
Brda Contemporary Music Festival 2023
Scritto da Davide Mengarelli il . Pubblicato in Cinema, Musica e Teatro.
a cura Davide Mengarelli
Tra suono territorio e comunità effimera Dal 14 al 16 settembre
Un’esperienza di improvvisazione radicale che intreccia il paesaggio del Collio con pratiche di ascolto, cura e resistenza culturale nel cuore di una terra di confine.In un’epoca in cui la cultura spesso si muove in circuiti sempre più globalizzati e accelerati, il Brda Contemporary Music Festival si distingue per la sua scelta di radicarsi in un territorio preciso, assumendo il paesaggio e la comunità locale come interlocutori attivi e imprescindibili. Non si tratta di un evento che si sovrappone al luogo come uno strato superficiale, ma di una pratica che nasce dal tessuto ambientale, sociale e storico di Šmartno, un piccolo borgo del Collio dove confini geografici e culturali si intrecciano da secoli.
Qui, la musica d’improvvisazione non è solo una forma artistica, ma diventa strumento e metafora di un ascolto profondo e partecipato, di una presenza consapevole che accoglie la complessità del paesaggio sonoro e umano. Il festival emerge così come un laboratorio vivo, un’esperienza immersiva che intreccia il gesto creativo con le pratiche quotidiane della comunità, trasformando lo spazio-tempo del festival in un territorio di relazione, riflessione e cura. È in questo incrocio di dimensioni che il Brda Contemporary Music Festival apre una riflessione radicale sulle possibilità del fare musica oggi, sulle forme di resistenza culturale e sulle nuove modalità di abitare il mondo.
Il Brda Contemporary Music Festival 2023 a Šmartno, nel cuore del Collio, non era soltanto un contenitore di eventi ma un organismo vivo, plasmato dalle pieghe del territorio, dall’approccio radicale all’improvvisazione e da un intenso lavoro di relazioni e ascolto. Tra queste antiche case in pietra adagiate sulle colline, il festival assume una fisionomia autentica: una presenza concertata, incastrata in un paesaggio che è al contempo cornice e co-autore delle esecuzioni. Qui – dove le vigne si stendono fino all’orizzonte e il vento accarezza i filari – le pratiche artistiche contemporanee si innestano con naturalezza sulle pieghe del quotidiano rurale, generando un dialogo mai scontato tra radici e orizzonti.
Šmartno non si offre come sfondo neutro, ma rivendica una presenza attiva: ogni vicolo in pietra, ogni corte, ogni pendio vissuto diventa spazio attivo, strumentale, un corpo che risuona. L’arte non si predica dall’alto e non si “porta” su un territorio considerato periferico: piuttosto emerge dal dialogo con ciò che è già lì, in una relazione che non stempera la contemporaneità ma la radica, ne fa materia viva. Non siamo di fronte all’ideale retorico di “cultura che giunge alla provincia”, bensì alla scoperta di nuovi ordini, nuclei di sperimentazione che si insediano in territori marginali ma fecondi.
Protagonista assoluta diventa l’improvvisazione, intesa non come gesto narcisistico o vuota assenza di regole, ma come pratica radicale d’ascolto, di cura, di trasformazione condivisa. Se il festival si strutturava su cinque giorni, era proprio in quest’orizzonte temporale sospeso che l’improvvisazione trovava respiro: i musicisti erano chiamati non solo a suonare, ma a incontrarsi, a dialogare tra loro e con il paesaggio, a condividere le pause, i silenzi, gli spostamenti, i pasti. Non c’era separazione netta tra performer e ascoltatori: tutto accadeva negli stessi spazi – cortili, osterie, strade – in un tessuto continuamente riformato da scambi, interruzioni, frammenti di conversazione.
Questo metodo produce tensioni e resistenze: ogni suono si colloca, ogni pausa pesa, ogni gesto si inscrive nello spazio relazionale, in un sistema d’ascolto che pretende presenza. Gli approcci si moltiplicavano: c’erano tecniche timbriche astratte, gesti fisici performativi, paesaggio sonoro naturale, elettronica. Nessuna grammatica unica, nessuna prescrizione di stile dominante: ogni gesto musicale contenuto in sé responsabilità, contingenza, posizionamento.
Ma il Brda Festival non era solo concerti: era costruzione di una comunità temporanea. Una comunità densa, fatta di gesti ordinari eppure significativi. Gli artisti non isolate: vivevano insieme, cucinavano insieme, camminavano insieme, parlavano, tacevano insieme. L’assolo quotidiano delle nostre abitudini si frantumava in condivisione. La convivialità diventava il terreno di un ascolto che precedeva e nutriva la performance. Uno stato di sospensione, dove lentezza e prossimità risignificavano tempo e spazio. Il vino, l’aria che scivola sulle vigne, il sole che cala dietro le colline, le parole sussurrate dopo i concerti: tutto costituiva un paesaggio sensoriale condiviso, un’esperienza incisa sulla memoria.
Molte delle performance mettevano in primo piano questo rapporto con ciò che è intorno. Il trio di Tomaž Grom, Jonas Kocher e Seijiro Murayama nel cuore di una radura tra le vigne: i loro suoni dialogavano con vento, insetti, rumore di trattori lontani. Non era una pittura sonora del paesaggio, bensì un incontro tra corpi sonori umani e non umani, uno scambio spontaneo e situato. Il paesaggio non era soggetto passivo: partecipava, rispondeva, restituiva. Un dialogo incarnato, in cui i confini tra ciò che è natura e ciò che è pratica artistica si dissolvono.
Poi Maja Osojnik con la sua voce elettronica e oggetti trovati – un corpo che sondava memoria, trauma, distanza. Fragilità e violenza convivevano in un equilibrio instabile, potente. La sua performance era un dialogo intimo, non spettacolare, dove il sussurro e lo stridore si facevano segno, costruendo una drammaturgia che restava nel cuore e nella mente. Anche qui, nessuna spettacolarizzazione: la musica era gesto di testimonianza, traccia di vissuto, attivazione di un campo emozionale che si faceva spazio nell’esperienza collettiva.
E poi le camminate collettive che aprivano ogni giornata: niente più di una partenza a passo lento tra vigne e pievi, sotto la guida di musicisti o abitanti. Un ascolto del paesaggio fuori dalla cornice definita del palco. Lì, il festival si ribaltava: la frontiera tra arte e vita si faceva sottile, inviolabile. Ogni passo diventava campo di ascolto, ogni pietra, ogni vento. Lo sguardo si apriva all’imprevisto, e l’artista diventava guida, presente senza mediazioni.
Questo sguardo al confine, alla limitazione geografica e culturale, era un nodo cruciale. Il Collio è terra di frontiera, attraversata da storie di confini mutevoli, tensioni linguistiche, memorie complesse. Non una terra omogenea, ma stratificata. Adoperare quel territorio significava interrogare l’idea stessa di confine. Il festival lo sceglieva non come contenitore neutro, ma come soggetto vivo della riflessione. Gran parte degli artisti con percorsi migranti – città diverse, lingue multiple, generi attraversati – vivevano l’idea d’identità come tensione, come possibilità doppia. Nessuno era davvero “a casa”, eppure tutti erano a casa in quel luogo: un tessuto di relazioni marginali e centripete, dove l’identità si costruisce nella soglia, nel passaggio, nell’incontro.
Sul fronte pratico, il Brda Festival ha scelto una via controcorrente rispetto alla logica mainstream: tagliato sui tempi brevi, sui numeri contenuti, sulla lentezza. Niente spettacoli simultanei, nessun palco monumentale, nessuna corsa alla crescita smisurata o allo sponsor invasivo. Ogni concerto è stato un appuntamento scandito, calibrato; ogni spazio attrezzato nel dialogo con le condizioni del luogo. Si è lavorato con risorse limitate, certo, ma distribuite con cura: logistica essenziale, ospitalità calibrata, comunicazione che cercava sottrazione, non sovrabbondanza. Una forma di sostenibilità culturale che non si accontenta della mera riduzione ecologica, ma ragiona su come abitiamo lo spazio culturale: come organizziamo relazioni, percepiamo tempo, ripensiamo l’esperienza di festival.
Ed è proprio questo il significato politico, profondo, del festival: una pratica non solo estetica ma etica, che interroga la modalità di abitare il mondo. In un tempo in cui crisi ambientali spingono alla rapidità e alla polarizzazione, il Brda propone il gesto semplice e radicale di fermarsi, ascoltare, condividere. Fermarsi non come fuga, ma come resistenza; ascoltare non come estraneazione, ma come relazione; condividere non come consumare, ma come legare. Qui la libertà non è fuga dall’altro, ma attaccamento a un altro, cura, relazione.
Il silenzio – in questo contesto – non appare come vuoto o mancanza, ma come risorsa. Non silenzio anonimo, ma spazio d’anticipazione, tensione latente, capacità di ricevere. Non attesa passiva, bensì terreno attivo, nutrimento per il suono successivo e per l’ascolto. Molte performance erano brevi, precise, tagliate da pause che tenevano insieme la loro densità; altre sessioni avvenivano in forma informale, senza pubblico definito. Il tempo, la pausa, il silenzio divenivano elementi non secondari ma fondanti – l’aria nella struttura, la tensione prima dell’evento. Lo spazio del non detto, del non suonato, era materia viva, e in quel vuoto si costruiva l’esperienza, si apriva il luogo del possibile.
Così emerge l’idea di una pedagogia dell’ascolto che il Brda Festival offre. Non insegnamento frontale, ma posture condivise. L’ascolto diventa gesto attivo, vulnerabile, in relazione: un apprendimento situato che non passa da teorie, ma dalla pratica condivisa, dal corpo che si muove, si mette in discussione, si trasforma. Non si ricevono contenuti, ma si apprendono modi di stare, di sentire, di rispondere. Si apprende a sospendere il giudizio, a essere presenti, a lasciarsi attraversare.
In tutto questo, la musica – e più precisamente l’improvvisazione – diventa esercizio politico. Non perché esplicitamente ideologica, ma perché riguarda il come abitiamo lo spazio, il come ci relazioniamo all’altro, al territorio, al tempo. Quando un musicista risponde a un rumore di insetti, quando un silenzio diventa partecipazione, quando un gesto trova posto nell’esperienza altrui, allora la musica si fa pratica del legame. Legame che apre spazi di libertà non individuale – che suonano affini ai paradigmi comunalisti – ma collettiva. Un concerto che non è spettacolo individuale, ma intessitura di un tessuto sociale fragile e potentemente vivo.
Ecco perché il Brda Festival non si lascia visitare, ma si vive. Non si consuma, si abita. Non si misura col criterio dello spettacolo, ma con quello della cura: cura del prossimo, del paesaggio, del suono, del silenzio. Cura di ogni gesto, sensibilità, esperienza condivisa. Non un evento tra molti, ma un’esperienza radicale – perché piccola, limitata, lenta – che interroga i modi in cui viviamo e sogniamo il futuro: ecologico, relazionale, politico.
In fondo, la questione che attraversa tutto il festival è questa: come abitiamo il mondo? Come suoniamo il mondo? Come rispondiamo alla complessità che ci attraversa? La risposta del Brda sta qui: nella lentezza, nel dialogo tra passato e presente, nell’ascolto degli spazi, delle piante, delle storie che stanno nelle case, nei corpi, nelle radure. Nella comunità che sgorga da un’accoglienza condivisa, senza pretesa di permanenza, ma proprio per questo capace di lasciare segni profondi. Una esperienza fragilmente potente – una pratica di libertà fondata sul legame.