“Sovranità, Linguaggio e Memoria nella Crisi della Politica Nazionale”
In un tempo in cui ogni decisione sembra presa altrove, in cui il linguaggio è dettato da poteri esterni e la memoria collettiva è smarrita, il vero conflitto non è tra blocchi geopolitici o ideologie contrapposte, ma tra la capacità di una nazione di riconoscere se stessa come soggetto politico e la sua rassegnazione al ruolo di oggetto. Tornare ad avere le chiavi di casa non è gesto simbolico, ma atto fondativo; significa restituire senso alla sovranità, abitare il linguaggio con consapevolezza e costruire un futuro che non sia semplicemente ereditato, ma scelto.
Il punto non è essere atlantisti o antiatlantisti, proamerica o antiamerica, putiniani o antiputiniani.
Il punto è essere padroni a casa propria, e decidere secondo il nostro interesse nazionale.
Qualcuno diceva dell’importanza di avere le chiavi di casa.
C’è un’immagine che ritorna, ostinata, nei discorsi più lucidi quanto in quelli apparentemente marginali: l’immagine della casa, dell’abitazione comune, di quel luogo che non è solo spazio fisico ma condizione politica. Non è un’idea nuova — e forse proprio per questo continua a sfuggire.
L’avere le chiavi di casa: gesto semplice, quotidiano, ma che in sé custodisce la totalità dell’esperienza politica. Chi ha la chiave può entrare e uscire, può custodire e difendere, può accogliere o tenere fuori. Chi non ha la chiave, abita solo in apparenza: è ospite, o peggio, è occupante inconsapevole della propria dimora.
Per questo, oggi più che mai, quando le parole sembrano svuotate e i conflitti sembrano solo repliche sorde, ripetute in loop nei media e nelle sedi istituzionali, occorre tornare a domandarsi: chi ha oggi le chiavi dell’Italia?
Non in senso simbolico, ma in senso strettamente materiale. Chi decide i trattati che firmiamo, i confini che proteggiamo, i debiti che sottoscriviamo, le guerre che sosteniamo — anche solo economicamente, culturalmente, diplomaticamente? Chi stabilisce il perimetro della nostra autonomia?
Negli anni Sessanta, “L’Orologio” scriveva della casa come di un luogo da custodire. E quella casa, allora, era davvero una proiezione concreta dell’identità nazionale: fatta di linguaggio, di lavoro, di educazione, di industria. Era ancora possibile discutere, anche in modo aspro, se appartenere più a un asse o all’altro. Ma la scelta — per quanto condizionata — sembrava appartenere a noi.
Oggi la scelta è ancora nostra?
O, peggio, la stiamo ancora cercando?
La guerra, che abbiamo perso e male — e che continuiamo a perdere ogni giorno, senza accorgercene — non è solo quella combattuta nei campi con le armi. È la guerra semantica, la guerra dell’evidenza, la guerra della narrazione.
Perdere una guerra militare significa cedere territori; perdere questa guerra significa non sapere più come chiamare ciò che ci circonda.
Così, quando si discute di sovranità, lo si fa quasi sempre nei termini imposti da altri: come fosse una concessione, un regalo che può essere rilasciato o ritirato. Si parla di indipendenza come se fosse un’eredità fastidiosa, un fardello ottocentesco; mentre invece è proprio lì, nella capacità di decidere, che si gioca ogni dignità politica.
Non si tratta di coltivare fantasie autarchiche, ma di tornare a distinguere tra cooperazione e subordinazione.
Il problema non è il legame — ogni nazione è legata — ma la qualità del legame.
Essere padroni a casa propria non significa chiudere le porte, ma sapere di poterle chiudere. Significa avere la chiave, e poter decidere chi può entrare e a quali condizioni.
Un popolo che non può dire “no” non è un popolo libero. Un popolo che non può scegliere con chi allearsi, da chi comprare, a chi vendere, come definire la propria sicurezza, non è un popolo sovrano.
C’è poi un’altra verità che dovremmo smettere di eludere: l’Europa non è — oggi — casa nostra. È, nella migliore delle ipotesi, un condominio amministrato da regole imposte da altri, da procedure il cui linguaggio ci è spesso estraneo.
Ogni volta che un regolamento europeo sovrascrive una legge italiana, ogni volta che una direttiva impone un’agenda, ogni volta che un’istituzione ci “raccomanda” una manovra economica, ci viene chiesto di rinunciare a un frammento della nostra chiave.
Il principio non è nuovo: fu già teorizzato nella differenza tra nomos e lex — la legge come ordine originario, e la legge come dispositivo regolatore. Ebbene, la sovranità autentica si colloca nel nomos, in quella originaria possibilità di fondare l’ordine, non solo di adattarsi a quello altrui.
La casa non è quella che ci viene assegnata; è quella che possiamo costruire, custodire, difendere.
Il problema, allora, è che abbiamo smesso di abitare la nostra casa come soggetto. Ne parliamo, ne rivendichiamo il valore, ma non vi siamo più dentro.
E il primo segno di questa diserzione è nel linguaggio: quando l’interesse nazionale diventa parola sospetta, quando il richiamo alla sovranità è liquidato come populismo o arretratezza, quando la cura della lingua, della scuola, della storia diventa marginale — allora la casa è già aperta, esposta, fragile.
Il dominio delle parole precede il dominio delle cose.
Chi nomina, comanda. Chi impone i concetti, orienta i destini.
Per questo oggi, la vera guerra — che continua, sotto altre forme — è una guerra sulle parole. Parole come “democrazia”, “pace”, “libertà”, “diritti”, “interesse nazionale” vengono usate come sigilli, non come strumenti di comprensione.
E quando le parole non servono più a distinguere, ma solo a confondere, non c’è più casa. Solo stanze senza nome, senza chiavi.
La perdita delle chiavi è allora innanzitutto la perdita del linguaggio.
Ma è anche la perdita di memoria. Perché solo chi ricorda può sapere che la casa non è sempre stata così; solo chi ha una narrazione propria può desiderare di tornare a vivere da protagonista.
La memoria — non quella storica nel senso scolastico del termine, ma quella vissuta, incarnata nei luoghi, nei gesti, nelle abitudini — è ciò che distingue una casa da un magazzino.
Che cosa serve per tornare a essere padroni in casa propria?
Serve una politica energetica autonoma. Serve una filiera produttiva nazionale che non sia completamente subordinata a interessi estranei. Serve un sistema scolastico che insegni a pensare, non a conformarsi. Serve un’editoria che non ripeta la voce dell’ospite. Serve una cultura che non sia ancella del mercato.
La vera chiave oggi è la capacità di dire “noi”, senza vergogna e senza arroganza.
Un “noi” che non escluda, ma che definisca. Un “noi” che non sia identitario in senso settario, ma comunitario in senso politico. Un “noi” che sappia che la libertà non è un bene da ricevere, ma una postura da esercitare.
Sappiamo bene che ogni alleanza ha un prezzo. Ma quando il prezzo è la propria voce, allora non è più un’alleanza: è una resa.
Essere europei, essere alleati, essere globalizzati — sono tutte possibilità. Ma devono partire da un centro saldo.
E quel centro è il riconoscimento che esiste una priorità: il bene comune nazionale.
Non come idolo, ma come fondamento.
Non come isolamento, ma come punto fermo da cui guardare fuori.
L’idea che non ci sia alternativa — che non si possa fare altrimenti — è il primo meccanismo della dipendenza.
Chi accetta questa logica ha già consegnato le chiavi.
In questo senso, occorre tornare a pensare la sovranità non come atto muscolare, ma come pratica quotidiana.
Sovranità è decidere i libri scolastici. È scegliere quali lingue promuovere. È controllare i dati, i flussi, i confini.
È, soprattutto, avere una visione.
E una visione non si eredita: si costruisce.
La crisi — che sia economica, culturale, politica — è sempre anche una crisi del desiderio.
Abbiamo smesso di desiderare di essere padroni.
Abbiamo cominciato ad accettare che qualcun altro lo sia, in cambio di stabilità, di protezione, di riconoscimento.
Ma una casa in cui il desiderio è spento è solo una struttura vuota.
Tornare a desiderare di avere le chiavi significa anche accettare il rischio: di sbagliare, di dover negoziare, di restare soli.
Ma è solo nella solitudine che si misura la verità di una vocazione politica.
Non esistono decisioni senza rischio. Ma il rischio maggiore è non decidere.
Il futuro — se esiste — è sempre un atto di fondazione.
E fondare significa abitare, nominare, custodire.
Significa avere una soglia, una porta, e la chiave per aprirla e chiuderla.
Così, quando diciamo che il punto non è essere atlantisti o antiatlantisti, non è per ambiguità, ma per precisione.
Il punto è avere le chiavi. E saperle usare.
Per aprire alla cooperazione, o per chiudere davanti alla minaccia.
Per accogliere, o per dire no.
Per decidere.
Solo così, forse, torneremo a essere presenti nel nostro tempo. Non come comparse, ma come attori.
Solo così la casa non sarà più solo un’immagine perduta, ma un luogo reale.
E le chiavi, finalmente, torneranno nelle nostre mani.