativa. Come nella liturgia antica, il rito non rappresenta il divino: lo rende presente. Così il dato economico non riflette l’economia, ma la costituisce come ordine.
Nel momento in cui l’indice core resta inchiodato al 2,7%, mentre i servizi mantengono costi elevati, si realizza una tensione tra ciò che è detto e ciò che è taciuto: da un lato, la retorica della stabilità e del contenimento; dall’altro, la persistenza di una soglia che segnala la mancata neutralizzazione del rischio. Il rischio, infatti, non è più elemento da eliminare, ma struttura permanente del governo monetario. L’inflazione diviene così ciò che deve essere mantenuto entro certi limiti, non per essere annientata, ma per garantire la perpetuazione del meccanismo di sorveglianza. È il concetto di norma mobile, che non è mai pienamente soddisfatta, e dunque giustifica la ripetizione del gesto regolatore.
In Germania, Spagna, Francia, Italia, le variazioni divergenti dei tassi inflattivi compongono una mappa ineguale della vulnerabilità sistemica. L’inflazione al 2,4% in Germania non ha lo stesso significato di quella al 1,6% in Italia: non perché i numeri siano più o meno gravi, ma perché la loro funzione simbolica è diversa. L’unità monetaria europea sopravvive a condizione di differenziare silenziosamente il proprio interno. L’euro non unisce: segrega. Rende comuni i vincoli, non i benefici. Si genera così una forma di economia della differenziazione, dove la coesione è prodotta dalla comune esposizione alla sanzione e alla soglia, non dalla condivisione di una destinazione.
Il Consiglio direttivo della BCE non è più luogo di deliberazione: è una macchina di soggettivazione. Le sue divisioni interne non sono divergenze politiche, ma articolazioni della stessa razionalità governamentale. La posizione favorevole al taglio dei tassi, come risposta al rallentamento economico, è la forma liberale della stessa logica che, nel suo opposto, teme l’aumento salariale come perturbazione dell’equilibrio. Si tratta, in entrambi i casi, di varianti della stessa volontà di normalizzazione: quella che vuole ridurre l’eccesso della vita a calcolo, rendere prevedibile ciò che per sua natura eccede.
Le proiezioni economiche di dicembre diventano allora ciò che nell’antico era la profezia. Ma non c’è più un Dio a parlare, né un sacerdote ad ascoltare. Il linguaggio delle proiezioni è tecnicamente neutro, ma politicamente assoluto. In esso non vi è più margine per l’imprevisto: ogni variazione viene assorbita nella modulazione del rischio, ogni deviazione nella sua immediata compensazione. L’incertezza geopolitica, la politica tariffaria americana, le turbolenze del mercato petrolifero, tutto viene riassunto in uno spread, in un differenziale, in un indice. La realtà viene derivata, non osservata.
Negli Stati Uniti, dove gli ordini di beni durevoli crescono appena, e dove la spesa delle famiglie resiste nonostante l’aumento del risparmio, si delinea una configurazione analoga. Anche qui, ciò che conta non è l’aumento dello 0,6% del reddito personale, ma il fatto che questo incremento non generi desiderio, ma ritenzione. Il risparmio al 4,4% non indica fiducia, ma autosospensione. Il consumo stesso — che nel paradigma keynesiano era l’atto politico per eccellenza — si ritrae. L’economia non cresce, esita. Il soggetto economico non desidera, calcola. Ed è in questo scarto che si misura la potenza di una governance che opera non per comando, ma per predisposizione.
Il PCE core, salito al 2,8%, è un sintomo che viene letto non in funzione del passato, ma come anticipazione di un futuro probabile. Non si valuta ciò che è, ma ciò che potrebbe accadere se non si agisce in un certo modo. È la logica della prevenzione infinita, che non conosce più evento, ma solo deviazione. L’intervento, così, non risponde più a una crisi, ma la presuppone permanentemente. È l’economia del quasi-allarme, del quasi-rischio, della quasi-recessione: sufficienti a legittimare un’azione che non cambia nulla, ma che impedisce ogni alterazione.
In questo contesto, la crescita dei fondi monetari fino a 6.600 miliardi di dollari non è segno di forza, ma di immobilità strategica. Il capitale si trattiene, come la vita. Si dispone, senza impegnarsi. La liquidità diventa una forma di attesa disciplinata, in cui la possibilità dell’investimento resta sospesa in un tempo senza evento. Ogni correzione del mercato è già prevista, ogni riallocazione ipotizzata, ogni rischio assicurato. La volatilità è domata non attraverso la forza, ma mediante la continuazione infinita del presente.
La BCE, in questo scenario, non decide: funziona. Come ogni dispositivo, la sua efficacia non è nella sua intenzione, ma nella sua inerenza al sistema. Non ha più bisogno di enunciare un progetto: è già il progetto. E nella sua azione, produce soggetti. Consumatori prudenti, investitori stabili, famiglie parsimoniose. È una pedagogia monetaria, in cui il tasso d’interesse educa, il differenziale punisce, il target d’inflazione catechizza.
Anche il ritorno di Trump non è più un fatto politico, ma un dato strutturale. Il desiderio di un dollaro debole, la spinta protezionistica, la retorica anti-Fed, tutto rientra in un ordine che non può essere rovesciato, ma solo variato. L’indice DXY, salito del 2,5%, è la prova che la sovranità americana si esercita oggi sul differenziale valutario, non sul territorio. Il dazio, nel mondo contemporaneo, non è un’imposta: è una linea di frattura ontologica tra identità economiche, un segno che distingue, separa, definisce.
Il tasso EUR/USD, che scivola sotto 1,05, non è più una misura economica. È una soglia simbolica. Il ricordo della parità toccata nel 2022 è la traccia di un ordine perduto, di un equilibrio mitico che ormai sopravvive solo come nostalgia. Ma la nostalgia, come ogni affetto nel mondo del capitale, è già calcolata nei modelli. Gli investitori non operano sulla base del valore attuale, ma del sentimento atteso. Anche l’emozione è oggi un asset, un derivato, una curva.
Gli spread a due anni tra UE e USA non esprimono attese inflazionistiche, ma asimmetrie nella struttura del potere monetario. Se i mercati scontano una BCE che taglierà i tassi fino all’1,75%, è perché hanno già incorporato l’idea che l’Europa non possa più permettersi la sovranità. L’impossibilità di un impulso fiscale in Germania fino al Q2 2025 non è una scelta: è ‘una condanna
Strutturale’. Il freno costituzionale al debito, inscritto nella Grundgesetz, opera come un dispositivo di neutralizzazione del politico. Non proibisce l’azione: la ritarda indefinitamente, fino a renderla priva di effetto.
Nel frattempo, l’Euro digitale si affaccia come promessa. Ma è una promessa che, come tutte le promesse nel regime dell’algoritmo, è già autorealizzata. Il digitale non libera: preordina. La moneta digitale programmabile è lo strumento con cui il denaro cessa di essere mezzo per divenire norma attiva. Non più riserva di valore, ma codice di comportamento. Una moneta che può essere spesa solo in certi contesti, in certi tempi, in certi luoghi, non è moneta: è biopolitica pura. È il punto in cui la gestione della vita diventa struttura del valore.
Così, nel gioco tra BCE e Fed, tra euro e dollaro, tra spread e swap, non assistiamo a una partita, ma a una liturgia senza fede. Un rito in cui le parole si ripetono — inflazione, crescita, stabilità — ma il significato è svanito. Ciò che resta è la funzione della ripetizione: un ciclo che si autoalimenta, che non necessita più di interpretazione, ma solo di mantenimento. L’economia diventa quindi ciò che resiste a ogni mutamento: una tecnica della conservazione del presente.
La crisi politica tedesca, prevista e ritardata, è l’ennesima dimostrazione che il vero potere oggi non sta nel decidere, ma nel rinviare. La nuova coalizione, qualunque essa sia, non potrà cambiare la traiettoria. Al massimo, potrà redistribuire le forme del rinvio. L’eventuale revisione del freno al debito porterà a nuove emissioni obbligazionarie, ma non a un nuovo progetto europeo. Perché l’Europa, ormai, non progetta più: contabilizza.
Il dollaro resta forte, ma non per decisione. Lo è perché è ancora il punto di fuga di un sistema che ha rinunciato alla politica per non perdere il controllo. Ma questa forza è esausta, fondata sul debito, sulle partite correnti, su un twin deficit che prima o poi esigerà il suo prezzo. Ma anche questa catastrofe è già differita: come il default, come la recessione, come il cambiamento. Tutto si tiene nella forma del non ancora, del forse poi, del vedremo.
Il denaro, infine, si mostra per ciò che è diventato: un sacramento senza divinità, un rito che non crede più in sé stesso, ma che si ripete perché nessuno sa più cosa fare senza di esso.