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Diabolik

Ginko all’attacco

Dopo il grande successo del primo, riuscitissimo film Diabolik (2021), i Fratelli Manetti tornano, è proprio il caso di dirlo, sul luogo del delitto con questo seguito che dà largo spazio, anzi si può dire che veda al centro della vicenda l’acerrimo nemico del criminale, il commissario Ginko della polizia di Clairville: in questo primo seguito (un altro ne seguirà il prossimo anno, adesso in fase di postproduzione) il film si apre con l’ennesimo colpo messo a segno da Diabolik, che prima ruba una preziosa corona di una famosa collezione di gioielli, poi durante la presentazione-celebrazione della stessa durante un balletto riesce a portare via anche tutto il resto; ma il criminale, affiancato dalla bella compagna lady Eva Kant, non sa che è stato spruzzato un gas radioattivo sulla refurtiva che permette al commissario e alla sua squadra di arrivare velocemente al suo rifugio e di mettere in fuga i due criminali. A questo punto a entrare in scena da protagonista è la complice-amante di Diabolik, che inizia col commissario una caccia al ladro che finirà come sempre colla vittoria del male sul bene, com’è sempre nello spirito e nei fumetti creati dalle sorelle milanesi Angela (1922-1987) e Luciana Giussani (1928-2001): il film è una via di mezzo, come il precedente, tra il fumetto stesso originale e il videoclip, ma rispetto al precedente che doveva confrontarsi con il Diabolik (1968) del grande regista di genere Mario Bava (1914-1980) e ne era uscito, tutto sommato, abbastanza bene, qui il seguito è abbastanza deludente; forse anche perché l’antieroe stesso è poco visibile e Giacomo Gianniotti, pur volenteroso ed atletico, non ha la stessa espressione e forza recitativa di Luca Marinelli, che aveva retto bene il confronto con John Phillip Law (1937-2008) ed anzi ne era, si può dire, uscito vincitore.

Diabolik sembra quasi non esistere e nel film, ricalcato sulle tavole del fumetto, la sua personalità sembra quasi assente, così come una sua volontà al di là di come vuole condurre i colpi: l’idea sarebbe che il personaggio iniziava in modo gelido nel film precedente e l’incontro e la frequentazione con Eva Kant lo riscaldi progressivamente, ma questo non si percepisce mai, anzi il protagonista salta da uno stato d’animo all’altro, dal distaccato al coinvolto, senza esprimere qualcosa che assomigli ad un suo profilo netto, o dirci nulla di sé al di là di come vuole condurre i colpi; è la scelta forse più emblematica di questo secondo film che si distanzia molto dal primo, anzi ne riproduce tutte le decisioni.

L’inizio del film presenta i titoli di testa che ricalcano quelli dei film di James Bond ed anche il brano cantato da Diodato va in questa direzione facendo sperare in qualcosa di buono ed autenticamente originale, poi arrivano i dialoghi che sembrano presi direttamente dal fumetto degli anni 60’ e che vogliano quasi spiegare tutto, ma non sono dialoghi da film, con la pretesa di una supposta solennità e senza averne il tono e il fascino: più che dialoghi sembrano dei meccanismi per spiegare agli spettatori quello che avviene e ciò che pensano i personaggi, senza realizzare che tutto questo possa uscire fuori da sé, dalle immagini: tutto questo si riflette nei dialoghi e nell’interazione tra Diabolik e la sua amata,  ma questa sembra quasi una nota storta in un film che vede come protagonisti Ginko e la polizia di Clerville, impegnati in una caccia senza sosta alla coppia di criminali; i profili meglio descritti in modo dettagliato sono quelli dell’ispettore e dei suoi uomini, tutti tesi a liberare la città e lo stato immaginari dalla presenza inquietante e continua di Diabolik, ritratti non come figure e figurine senza spessore o personalità, ma come tutori dell’ordine determinati e con una propria coscienza e dirittura morale.

 La cosa è molto evidente quando entra in scena, nella parte della poliziotta Elena, Linda Caridi, che esprime un sentimento autentico per un altro poliziotto: lei è un personaggio reale, vivo, con desideri e personalità autentici, e sembra quasi rubare la scena ed essere fuori posto nel film: così come sembra venire ad un altro pianeta o. per meglio dire, da un altro film Valerio Mastandrea, autore di una superba prova recitativa, senza alcun dubbio la parte migliore del film, al di là delle battute e dei dialoghi quasi risibili, ma a cui corrisponde un personaggio dall’aria malinconica e quasi dimessa, che crea un suo personaggio solo con la sua interpretazione

attoriale e che, partire dal fumetto, cresce progressivamente e arriva poi ad offrire una determinazione che nasconde una grande umanità; il film sembra tuttavia non accorgersene e continua a fargli fare lentissimi inseguimenti a piedi, oltre ad una storia d’amore clandestina con la contessa Altea di Vallenberg (interpretata da Monica Bellucci, brava e ancora molto affascinante).

I problemi arrivano poi anche con la sceneggiatura, i dialoghi e le performance di alcuni attori: sebbene ci siano dei colpi di scena, l’intreccio è privo di sorprese assolute e basta essere un minimo avvezzi alle logiche narrative del fumetto delle Giussani, o comunque di un qualsiasi thriller di media fattura, che la trama diventa più che prevedibile; nella prima metà è gia tutto intuibile, i dialoghi inoltre sono terribilmente didascalici e piatti, nonché abbastanza improponibili al giorno d’oggi.

Se da un lato è comprensibile la volontà di rimanere fedeli ad un certo stile di scrittura, che andava bene negli anni 60’, dall’altro si può discutere se un’attualizzazione sarebbe stata necessaria per rendere il genere meno pedissequo: le ambientazioni, le scenografie e gli esterni (il film è stato girato a Milano, in Emilia Romagna e a Trieste), così come i costumi sono perfetti nel richiamare alla menta tutta l’iconografia che caratterizzava le tavole di Diabolik, dal covo zeppo di marchingegni e trappole alla jaguar, fino alle mise dei tre protagonisti; le musiche sono belle e funzionali al film, ricreando le atmosfere create da John Barry per i film di 007

Se Giacomo Gianniotti funziona come presenza scenica, Miriam Leone è bella e affascinate come sempre ma nulla più di questo: il film, una coproduzione in cui figura anche Rai Cinema, è un godibile passatempo di quasi due ore, ma perde nettamente, almeno questa sua seconda parte, il confronto con l’ormai classico film di Bava (sarebbe stato bello se dietro la macchina da presa ci fosse stato il figlio Lamberto), girato quasi in tempo reale con il fumetto nato negli anni Sessanta e pieno di quelle atmosfere care alle avanguardie artistiche pop, sessantottine e warholiane dell’epoca. quasi impossibili ormai da riproporre e presentare in quest’età postmoderna e postcontemporanea.

Marti Francesca