Debito-PIL e deficit-PIL in Italia e UE
Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in Economia e Politica.
A cura di Agostino Agamben
I numeri del secondo trimestre 2024 come sintomo di una crisi più profonda
Non è mai il numero in sé a parlare. È il suo contesto, il suo utilizzo, la narrazione che lo avvolge come una nebbia semantica a dirci cosa davvero rappresenta. E oggi, quando la Commissione europea pubblica i dati relativi a debito e deficit dei Paesi membri, lo fa come un medico che, mostrando le radiografie, tace sulla malattia sistemica. È così che si può leggere il rapporto Eurostat sul secondo trimestre del 2024: non come un elenco di percentuali, ma come il racconto di un’Europa che oscilla tra il rigore contabile e la dissoluzione del politico.
Alla fine del secondo trimestre, il rapporto debito/PIL dell’area euro è salito all’88,1%, rispetto all’87,8% del primo trimestre. Nell’intera Unione Europea, l’81,5% contro l’81,3%. Una variazione minima, verrebbe da dire. Ma in questo margine impercettibile si gioca una guerra silenziosa: quella tra sovranità e tecnocrazia, tra contabilità e democrazia. Più che numeri, sono soglie: frontiere invisibili che separano i Paesi “virtuosi” da quelli “devianti”, gli affidabili dai sorvegliati speciali. E l’Italia, ancora una volta, rientra tra questi ultimi.
Con un rapporto debito/PIL del 137%, l’Italia si conferma seconda solo alla Grecia (163,6%). Seguono la Francia (112,2%), il Belgio (108%), la Spagna (105,3%) e il Portogallo (100,6%). In fondo alla classifica, Bulgaria (22,1%), Estonia (23,8%) e Lussemburgo (26,8%). La frattura è evidente: un’Europa spaccata in due — quella del Nord e del Centro che accumula credito politico, e quella del Sud che trattiene, come può, i margini della propria legittimità.
Ma non si tratta solo di bilanci. Questi numeri sono mappe di potere. I rapporti debito/PIL più alti coincidono con economie la cui funzione pubblica è stata cannibalizzata dalla necessità di rifinanziare se stesse. Dove il debito non è più un mezzo, ma una condizione permanente dell’agire. La logica che regge il Patto di Stabilità si è mutata in dispositivo disciplinare. E il debito, lungi dall’essere una variabile, è divenuto una forma di governo.
Un’osservazione più ravvicinata del trimestre mostra che nove Stati membri hanno registrato un aumento del rapporto debito/PIL: Finlandia (+2 punti percentuali), Austria e Italia (+1,8), Francia (+1,6), Portogallo (+1,2), Polonia (+0,9), Svezia (+0,6). Altri diciassette Paesi hanno invece visto una riduzione, e uno — la Danimarca — è rimasto invariato. Su base annua, i segnali sono ancor più complessi: tredici Paesi hanno aumentato il proprio debito, tredici lo hanno ridotto, mentre la Repubblica Ceca è rimasta stabile.
Il caso della Grecia è emblematico: pur restando in cima alla classifica, ha ridotto il suo rapporto di quasi 9 punti. A Cipro, il calo è stato di 10 punti. Questi numeri suggeriscono un’ipotesi inquietante: che il contenimento del debito sia possibile, ma solo a patto di sacrifici sociali tali da mettere in discussione il patto democratico stesso. È un prezzo che alcuni governi sono disposti a pagare, e altri no.
Allo stesso tempo, il deficit pubblico — l’altro parametro del comando economico — racconta una storia parallela. Nel 2023, nell’area euro, è salito dal 3,5% al 3,6%; nell’intera UE, dal 3,2% al 3,5%. Ma il dato che davvero pesa è quello italiano: -7,2%, il peggior deficit dell’intera Unione, seguito da Ungheria (-6,7%) e Romania (-6,5%). La soglia “sacra” del 3%, che dovrebbe rappresentare un limite invalicabile secondo il Patto di Stabilità, è stata superata da dieci Stati membri. Ma mentre alcuni lo fanno per sostenere investimenti strategici, in Italia questo sforamento è il riflesso di una macchina statale che continua a funzionare in emergenza permanente.
Confindustria, nel suo ultimo rapporto, ha ridimensionato le stime di crescita per il 2024 a un modesto +0,8%, in calo rispetto allo +0,9% previsto in aprile. Eppure, anche in questa crescita fiacca si cela un altro nodo irrisolto: la struttura produttiva italiana è ancora vincolata a dinamiche pre-pandemiche, e la trasformazione del PNRR da piano di rilancio a protocollo tecnico ne è l’emblema. Il vero problema non è tanto il livello del debito, ma la sua sterilità: un debito che cresce, ma non genera sviluppo.
La fotografia scattata dalla Corte dei conti europea non fa che aggravare il quadro: il rischio del doppio finanziamento — ovvero la possibilità che uno stesso progetto venga finanziato due volte con fondi europei diversi — mina alla base l’efficacia degli strumenti messi in campo per la ripresa. La linea ferroviaria Koralm in Austria, finanziata sia dal Recovery Fund che dal Meccanismo per Collegare l’Europa, diventa l’esempio paradigmatico di una governance incapace di tenere traccia del proprio operato. Non è solo inefficienza: è un difetto di legittimità, un cortocircuito tra controllo e responsabilità.
Ma il paradosso più profondo è forse quello delle misure “a costo zero”: riforme formalmente prive di impatto economico, che tuttavia producono conseguenze non contabilizzate. Anche qui, l’illusione è tecnica: pensare che il cambiamento possa essere implementato senza costo, che la trasformazione istituzionale sia una voce neutra nel bilancio. Ma nulla è gratuito, nemmeno il silenzio della burocrazia.
E mentre la BCE, per bocca di Christine Lagarde, apre con cautela all’ipotesi di un taglio dei tassi già a dicembre 2024, c’è un altro segnale che va colto: l’inflazione, pur in calo, resta incollata al 3,9% nel settore dei servizi. Il 2% sembra vicino, ma la strada non è ancora chiara. Il rallentamento dei prezzi non è lineare, e la discesa dell’inflazione non garantisce affatto la ripresa.
Nel frattempo, il differenziale tra costo del debito e crescita nominale — un tempo elemento di equilibrio — è tornato ad essere positivo: +0,9 punti nel 2024, +0,1 nel 2025. Questo significa che il costo del debito pubblico supera il tasso di espansione dell’economia. E significa, soprattutto, che la trappola del debito si è richiusa. In questo contesto, l’Italia stima un debito al 136,9% del PIL nel 2024, in salita, e al 138,5% nel 2025. Non è solo una cifra: è una condizione. Non più emergenza, ma norma.
Lo stesso avanzo primario, che per anni è stato sbandierato come segno di virtù fiscale, resta irrisorio: 0,1% nel 2024, 0,7% nel 2025. Inadeguato per incidere. La realtà è che l’Italia, come altri Paesi, è prigioniera di una governamentalità per parametri, dove l’economia è ridotta a un esercizio di compliance contabile, e ogni manovra è vincolata a limiti che escludono il politico dalla scena.
Questa forma di governo, fondata su indicatori oggettivi, è la vera eredità dell’Europa post-Maastricht. E oggi, il Patto di Stabilità — anche nella sua nuova veste — non fa che confermare la transizione da una sovranità fondata sulla legge a un governo fondato sull’algoritmo del rischio. La soglia del 3%, quella del 60%, non sono più soglie
contabili, ma simboli di un ordine morale.
Nel tempo in cui il debito diventa criterio di giudizio e strumento di disciplina, parlare di PIL non basta. Bisogna interrogare le strutture che rendono questi numeri così decisivi, così pesanti. In gioco non c’è solo il futuro dell’Italia, ma l’idea stessa di cosa significhi oggi governare un’economia democratica in Europa.