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Concorso Educatori Professionali Socio Pedagogici dei Pedagogisti e Psicologi

Scritto da Danilo Pette il . Pubblicato in .

a cura di Danilo Pette

Concorso pubblico, per il reclutamento di 3.839 unità da assumere con rapporti di lavoro a tempo pieno e determinato, per una durata non superiore a 36 mesi, presso gli Ambiti Territoriali Sociali   

15  al 16 settembre 2025

Ogni concorso pubblico pulsa in un ritmo che è tutto meno che casuale. Dal 15 al 16 settembre 2025, le prove scritte si dispiegano come sospensioni calibrate, una danza di date e luoghi che attraversa l’Italia da Bolzano a Sassari, passando per Roma, Foggia, Chieti, Segrate, Catanzaro. In questo intreccio di sedi, si innesta un numero che racchiude speranze e tensioni: 3.839 candidati destinati a misurarsi con il tempo, con il destino e con un contratto triennale di responsabilità che pesa come una promessa fragile, un ponte incerto tra il possibile e il probabile.
Il concorso non è un semplice bando, è un invito silenzioso a diventare “funzionario”, senza diritti pieni da dirigente, ma con un’aura di competenza e autorità da conquistare. È un gioco di sigle — C3, A2, B2, D2 — che definiscono ruoli e profili ma nascondono storie di persone: psicologi che guardano all’ascolto come a un gesto sacro, amministrativi che sostengono con pazienza la macchina pubblica, educatori che intrecciano il loro sapere con la realtà spesso fragile del territorio. Dietro quei numeri e quelle lettere c’è una promessa di servizio, un affetto implicito verso il bene comune, che rende ogni test una piccola prova d’amore civile.
Nel cuore della prova, il calcolo matematico si fa cifra di destino: +0,50 per ogni risposta esatta, -0,15 per ogni errore, zero per il silenzio. Il confine è netto, il 21 su 30 è la soglia che separa chi entra da chi resta fuori, un confine fragile che trasforma l’esame in un rito moderno. Bag shield, QR code, tablet associati, orologi digitali scandiscono un rituale quasi sacro: spegnere il telefono, chiudere fuori il mondo, entrare in uno spazio-tempo sospeso dove la tensione è una forma di rispetto verso il ruolo che si desidera incarnare. Un’ora e mezza dove il gesto, il respiro, la decisione diventano atti di responsabilità, piccoli passi verso la costruzione di un welfare che parla di prossimità e umanità.
Ogni sede, ogni cognome, è un tassello di un mosaico più grande, un’Italia che si mette in fila, che si siede alle stesse postazioni, respira la stessa aria rarefatta dell’attesa. Si immagina una ragazza di Chieti con un cognome che comincia per “I”, un giovane di Foggia con “L”, uno studente di Scienze Politiche che a Roma scommette su un futuro di pubblico impiego. Tutti insieme, un’orchestra silenziosa che si muove tra procedure scritte e domande situazionali — quelle più difficili, che non chiedono solo nozioni, ma risposte in carne e ossa, decisioni prese nel crocevia tra etica e regola.
Ma il concorso non è solo uno scontro tecnico. È uno specchio delle trasformazioni del lavoro pubblico, della precarietà dei contratti, della responsabilità che pesa su chi – anche solo per 36 mesi – si trova a gestire fragilità sociali, a mediare tra leggi e umanità. Non è facile trovare un equilibrio tra la necessità di qualificare il personale e la realtà di un impiego spesso temporaneo, che rischia di minare il senso di appartenenza e la continuità del servizio. Il pubblico impiego si rinnova con fatica, cercando di coniugare stabilità e flessibilità, professionalità e innovazione.
Nel sistema dei concorsi, si intrecciano dinamiche complesse: la selezione tecnologica che elimina arbitrarietà, la griglia anonima che protegge ma che al contempo rende impersonali i vincitori, la tensione tra merito e aspettativa. Qui si gioca una partita non solo contro gli altri candidati, ma con se stessi, con le proprie paure, con la forza di restare lucidi e dignitosi davanti a un destino segnato da una soglia numerica. Ogni domanda è un bivio tra legalità e giustizia, tra l’applicazione fredda di una norma e l’esercizio vivo di una funzione pubblica che deve restare umana.
In questo quadro, la nuova Area dei Funzionari e dell’Elevata Qualificazione emerge come una sfida doppia: non si tratta solo di assumere personale, ma di trovare persone che sappiano interpretare il ruolo pubblico come atto di pensiero, azione e cura. È un richiamo a un lavoro che non si limita a eseguire, ma che vuole innovare, includere, ascoltare. I profili selezionati saranno chiamati a lavorare negli Ambiti Territoriali Sociali, luoghi di prossimità, di incontro diretto con i bisogni reali delle comunità. Non è più tempo di uffici chiusi o palazzi di vetro: il futuro della PA è nelle piazze, nei municipi, nei territori.
Ecco allora il paradosso: una macchina istituzionale sempre più digitalizzata, tecnologica, algoritmica, che però deve continuare a fondarsi su una rete di relazioni umane, di fiducia, di cura. L’innovazione deve incontrare la responsabilità, la competenza tecnica deve farsi etica e senso civico. È questa la vera posta in gioco, nascosta dietro il codice QR, il timer del tablet, il punteggio del test.
Guardando oltre la prova, si scorge un’Italia che prova a ritrovarsi nella sua forma più autentica: quella di un pubblico che non si limita a erogare servizi, ma che costruisce tessuti di solidarietà e cittadinanza. Dietro i numeri, le procedure, le sedi e i cognomi, c’è la necessità di riannodare il filo tra Stato e società, tra diritto e vita, tra dovere e umanità. Quel concorso, con le sue regole e le sue tensioni, è un piccolo laboratorio di futuro, un atto di resistenza civile che, pur nella sua apparente freddezza, sa parlare di speranza.

 

https://www.inpa.gov.it/bandi-e-avvisi/dettaglio-bando-avviso/?concorso_id=029f4da8efa440abb041e101af8639f3

 

 

 

 

 

 

 

 

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