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Dazi USA sulla pasta

Dazi USA sulla pasta italiana: non è una mossa di Trump ma una misura tecnica.
 Scopriamo i veri motivi del 107% e cosa succede ora. Aziende poco preparate e buyer aggressivi: ecco perché solo alcuni produttori pagano il prezzo più alto. 
In un mondo dove le notizie viaggiano alla velocità della luce, la storia dei “dazi USA del 107% sulla pasta italiana” ha fatto scalpore, scatenando accuse contro l’amministrazione Trump e visioni apocalittiche per il Made in Italy.

Ma fermiamoci un attimo e guardiamo come sempre ai fatti con fonti e dati certi.

La realtà è ben diversa.

Non si tratta di una vendetta protezionista post-accordi con l’UE, né di un attacco generalizzato al nostro settore. È una misura preliminare, basata su procedure standard del Dipartimento del Commercio americano, e l’errore – se di errore si può parlare – parte da una mancata cooperazione delle aziende coinvolte.

Andiamo con ordine, sfatando miti e chiarendo i fatti.

La verità sui dazi: non il 107% su tutto il comparto pasta, e Trump non c’entra

Prima di tutto, chiariamo: il famigerato “107%” non è un dazio imposto dall’alto dall’amministrazione Trump come ritorsione agli accordi USA-UE di agosto 2025 (oltretutto concordati).

Quegli accordi, siglati il 21 agosto tra il presidente Trump e Ursula von der Leyen, introducono una tariffa generale del 15% su molti import dall’UE (esclusi aerei, farmaci e risorse naturali), con l’obiettivo di un commercio “reciproco e bilanciato”.

Ma il componente antidumping del 91,74% – che porta al totale del 107% – deriva da un’indagine separata, avviata ben prima dell’insediamento dell’attuale amministrazione, nel quadro delle leggi antidumping USA, in linea con le regole WTO.

L’annuncio preliminare è arrivato il 4 settembre 2025 dal Dipartimento del Commercio (DOC), in un documento pubblicato sul Federal Register.

Questa revisione amministrativa copre il periodo dal 1° luglio 2023 al 30 giugno 2024 e non ha nulla a che fare con decisioni politiche recenti. 
Trump? Non pervenuto nei documenti ufficiali.

È una procedura tecnica, attivata su richiesta di produttori USA come 8th Avenue Food & Provisions e Winland Foods, che accusano dumping – vendite sottocosto per danneggiare la concorrenza domestica. 
Ma, come testimone oculare di negoziazioni con buyers americani, so che i prezzi bassi spesso derivano da pressioni aggressive dei distributori USA, non da strategie sleali italiane.

Gli importatori dettano termini duri (fanno bene il loro lavoro massimizzando i loro profitti), e gli esportatori accettano “ob torto collo” per non perdere quote di mercato (anche se altre strade si potrebbero trovare). Comunque sono i buyers a fare gli utili veri e non possiamo certamente parlare di dumping intenzionale.

L’errore a monte: mancata cooperazione e inferenze avverse

Ecco il nocciolo: l’alto margine del 91,74% non è basato su prove schiaccianti di dumping, ma su “facts available with adverse inferences” (AFA), un meccanismo punitivo previsto dal Tariff Act del 1930.

In pratica, quando le aziende non forniscono i dati richiesti – questionari su costi, vendite e verifiche – il DOC assume il peggio, applicando il tasso più alto da procedimenti precedenti.

Ce ne sono decine e decine di casi analoghi che riguardano altri settori ed altri Paesi.

Nel caso specifico, La Molisana S.p.A. e Pastificio Lucio Garofalo S.p.A., selezionate come “mandatory respondents” per esame individuale, non hanno cooperato pienamente. Perché? I questionari sono complessi, richiedono dati sensibili e risorse, e forse c’è stata una sottovalutazione del rischio. Risultato: AFA applicata, con un margine esagerato che non riflette la realtà economica.

Questo “errore a monte” – la mancata risposta – ha gonfiato la misura, ma è responsabilità delle aziende coinvolte, non di un complotto USA. È cruciale collaborare in queste indagini in maniera esaustiva e tempestiva: ignorarle porta a sanzioni automatiche.

E attenzione, la decisione era ancora preliminare, le parti potevano presentare commenti entro il 25 settembre 2025, rigettare il tutto entro il 30, con i risultati finali arriveranno entro gennaio 2026.

C’era e c’è ancora spazio (immagino) per correzioni, e il governo italiano, con il ministro degli Esteri Antonio Tajani, sta già premendo con l’UE per una revisione.

Ciclicictà del fenomeno

Un breve precedente del 2016 — quando anche alcune grandi marche italiane furono coinvolte in indagini antidumping — conferma la ricorrenza del problema. Nel dicembre 2016 il Department of Commerce pubblicò i risultati finali di una “antidumping administrative review” per la pasta italiana nel periodo 2014-2015. Federal Register

In quel contesto, aziende come Barilla e De Cecco erano già oggetto di verifiche — in particolare, De Cecco era stata sanzionata con un margine antidumping elevato dopo rifiuto parziale di cooperare, mentre Barilla USA fu segnalata nei dossier come operatore connesso a produttori italiani. usitc.gov+2access.trade.gov+2

Questo precedente mostra che l’industria italiana della pasta è periodicamente soggetta a controlli tecnici Usa: la novità del 2025 non è una rottura assoluta, ma un’eco di problemi già emersi.

Non tutto il comparto: solo aziende specifiche, ecco perché

Un altro mito da sfatare: non è un dazio su tutta la pasta italiana, ma “antidumping duty” — cioè un diritto compensativo speciale applicato in seguito a un’indagine del Department of Commerce (DOC), applicato ad alcune aziende.

La misura colpisce solo realtà specifiche, lasciando il resto del settore relativamente indenne (con il “all-others rate” del 15,45% da precedenti recensioni). Perché proprio loro? Il DOC ha avviato la review su 18 entità, basandosi su richieste tempestive e entries durante il periodo. Ha selezionato La Molisana e Garofalo come mandatory per il loro volume di export significativo, come dettagliato in un memo del 4 ottobre 2024. Il tasso del 91,74% si estende a 11 aziende non esaminate individualmente, perché la review era limitata a quelle con attività commerciali revisionabili.

In sintesi, solo chi ha esportato nel periodo e non ha cooperato pienamente rischia grosso. Il resto del comparto – pensate a giganti non elencati – continua con tariffe gestibili, preservando i 670 milioni di euro annui di export verso gli USA.

Impatti e prospettive: un colpo mortale? Non proprio, ma serve azione

Se confermati, questi dazi potrebbero raddoppiare i prezzi per i consumatori USA, favorendo imitazioni “Italian sounding” e costando caro alle aziende colpite. Ma è un’opportunità per il settore: più cooperazione nelle indagini future e pressing diplomatico per riequilibrare. Associazioni come Coldiretti e Unione Italiana Food lo definiscono un “insulto al Made in Italy”, e hanno ragione – ma la soluzione sta nel dialogare, non nell’accusare.

Il vero nemico non è quindi Trump, ma le dinamiche di mercato.

Stay tuned per aggiornamenti – e ricordate, la pasta italiana vince sempre, ma nel mercato americano non sono ammesse sviste e si deve uscire dalle strettoie dei margini, immaginando un nuovo modello di business.


Foto autore articolo

Gabriele Felice

Gabriele Felice Founder & CEO ISW Italian Store World | Connecting the Best of Italy with the Western Market | https://www.italianstoreworld.com https://medium.com/@Gabriele.Felice https://www.italiareportusa.com/author/gabriele-felice
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